Mentre insieme cercano di sconfiggere i ribelli Houthi, Riyadh e Abu Dhabi competono tra loro per garantirsi l’influenza sullo Yemen del futuro

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:19

Nello Yemen, unica repubblica della Penisola arabica, lacerata da un conflitto civile (ma a partecipazione regionale indiretta) che dura ormai dal marzo 2015, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Oman sono sempre più rivali. Uniti dalla lotta contro gli houthi, gli insorti sciiti zaiditi del Nord sostenuti dall’Iran, ma divisi sul futuro del Paese. Porti commerciali e infrastrutture civili, postazioni militari, milizie locali, scuole coraniche e iniziative umanitarie sono gli strumenti di una disputa che, soprattutto nel Sud costiero, sta tracciando i contorni delle ostilità del futuro, facendo leva sulle tentazioni separatiste e/o autonomiste della maggioranza degli yemeniti delle regioni meridionali e intrecciandosi con la crescente politicizzazione e militarizzazione del salafismo.

 

Nello Yemen in guerra, la competizione geopolitica fra monarchie vicine, tutte appartenenti al campo dell’Islam sunnita (con l’eccezione del Sultanato ibadita), è una dinamica celata ma insidiosa. A differenza di quanto accaduto nella competizione intra-sunnita che ha contraddistinto il dopo rivolte arabe del 2010-11, il Qatar non è tra i protagonisti: oggi, a contendersi gli spazi territoriali, politici, militari e religiosi yemeniti sono soprattutto sauditi ed emiratini, ufficialmente alleati e leader della coalizione militare araba che si oppone ai ribelli houthi. In tale quadro, anche l’Oman, seppur con la consueta discrezione e senza sponsorizzare gruppi armati locali, sta cercando di rafforzare la sua influenza nell’Est dello Yemen, in risposta all’assertività dell’Arabia Saudita che, a sua volta, cerca di controbilanciare le spinte egemonizzanti degli Emirati.

 

Sin dall’inizio del conflitto, l’Arabia Saudita si è focalizzata sul confinante Nord dello Yemen e sulla lotta agli houthi, mentre gli Emirati hanno concentrato i loro sforzi a Sud, ricostruendo il settore della sicurezza nelle aree prive di governo o liberate dagli insorti e contrastando le formazioni jihadiste, come Al-Qaeda nelle Penisola Arabica (AQAP). Questa suddivisione dei compiti (con i sauditi alla guida delle operazioni aeree e gli emiratini di quelle di terra) è diventata, nei fatti, una spartizione geopolitica: le poche aree che non sono state raggiunte né dalla guerra né dagli houthi, come l’isola di Socotra e la regione orientale di Mahra, sono comunque oggetto di interferenze esterne e di una crescente militarizzazione favorita da attori terzi.

 

 

Il sostegno a governi rivali

Sauditi ed emiratini sostengono inoltre due “governi” rivali. L’Arabia Saudita appoggia l’esecutivo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale, quello del presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi (il cui interim è però scaduto dal 2014, prima che il conflitto avesse inizio), rilocato ad Aden dopo il golpe degli houthi a Sana‘a (era il gennaio 2015), ma di fatto basato a Riyadh. I sauditi, che puntano a uno Yemen federale ma unito, sono i primi sponsor del generale Ali Mohsin Al-Ahmar, uomo vicino all’Islah, il partito che raccoglie anche i Fratelli Musulmani locali: già alleato dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh e oggi vice presidente dello Yemen, Ali Mohsin sta riorganizzando dalla regione nordorientale e semi-autonoma di Mareb ciò che resta dell’esercito yemenita.

 

Gli Emirati sono invece informalmente alleati del Consiglio di Transizione del Sud (STC), l’organismo dell’ex governatore di Aden Aydarous Al-Zubaydi. Autoproclamatosi entità di governo nel 2017, con sede ad Aden e chiare rivendicazioni secessioniste, il STC è l’evoluzione istituzionale del Movimento Meridionale, fondato nel 2007. Le tante milizie locali organizzate, addestrate e finanziate dagli emiratini (come le Security Belt Forces di Aden, le Hadhrami e le Shabwani Elite Forces in Hadhramaut e Shabwa), coniugano simpatie salafite e spinte secessioniste, sostenendo il STC. Come riportato dal Panel degli esperti delle Nazioni Unite, queste milizie, istituzionalizzate dal presidente Hadi nel 2016 e dunque formalmente parte del settore della sicurezza regolare, rispondono di fatto agli emiratini, non al governo yemenita. Proprio la saldatura fra secessionismo meridionale e salafismo armato, incoraggiata dalla tutela di Abu Dhabi in chiave anti-Fratellanza Musulmana, è la principale ricaduta della forte penetrazione economico-militare degli Emirati in Yemen.

 

Le regioni del Sud dello Yemen presentano una grande pluralità identitaria. Unite contro i nordisti incarnati da Saleh e Ali Mohsin, cui non hanno mai perdonato la riunificazione del 1990 (vissuta come un’annessione) e la conseguente marginalizzazione socio-politica, esse sono però divise su governance locale, confini amministrativi e distribuzione delle risorse naturali (petrolio, gas, terra coltivabile). È in questa convergenza/divergenza di interessi che le monarchie del Golfo si stanno inserendo, stringendo alleanze locali in chiave geopolitica.

 

 

Una “Via della Seta” emiratina

Dalle coste dello Yemen meridionale, gli Emirati disegnano la loro “Via della Seta” marittima, che ha il suo centro strategico nello stretto di Bab el-Mandeb: proiettata su Corno d’Africa e Oceano Indiano occidentale, essa è punteggiata di porti commerciali, controllati, in concessione o in costruzione (come Al Mokha, Aden e Mukalla), utili per aggirare lo stretto di Hormuz attraverso Fujairah e dispone di postazioni militari nell’Hadhramaut costiero, nelle isole di Perim e  Socotra. La presenza di proxies (le milizie istituzionalizzate) evidenzia la centralità della dimensione militare nell’odierna politica emiratina.

 

L’intreccio di sostegni incrociati fra Riyadh, Abu Dhabi e Muscat è potenzialmente pericoloso per lo Yemen: già nel 1986, i sudisti combatterono una breve ma sanguinosa guerra civile, che provocò 10.000 morti. Peraltro in Yemen, si fa presto a dire “Sud”: le differenze su base regionale e/o tribale sono fortissime, anche se, a causa dell’esperienza socialista della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud (PDRY), le appartenenze tribali sono qui più sfumate se paragonate al Nord. Per esempio l’Hadhramaut, la regione del Paese più ricca di petrolio, è storicamente legata ai sauditi, mentre l’orientale Mahra, al confine con il Sultanato di Qaboos, è territorio d’influenza omanita, anche grazie alla contiguità socio-economica con la regione del Dhofar e alla presenza di tanti locali con passaporto di Muscat.

 

 

La gara per Socotra e la regione di Mahra

Dal 2015, la rivalità fra le monarchie del Golfo in Yemen si è fatta intensa. L’isola di Socotra, 60.000 abitanti, una sintesi tra mondo arabo, africano e indiano, già protetta dall’Unesco per la sua biodiversità, è diventata il fulcro delle ambizioni geostrategiche della federazione guidata dal principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan (MbZ). Anche qui, MbZ ha alternato hard e soft power. Da un lato, soldati e mezzi pesanti emiratini hanno di fatto occupato l’isola e iniziato a formare una milizia locale; dall’altro strade, complessi residenziali, scuole e ospedali sono stati costruiti grazie agli ingenti aiuti di Abu Dhabi, che non è però riuscita a fugare il timore che Socotra possa essere snaturata dalla trasformazione in un’isola per turisti facoltosi. Nel maggio 2018, dopo le manifestazioni di protesta dei molti socotri che denunciavano “l’occupazione” del proprio territorio, gli Emirati hanno avviato la riduzione della loro presenza militare, in seguito a un accordo mediato dall’Arabia Saudita con le autorità isolane. Subito dopo, è stata però Riyadh a svelare i suoi “piani di sviluppo” per Socotra.

 

Un copione simile si è riproposto nella regione di Mahra, al confine con l’Oman, rimasta neutrale durante il conflitto. Di fronte alla crescente ingerenza militare degli Emirati, accusati di voler creare una milizia locale anche in questa remota regione di 350.000 abitanti, l’Arabia Saudita ha dispiegato le sue forze militari, prendendo il controllo delle principali infrastrutture civili (l’aeroporto di Al-Ghayda, il porto di Nishtun), ufficialmente per contrastare le attività di contrabbando lungo il confine fra Yemen e Oman. I sauditi hanno anche pianificato di riaprire a Qishn la scuola salafita di Dar Al-Hadith, già avamposto della lotta contro gli houthi a Dammaj (Saada). Di fronte alle proteste dei locali contro la presenza militare-religiosa di Riyadh, iniziate nell’aprile 2018 e verosimilmente appoggiate dall’Oman in chiave anti-saudita ed emiratina, l’Arabia Saudita e le autorità di Mahra hanno siglato un accordo per il ritiro delle forze saudite e il ritorno dei mahri alla gestione della sicurezza locale. Tuttavia, la reale applicazione di questo patto, come quello di Socotra, rimane incerta e contestata da alcuni esponenti locali: un’ipotesi suffragata dalla possibile costruzione di un porto per l’esportazione del petrolio saudita, nel distretto di Nishtun.

Map of Yemen [Rainer Lesniewski-Shutterstock].jpgMappa dello Yemen [Rainer Lesniewski-Shutterstock]

 

Al-Hudayda e il Mar Rosso

È dunque in Yemen che rischiano di scontrarsi le ambizioni geopolitiche di Arabia ed Emirati. Nella città occidentale di al-Hudayda, ancora controllata dagli insorti, sono gli emiratini a guidare la campagna di terra partita lo scorso giugno, con forze speciali e milizie locali: ma quest’area, affacciata sul Mar Rosso, rientra nella sfera d’influenza saudita, poiché Riyadh sta massicciamente investendo in progetti economico-infrastrutturali (NEOM, the Red Sea Project). Il controllo del porto di al-Hudayda, una volta che gli houthi saranno costretti a ripiegare all’interno, vedrà gli emiratini in netto vantaggio rispetto ai sauditi, forti di alleanze politiche e militari nell’area: Riyadh e Abu Dhabi dovranno trovare un compromesso, pena il logoramento della diarchia che ha di fatto commissariato il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG).

 

Da sempre esposto alle interferenze del vicino saudita, lo Yemen lacerato dal conflitto offre alle monarchie del Golfo nuovi canali d’influenza. Mentre l’Arabia Saudita utilizza la tradizionale leva wahhabita (dagli effetti finora limitati data la predominanza nel Paese della scuola shafiita) e l’Oman blandisce i nostalgici del Sultanato di Qishn e Socotra, gli Emirati Arabi spingono una parte del mondo salafita al di fuori della tradizionale postura quietista, assecondando le pulsioni separatiste di gruppi anche armati. In questa rischiosa partita, nessun’area dello Yemen può considerarsi al riparo.

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