La battaglia di Marawi è l’ultimo capitolo di un percorso di radicalizzazione di gruppi locali anti-governativi

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 10:43:21

Il 23 maggio scorso, le autorità locali di un distretto di Marawi, una città a larga maggioranza musulmana situata nella provincia di Lanao del Norte a Mindanao (Filippine), stavano tenendo sotto sorveglianza Omarkhayam e Abdullah Maute, due membri di spicco di una famiglia di estremisti musulmani. Ma al loro posto hanno avvistato Isnilon Hapilon, leader del gruppo Abu Sayyaf, una formazione terroristica originariamente stanziata a Basilan, una delle isole al largo della costa occidentale di Mindanao che si estende verso la vicina Malesia.

Circolavano voci che Hapilon avesse lasciato la sua base sull’isola per Lanao, e il suo avvistamento le ha confermate. Hapilon è stato a lungo un “ricercato speciale” delle Forze armate filippine, ma la sua notorietà è aumentata quando, nel 2016, lui e Abu Sayyaf hanno giurato fedeltà all’Isis. Nel giugno dello stesso anno, la newsletter mensile dello Stato islamico, al-Nab’a, annunciava che Hapilon era stato nominato Emiro delle Filippine e dell’Asia sud-orientale. Le autorità di Marawi si sono precipitate a riferire la propria scoperta al comandante locale della prima divisione di infanteria dell’esercito.

Il generale Rolando Bautista, che era già stato sulle tracce di Hapilon a Basilan, ha immediatamente ordinato ai suoi uomini di entrare in azione. Per un po’ di tempo sono circolate voci inquietanti sul fatto che la famiglia Maute stesse nascondendo i propri uomini a Marawi e che a questi si fossero uniti i combattenti di Abu Sayyaf, ma l’occasione di cogliere Hapilon di sorpresa era troppo grande per lasciarsela sfuggire. Tuttavia, quando i soldati governativi hanno attaccato, si sono immediatamente trovati di fronte un numero ampiamente superiore di ribelli ben addestrati. Assieme ad Hapilon c’erano infatti quasi un centinaio dei suoi uomini di Basilan, ai quali si erano aggiunti 300 o più seguaci dei Maute. A questi si sommavano inoltre circa 40 militanti di due piccoli gruppi estremisti di Mindanao, gli Ansar al-Khilafa e i combattenti islamici per la libertà di Bangsamoro. E a incrementare ulteriormente il numero di estremisti delle Filippine si aggiungeva un contingente imprecisato di militanti dall’Indonesia e dalla Malesia, e si è parlato anche di combattenti arrivati da Marocco, Arabia Saudita, Yemen e addirittura Cecenia. Le truppe governative si sono subito ritirate, riportando pesanti perdite. In un’intervista rilasciata subito dopo l’accaduto, Bautista ha ammesso la sua sorpresa, affermando però che il raid, anche se mal eseguito, aveva almeno messo in moto il piano degli estremisti di conquistare Marawi, svelando così il loro obiettivo.

Il bilancio della guerra
In un’intervista rilasciata ad agosto, il segretario della Difesa nazionale, Delfin Lorenzana, ha confermato che le truppe governative erano state colte alla sprovvista, e che, a differenza dei soldati dell’esercito filippino, i combattenti stranieri erano rodati al combattimento urbano. Aggiungeva inoltre che l’esercito aveva infiltrato un agente tra le fila dei militanti, ma che questo era stato ucciso all’inizio della rivolta e che per questo i soldati si erano mossi alla cieca.

Scoppiati a maggio, i combattimenti non sono ancora finiti. Per quasi quattro mesi Marawi ha vissuto bombardamenti quasi giornalieri da parte dell’aeronautica filippina, supportata dall’intelligence aerea fornita dagli alleati australiani e statunitensi. A metà giugno gli estremisti mantenevano il controllo di soltanto un quinto della città, l’area a sud-est del fiume Agus. Proprio in quest’area si trovavano però alti palazzi in cui si erano posizionati i cecchini, e questo ha provocato un numero elevato di vittime governative. I ribelli disponevano inoltre di armi pesanti e di visori notturni. Alla metà di agosto la maggior parte della città era stata evacuata ed era ridotta in cenere, con case, negozi, scuole, chiese e moschee in rovina. Circa 360mila residenti sono senza casa, l’esercito governativo ha registrato più di 170 vittime, mentre i militanti estremisti potrebbero aver perso 500 uomini, tra i quali anche combattenti provenienti da Indonesia e Malesia. Un rapporto di metà settembre sostiene che i ribelli sono stati ridotti in un’area di qualche ettaro e che non controllano più palazzi. Si avvicinano dunque gli ultimi amari giorni di combattimento.

I precedenti storici
I musulmani delle Filippine si sono ribellati per la prima volta alla fine degli anni ’60, quando un professore dell’università delle Filippine, Nur Misuari, formò il Fronte di Liberazione Nazionale Moro, rivendicando l’indipendenza dal governo di Manila. Dopo il fallimento della rivolta, Misuari passò a chiedere una forma di governo regionale autonomo. Molti altri leader musulmani rimasero insoddisfatti e negli anni ’70 si assisté all’ascesa del Fronte Islamico di Liberazione Moro, guidato da un ex-compagno di Misuari, Hashim Salamat, un insegnante di Islam formatosi al Cairo. Benché avesse un carattere più religioso, anche il Fronte Islamico Moro voleva l’autonomia e non uno Stato islamico indipendente. Entrambe le organizzazioni hanno negoziato in buona fede con il governo, ma senza arrivare a risultati concreti. Perché questo non è avvenuto?

La tragedia dei musulmani filippini è che il governo è stato sistematicamente incapace di mantenere le proprie promesse. Di volta in volta si raggiungevano degli accordi, ma solo per poi infrangerli, bocciati dai legislatori filippini o dichiarati incostituzionali dalla Corte Suprema, a cui avevano fatto ricorso alcuni parlamentari cristiani. Il gruppo Abu Sayyaf esiste da molti anni, ma in passato esso era noto più come una banda di rapitori la cui adesione all’Islam non andava oltre un’esibizione di facciata. Cos’è cambiato allora?

La risposta più immediata è che la frustrazione accumulata nei confronti del governo ha spinto alcuni a radicalizzarsi. Una volta i genitori dei fratelli Maute erano membri di spicco del Fronte islamico di liberazione, ma a partire dal 2007 hanno cominciato ad attirare l’attenzione delle autorità filippine per aver dato ospitalità a militanti della Jemaa Islamiya, l’organizzazione terroristica indonesiana ben nota per gli attentati nel loro paese. Intanto, dopo essersi radicalizzato, Hapilon ha portato Abu Sayyaf su posizioni ancora più militanti, mentre proliferavano anche altri gruppi radicali.


Il fallimento governativo e l’attrattiva Isis
L’ultima goccia è stata la mancata approvazione da parte del governo della Legge fondamentale di Bangsamoro, un accordo che, dopo una faticosa elaborazione, metteva fine a vecchi contenziosi grazie a importanti concessioni da parte del capo negoziatore del Fronte islamico e del presidente del Comitato di Transizione di Bangsamoro, Mohagher Iqbal. Più di tre anni fa, Iqbal aveva definito la Legge fondamentale il “principale antidoto” contro il rischio di radicalizzazione. La legge era stata elaborata durante la precedente amministrazione di Benigno Aquino III, ma dopo i sei anni del mandato di quest’ultimo non era ancora pronta per l’approvazione finale. L’elezione di Rodrigo Duterte aveva inizialmente suscitato qualche speranza nella conclusione dell’iter legislativo e in una pace duratura. Ma invece di lavorare per la pace, il nuovo presidente si è concentrato sulle esecuzioni extra-giudiziali di presunti trafficanti di droga. Mentre la guerra alla droga di Duterte ha già fatto migliaia di vittime, la pazienza dei musulmani è andata affievolendosi.

L’ascesa in Medio Oriente dell’apparentemente inarrestabile Isis ha catturato l’immaginario di molti musulmani filippini, che non riuscivano più sopportare l’indifferenza del governo verso le proprie legittime aspirazioni. Paradossalmente, il numero dei militanti nelle Filippine si è impennato quando è cominciato il declino dell’Isis e il tanto magnificato Stato islamico ha iniziato ad arretrare di fronte all’intervento delle forze della coalizione. Invece di incoraggiare i giovani musulmani a convergere verso i territori siriani assediati, i leader dell’Isis hanno spinto gli aspiranti jihadisti ad andare nelle Filippine a sostenere l’emiro Hapilon.

Nel breve periodo, il successo dell’esercito governativo farà calare il numero di estremisti nelle Filippine e nell’Asia sud-orientale, e forse spegnerà la mistica dei guerrieri jihadisti. Ma l’unica soluzione di lungo periodo rimane nelle mani del governo filippino. Il miglior risultato della rivolta di Marawi sarebbe che i legislatori filippini si assumessero finalmente le proprie responsabilità, facendo quanto necessario per i loro fratelli e sorelle musulmani e per il bene della propria nazione. Ne saranno all’altezza?


Approfondimenti
- Sidney Jones, How ISIS Got a Foothold in the Philippines, «New York Times», 4 giugno 2017, nytimes.com/2017/06/04/opinions/isis-philippines-rodrigo-duterte.html 
Pro-ISIS Groups in Mindanao and Their Links to Indonesia and Malaysia, Institute for Policy Analysis of Conflict, IPAC Report 33, Jakarta, 25 ottobre 2016, http://file.understandingconflict.org/file/2016/10/IPAC_Report_33.pdf
- Nathan Gilbert Quimpo, Mindanao: Nationalism, Jihadism and Frustrated Peace, «Journal of Asian Security and International Affairs», 3 (2016), n. 1, pp. 64-89.
- Maria A. Ressa, Seeds of Terror, Free Press, New York, 2003.
- Steven Rood, Force Not Enough to Halt Islamic State-Inspired Violence in the Philippines, «Forbes», 6 giugno 2017, forbes.com/sites/insideasia/2017/06/06/philippines-must-act-to-halt-islamic-state-inspired-violence
- Caleb Weiss, The Islamic State grows in the Philippines, Foundation for Defense of Democracies, «The Long War Journal», longwarjournal.org/archives/2016/06/islamic-state-officially-creates-province-in-the-philippines.php 

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