Di fronte al fallimento dei modelli con cui finora si è affrontato il problema del multiculturalismo, la via di uscita consiste nell’adozione di un’antropologia relazionale. Occorre cioè ripensare la figura dell’altro in termini di relazione, in cui identità e differenza possano conciliarsi

Questo articolo è pubblicato in Oasis 28. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:35

La questione del multiculturalismo non proviene dall’esterno della cultura occidentale, come una contestazione che di principio ne mette in crisi la sopravvivenza. Tuttavia essa è oggi complicata da un’inedita forma di globalizzazione. Di fronte al fallimento dei modelli con cui finora si è affrontato il fenomeno, la via di uscita consiste nella prospettiva di un’antropologia relazionale. Occorre cioè ripensare la figura dell’altro in termini di relazione, in cui identità e differenza possano trovare conciliazione.

 

Il multiculturalismo, inteso come problema della convivenza di diverse componenti etniche e culturali, è questione a cui la cultura occidentale è particolarmente sensibile. Non mi sto riferendo alla creazione forzosa di condizioni multiculturali da parte delle nazioni europee che lungo i secoli medievali e moderni hanno praticato una terribile tratta degli africani in Paesi dove sarebbero stati duramente sfruttati e poi lungamente discriminati e subordinati. Né mi riferisco agli effetti del colonialismo europeo tardomoderno e primonovecentesco, che ha creato forme di coesistenza tra diseguali. Bensì penso alle forme di accettazione e di cura della convivenza fra diverse etnie, religioni, culture che hanno punteggiato i secoli almeno dall’età ellenistica in poi; e che nel contemporaneo ha raggiunto la consapevolezza in crescita di una possibilità sociale e di un dovere morale. Si sta parlando di convivenza intesa alla luce della doppia dimensione della differenza culturale irriducibile e insieme di uguaglianza giuridica fondamentale.

 

 

Il problema multiculturale e i suoi modelli

 

È grazie alla complessa tradizione politica e religiosa occidentale che prende rilievo e interesse l’idea che culture e/o popoli diversi possano utilmente convivere. Solo in virtù di una certa cultura universalistica del diritto prende corpo l’ideale di una “libera” convivenza delle differenze, come accade nelle grandi forme della coscienza etico-giuridica occidentale, non a caso dialetticamente connesse tra loro: la tradizione latina dello ius gentium, quella medievale del “Sacro Romano Impero”, la concezione illuministico-liberale dei diritti soggettivi e quella liberale dei diritti umani[1]. Questa osservazione va subito premessa, per evitare il pensiero che la questione del multiculturalismo sopravvenga dall’esterno della cultura occidentale, come una contestazione di questa che di principio ne mette a repentaglio la sopravvivenza. Ciò significa, invece, che un atteggiamento critico nei confronti del problema multiculturale è affrontabile solo all’interno della prospettiva della cultura universalistica occidentale, essendo infruttuoso andare alla ricerca di un principio di convivenza alternativo ad esso.

 

La maggiore difficoltà è costituita, piuttosto, dal fatto che il problema multiculturale si presenta nel contesto di un’inedita forma di globalizzazione. Benché il multiculturale e il globale siano fenomeni immediatamente antitetici, «legato a logiche identitarie il primo − scrive Elena Pariotti −, descrivibile sulla base del modello dell’agire strategico il secondo; rinviante al passato e alla tradizione il primo, tutto centrato sul presente il secondo; costituito da differenze il primo, tendenzialmente omogeneizzante il secondo»[2], i due fenomeni si richiamano e si sostengono l’un l’altro. L’attuale globalizzazione è un fatto storico “inedito” a motivo della sua origine eminentemente tecnica (tecnologia informatica, tecnologia militare, mercato economico e finanziario, ecc.) ed è fondata su generalità pratico-operative che di per sé non veicolano un’effettiva cultura universale e quindi non possono assurgere al ruolo vero e proprio di universalità culturale e costituire principio di unificazione di un’intera forma di vita. Di fatto, una cultura integralmente tecnologica è possibile solo come ideologia tecnocratica, cioè come universalizzazione (infondata e quindi violenta) del potere tecnologico.

 

Ma, se la globalizzazione senza universalità culturale non è in grado di unificare le differenti tradizioni antropologiche che incontra sul suo cammino e che essa stessa toglie dall’isolamento e mette in comunicazione, all’unificazione tecnico-pratica del mondo rischia di accompagnarsi una frammentazione culturale inedita, che secondo i momenti e le circostanze può viversi con rassegnata passività o con rabbiosa rivendicazione. La globalizzazione, infatti, in quanto promuove un universalismo “astratto”, sollecita processi più o meno reattivi di identificazione culturale, che possono inclinare a un simmetrico “astratto” localismo. A queste condizioni quale configurazione potrebbe trovare la situazione multiculturale che caratterizza ormai il mondo contemporaneo presente e futuro? Quali possibilità vi sono di una convivenza regolata di una pluralità di concezioni sostantive del bene?

 

Abbiamo parlato finora di “problema” o di “situazione” multiculturale, perché non sembra che il multiculturalismo sia in se stesso una soluzione, bensì solo il nome di un problema.

 

1) L’ipotesi del pluralismo multiculturale, come progetto della coesistenza di diverse tradizioni etniche, religiose e culturali, sulla base del solo riconoscimento del loro diritto all’esistenza non sembra la risposta adeguata ai fini della trasformazione della coesistenza di fatto in una convivenza sociale e politica. A conferma si può osservare che le politiche multiculturali così intese conducono al risultato − sociologicamente ormai attestato − non dell’integrazione, ma della giustapposizione delle comunità, di una coesistenza passiva che scivola verso l’estraneità tra le comunità, l’emarginazione delle comunità più deboli, l’autosegregazione di quelle più coese, l’esaltazione del potere autoritario interno di capi-comunità, la costituzione di poteri occulti incontrollabili, di forme di illegalità protetta, etc.

 

2) Ipotesi integrazionista. Non è alternativa valida al progetto multiculturalista il modello contrario di convivenza secondo il principio della massima assimilazione possibile a una delle tradizioni in gioco, principalmente a quella del Paese di immigrazione. In questo paradigma, al contrario del precedente, le identità culturali sono supposte essere pienamente comunicabili e assimilabili, così che, di principio, a determinate condizioni sociali, è auspicabile l’integrazione risolutiva delle culture minoritarie o più deboli in quella maggioritaria e più forte. In sostanza, tale paradigma ha come criterio direttivo il monoculturalismo.

 

3) Ipotesi dell’universalità laica. Per ovviare alla carenza di unità dell’ipotesi puramente multiculturalista o a quella di rispetto della consistenza identitaria dell’ipotesi integrazionista, si ritiene che il massimo di pluralismo etnico-culturale regolato sia possibile a condizione della massima neutralizzazione del rilievo pubblico delle culture, come nel paradigma francese della cittadinanza “laica”. Il modello della laïcité appare come un buon esempio di impiego di un’universalità astratta, teoricamente debole e dagli esiti assai problematici nei confronti delle aspettative storiche delle culture.

 

4) Ipotesi dell’interculturalità neoliberale. Il dibattito nel neoliberalismo intorno alla questione multiculturale riguarda la capacità della tradizione dei diritti individuali di integrare i diritti delle collettività. Nella direzione del superamento dell’interpretazione individualistica dei diritti si muovono Charles Taylor e Will Kymlicka, pur nell’avvertenza critica della problematicità interna alla restrizione intracomunitaria dei diritti individuali o addirittura al primato dei diritti collettivi. Ma sembra chiaro che l’unica via di uscita del dibattito consista nella ridiscussione dello statuto dell’identità antropologica e delle identità culturali e di quello correlativo della differenza e delle differenze. Ciò non sembra possibile, se non nella prospettiva di un’antropologia relazionale.

 

Si tratta perciò di pensare il rapporto tra identità e differenze, secondo una prospettiva costruttiva che possiamo definire di interculturalità, per indicare il processo di interazione e di sinergia, in cui le differenze trovino la forma dinamica ed efficace della loro identità e della loro unità.

 

Con l’importante avvertenza di distinguere due piani di considerazione connessi, ma irriducibili. Infatti, il confronto interculturale implica l’impegno di concezioni “comprensive” (secondo la terminologia di John Rawls) fortemente caratterizzate, mentre lo spazio politico dell’intesa interculturale è di natura non sostantiva, ma istituzionale. Tra i due piani vi è una relazione forte, perché non è possibile prefigurare efficacemente la forma istituzionale della convivenza politica secondo un progetto aprioristico indipendente da uno scambio reale tra le culture, ma d’altra parte non è pensabile che vi sia un passaggio dalla coesistenza di fatto alla convivenza interculturale senza una forma politica regolatrice degli scambi.

 

 

Condizioni antropologiche

 

Il paradigma moderno della relazione umana e politica come conflitto, solidale con il modello della concorrenza mercantile dell’homo oeconomicus e con quello dello Stato accentratore, si scontra con la nuova configurazione mondiale della globalizzazione, in cui la potenza tecnologica e l’universale interrelazione rendono il conflitto una realtà sempre più catastrofica.

 

La nuova situazione richiede una profonda revisione antropologica ed etica, che il pensiero contemporaneo peraltro ha avviato da tempo. La linea costruttiva sta nella elaborazione del tema dell’intersoggettività e della relazione riconoscente, in cui l’alterità, sottratta all’equivalenza con l’estraneità, è reinterpretata alla luce della relazione. L’idea più feconda sembra infatti quella di ripensare la figura dell’altro in termini di relazione, in cui identità e differenza possano trovare conciliazione.

 

Un modo per approcciare il tema dell’identità relazionale è quello di riflettere sul fenomeno della narrazione e della costruzione narrativa dell’identità. Il narrarsi, infatti, è sempre espressione di un’identità peculiare, che fa anche riferimento a una tradizione narrativa da cui proviene e di cui partecipa. Narrarsi ed essere narrati, infatti, sono indissolubilmente legati: divento capace di narrare perché sono stato e sono a mia volta oggetto di narrazione (famigliare, sociale, etc.). Il narrarsi, d’altra parte, richiede una capacità di autorappresentazione, ma anche di una capacità di autotrascendenza, cioè di relazione a un’altra e diversa rappresentazione di sé.

 

Tale struttura relazionale e narrativa ci aiuta a capire che l’uomo e le culture sono mosse dal bisogno di essere riconosciuti; di esistere non come un puro fatto opaco, ma di essere presenti ad altri e di essere tenuti in conto, nell’immediata esperienza nelle forme sociali, in quelle giuridiche e istituzionali. Non perché il riconoscimento conferisca come tale l’identità, ma perché la manifesta, la attiva e la aggiorna in continuazione. Infatti, l’identità che si sottrae alla legge del riconoscimento (attivo e passivo) finisce necessariamente o nella tautologia universalista integralista o nella chiusura comunitaria localistica o nel rapporto solo pattizio, convenzionale-procedurale con altri, oppure in qualche confusa combinazione di tutto ciò. Invece, la relazione di riconoscimento è un atto che impegna come tale i soggetti e la loro coscienza, la loro autostima, la loro consapevolezza culturale e la loro libertà.

 

Da questo punto di vista bisogna dire che il fatto (antropologico e politico) del multiculturalismo pone di principio l’esigenza di relazione tra narrative che hanno bisogno di riconoscersi nella loro identità-diversità e nella loro libertà.

 

 

Potere, interpretazione, interazione

 

Il pregio della riflessione moderna è stato di evidenziare quanto radicalmente la relazione di riconoscimento sia un fatto di potere nell’esistenza umana; anzi, che essa costituisce l’evento stesso del potere nell’esistenza. Se nelle relazioni ci si attende una conferma e una rivelazione di sé, una propria significativa interpretazione, una crescita della propria storia narrativa; se, in breve, il riconoscere significa in qualche misura ricevere identità da altri e assegnarla ad altri, esso è necessariamente un esercizio di potere di altri e su altri. Potere efficacissimo, che possiede in qualche modo l’altro dall’interno. Come scriveva Michel Foucault in pagine divenute famose, il potere reale non è attributo delle istituzioni, ma «transita» nei rapporti umani[3].

 

Si comprende la ragione per cui il potere del riconoscimento possa costituire hegelianamente campo di lotta mortale tra gli uomini. È attraverso il riconoscimento infatti che si diventa “altri” per qualcuno, essendo in tal modo confermati e ammessi nella propria identità. Per questo la figura etica e sociale positiva del riconoscimento è quella, antica e sacra, dell’“ospitalità”[4]. Ma nella misura in cui il potere del riconoscimento non viene esercitato oppure è esercitato come dominio, da ospitalità si trasforma in espropriazione o in appropriazione. Non sorprende allora che dopo Hegel la questione del riconoscimento sia tornata al centro di teorie politiche come quelle di Jürgen Habermas[5], di Charles Taylor[6] e di Axel Honneth[7], attente anche al problema del multiculturalismo.

 

Il potere del riconoscimento si esercita come interpretazione da altri e di altri. L’alterità infatti non si dà mai in una neutra oggettività, perché la relazione implica il reciproco condizionamento e una situazione di insuperabile reciproca particolarità: inevitabilmente ciascuno percepisce l’altro all’interno della sua prospettiva e non può stabilire alcun riconoscimento se non interpretandone il senso anche in rapporto a se stesso.

 

Da ciò è scorretto trarre una conseguenza soggettivista e relativistica, perché il fatto che un’interpretazione sia sempre secondo una prospettiva particolare non esclude la capacità di cogliere verità e valori autenticamente universali. Anzi, si deve sostenere che l’universale e l’assoluto possono essere colti solo attraverso la mediazione della prospettiva particolare e che dunque non c’è alternativa, ma reciprocità, tra interpretazione e verità. Questo non contrasta con il fatto che la verità dell’uno appare e non può non apparire all’altro come interpretazione di parte e quindi particolaristica, sia dal punto di vista cognitivo, sia da quello pratico dell’interesse con cui ciascuno sta nella relazione.

 

Perciò la “situazione ermeneutica” di ogni cultura non contraddice il fatto che ciascuna possa essere portatrice di universali, che le argomentazioni con cui ciascuna intende sostenere e difendere i propri universali abbiano valore, e così siano validi i giudizi assiologici con cui ciascuna misura le altre culture (accettandone ed escludendone aspetti e dimensioni) e che possa essere legittima la persuasione di ciascuna cultura di essere relativamente superiore, etc. La consapevolezza della “situazione ermeneutica” semplicemente impedisce di dimenticare che non basta l’autoconvincimento della propria universalità per farla valere. La dimensione ermeneutica dell’interazione, piuttosto, rende manifesta l’indispensabile componente etica della relazione. È evidente infatti che la disponibilità all’interazione interpretativa deve essere accompagnata dalla buona volontà del confronto, più precisamente da una certa virtù morale e civile con cui intraprendere e gestire il confronto.

 

Di conseguenza è acritica e autoritaria, oltre che tendenzialmente fondamentalista, una cultura che non abbia raggiunto la coscienza dell’universale “situazione ermeneutica” in cui anch’essa comunque si trova; che non abbia riconosciuto che la condizione comunicativa basilare (anche tra le culture) è la libertà e il suo rispetto; che in un rapporto interpretativo l’assenza di libertà è violenza; che perciò la legittima pretesa di verità di ogni cultura deve proporsi anzitutto nella forma della testimonianza di sé e delle proprie ragioni.

 

L’universale ermeneutico (che tutti vivono interpretando gli altri e se stessi), infatti, lungi dall’essere separazione e ostacolo, è massimamente accomunante; e perciò richiede e sollecita il passaggio dalla testimonianza al dialogo, dalla discussione critica all’accettazione o al rifiuto delle argomentazioni, dall’approvazione o disapprovazione dei costumi altrui alla fusione/contaminazione oppure alla separazione delle forme culturali, etc.

 

In tal modo la comune accettazione della condizione di rapporto interpretativo (secondo libertà e testimonianza) conduce ad avere un interesse vitale per il processo interattivo, ad esito sempre aperto. In breve, è la comune situazione ermeneutica che rende possibile e necessario stabilire un processo interattivo, essenziale per la vita delle diverse identità culturali, che Alasdair MacIntyre chiama “dialettica delle tradizioni”.

 

 

Condizioni politiche: universalità e (non) neutralità

 

Dalle premesse antropologiche tracciate il multiculturalismo risulta essere un evento storico e uno stato di fatto sociale che deve essere trasformato in una condizione etico-politica nuova. In questo senso giustamente Giovanni Sartori paventa che il multiculturalismo lasciato a se stesso costituisca un fattore socialmente disgregante[8]. Infatti, esso può assumere fisionomia politica solo nella misura in cui diventa una forma di interculturalità dinamica e regolata, come è nel compito delle istituzioni pubbliche politiche.

 

In questa direzione sono da escludere – come già si accennava − due soluzioni politiche, quella assimilazionista delle differenze rispetto all’identità sociale maggioritaria e/o tradizionale (monoculturalismo) e quella della permissione privatistica di ogni fisionomia culturale nel quadro di uno Stato di diritto di per sé cieco alle differenze (multiculturalismo liberale). In entrambe le prospettive, universalismo e particolarismo si verrebbero a trovare contrapposti ed escludentesi, impedendo il processo interattivo e interpretativo di cui si diceva. Va dunque ripensata la politica nella sua dimensione istituzionale, affinché il suo compito − di creare e garantire lo “spazio pubblico” del confronto − si realizzi come un’autentica politica dell’alterità, cioè renda possibile una corretta dialettica interculturale delle identità.

 

Questione che non fa che rivitalizzare il mai sopito dibattito sulla cosiddetta “laicità” dello Stato e sull’identificazione dello spazio pubblico con la neutralità culturale e assiologica, che però non pare essere una risposta appropriata. Se lo spazio pubblico per essere universale dovesse essere neutrale, l’esercizio della cittadinanza – in generale − sarebbe possibile in proporzione inversa alle caratteristiche identificanti e separanti degli interlocutori. In altri termini, la partecipazione allo spazio pubblico dovrebbe esigere la neutralizzazione delle caratteristiche differenzianti e la loro rimozione nell’ambito privatistico (cfr. privatizzazione delle culture di appartenenza, delle credenze, delle tradizioni, eliminazione di simboli religiosi strettamente identificanti, etc. nel regime della laïcité francese).

 

Che la convivenza sia garantita dalle procedure dell’argomentazione e del consenso non significa, invece, che queste siano neutrali, che non esprimano a loro volta una determinata concezione dell’uomo e della convivenza. Il neutralismo liberale ha il suo limite esattamente nel non pensare la sua prospettiva ermeneutica (nel pensarsi cioè come al di là di ogni interpretazione di parte) e quindi di immaginare di potersi proporre come terreno disponibile in quanto non qualificato.

 

Sono dunque vere le due cose insieme: sia che la tradizione liberale è l’unica che logicamente e storicamente è in grado di strutturare una “politica dell’alterità”, sia che tale politica non è priva di presupposti, tra cui quello individualistico e quello privatistico, che vanno criticamente valutati.

 

 

Condizioni politiche: società civile e comunicazione politica

 

In conclusione, all’interno della tradizione liberale bisogna ricavare un duplice spazio, quello della presenza sociale delle etnie multiculturali e quello della loro comunicazione politica.

 

La prima questione coincide con l’inedito rilievo che la situazione multiculturale dà alla società civile. Lo schema classico nella modernità incentrato sulla polarità di Stato (pubblico e universale) e società mercantile (privato e particolare) deve lasciare il posto alla tripolarità incentrata sulla società civile (pubblico e particolare), composta dalle molte soggettività reali in costante riorganizzazione pluralistica e augurabilmente impegnate in un’ordinata e produttiva interculturalità. La questione multiculturale, infatti, non riceve risposta adeguata né in termini di solo inserimento lavorativo dello straniero nel ciclo del libero mercato (anche perché l’immigrato contemporaneo non è semplice forza lavoro straniero in cerca di impiego, ma si presenta e si mantiene per lo più come soggetto appartenente a particolari comunità etniche e culturali), né come pura cittadinanza statuale, bensì trova prospettiva innanzitutto a livello di una reale dialettica civile. Questa però è davvero possibile nella misura in cui matura una coscienza civile che non accetta la partizione tradizionale del pubblico statuale e del privato mercantile, ma rivendica attraverso il proprio protagonismo sociale la consistenza, anzi il primato del pubblico civile non statale come primario ambito storico e politico.

 

Questo significa anche ripensare il ruolo pubblico civile delle religioni[9] in direzione del superamento della divaricazione moderna di religione e politica (obsoleta dopo la crisi delle ideologie, cioè delle religioni politiche sostitutive), non in senso integralistico, ma come agenti culturali della dialettica civile fondamentale.

 

La seconda questione conduce alla comunicazione sociale come fatto fondamentale e patrimonio comune, attivo e significativo prima di ogni pattuizione e regolamentazione riflessa. Il punto di partenza è un evento complesso che precede ogni decisione e che costituisce un bene già da sempre condiviso, il fatto cioè di essere inseriti in una complessa rete di azione comune, di interlocuzione, in breve di comunicazione sociale. Si potrebbe obiettare che nella situazione multiculturale collaborazione e cooperazione sono circostanza da raggiungere piuttosto che punto di partenza. Questo è vero per i modi auspicati della comunicazione, ma non per il fatto del comunicare in quanto tale, dal momento che esso esiste necessariamente già nel primo contatto tra appartenenti a tradizioni etnico-culturali differenti. Per quanto occasionale, frammentario, sospettoso, insicuro esso sia, un minimo di scambio comunicativo tra i diversi già esiste; salvo che la situazione sia già degenerata in emarginazione o conflitto. In altri termini, vi deve essere una positiva scelta di non comunicazione, perché il presupposto fondamentale e fattuale venga tolto e dunque non sia più possibile alcuna operazione ulteriore.

 

L’evento sociale fondamentale, poi, diventa politico nella misura in cui lo si assume consapevolmente e volontariamente come “bene comune”. La comunicazione tra le tradizioni e i gruppi è l’interfaccia tra il sociale e il politico. Essa è il fatto sociale originario che diventa anche il fatto politico primario, nel momento in cui viene riconosciuto come evento che comunque accomuna e che è bene (al limite anche come minor male) che venga assunto e promosso volontariamente. Il passaggio al politico non comporta se non la presa d’atto condivisa di ciò che già accomuna, cioè di quel comune che è l’essere in rapporto comunicativo, assunto come patrimonio che vale la pena (cioè anche la fatica e l’impegno) di preservare e di incrementare.

 

In sintesi, il corpo politico nasce, quando si assume il “fatto relazionale” di cui si è parte, come “bene comune”; quando, assumendo in modo consapevole e strumentato la comunicazione sociale spontanea o storicamente determinatasi, si istituisce come fine comune il perseguimento della comunicazione sociale stessa. In tal senso il politico sorge come autofinalizzazione consapevole della società umana.

 

Ciò significa anzitutto che il bene della comunicazione traccia il confine della partecipazione politica e il senso complessivo della cittadinanza, distinguendo quanti ne riconoscono il vincolo da quanti invece, non riconoscendolo, se ne escludono (fondamentalismo, anarchismo, terrorismo, separatismo, settarismo occulto, etc. sono immediatamente esclusi, perché contraddittori con il criterio fondamentale della convivenza politica). In tal senso risalta subito l’inconsistenza politica di una società multiculturale come convivenza di qualunque componente culturale.

 

Il bene della comunicazione ha poi in sé ulteriori condizioni, che vengono a costituire altrettanti vincoli normativi. Esso è per sua natura illimitatamente aperto e dunque include di principio ogni possibile partecipante, senza discriminazione preventiva; di conseguenza, esige che siano garantite tutte le forme di libertà di partecipazione; quindi, che sia garantita la giustizia nell’accesso e la distribuzione dei mezzi necessari all’esercizio dello scambio, della collaborazione, del confronto; similmente, vanno preservate e difese le condizioni per la realizzazione della comunicazione, contro le sue violazioni violente e le sue contraffazioni subdole.

 

D’altra parte, questa prospettiva di istituzione pratica del politico non si conclude con il suo profilo costituzionale formale, perché essa è internamente aperta ad accogliere tutti quei contenuti valoriali che le diverse tradizioni, secondo la loro propria storia, si trovassero a condividere. Se, infatti, la condivisione del vincolo comunicativo come tale è l’assoluto istitutivo della convivenza politica, l’incontro-scontro delle diverse tradizioni e concezioni comprensive delimita un campo relativo di condivisioni e di esclusioni che si definisce e si ridefinisce su base di negoziazione storica.

 

A questo livello il bene comune non è più solo formalmente la comunicazione sociale, ma si riempie di contenuti (beni economici, istituzioni, pratiche sociali, patrimoni valoriali, morali, spirituali) diversamente individuati secondo i differenti contesti culturali, le mutevoli circostanze storiche e le specifiche contrattazioni politiche. In tal modo sul canovaccio stabile del progetto condiviso e regolato di comunicazione il pluralismo può trovare lo spazio delle sue innumerevoli variazioni, senza subire la coazione di impossibili omogeneità, ma anche senza distruggere pericolosamente lo spazio della sua esistenza politica.

 

I vantaggi di questa prospettiva teorica applicata al problema del multiculturalismo sono molteplici. Innanzitutto, essa risponde al problema principale che muove la riflessione sull’argomento, cioè la questione di un criterio unificante, che non può essere meramente procedurale (per non essere inefficiente), ma che non può essere neppure una concezione “comprensiva” o un’identità “sostantiva” dell’esistenza, che dovrebbe essere imposta come condizione di appartenenza a tutta la società politica. La comunicazione sociale come “bene comune” è “interesse” concreto delle parti in causa e non mera procedura; d’altra parte, pur essendo un bene riassuntivo di tutti gli altri beni sociali, non implica qualche particolare concezione del mondo, né piani di vita specifici (e neppure determinate giustificazioni teoriche del “bene comune” stesso).

 

In tal modo il luogo politico della comunicazione non pretende di assorbire in sé ogni forma relazionale, ma ambisce piuttosto ad essere garanzia degli scambi storici delle culture, del libero gioco della loro diversità, del loro confronto, del loro conflitto regolato, delle loro negoziazioni e del loro ordinato svolgimento. Questo permette di risolvere anche il problema dei cosiddetti “diritti culturali” delle tradizioni, evitando l’eccesso di intenderli come diritto apriori alla sopravvivenza (secondo il modello – si direbbe − della conservazione delle specie naturali della “deep ecology”). Le culture sono storiche e quindi hanno cicli vitali, non predeterminati, né predeterminabili (quanto alla loro sopravvivenza e al loro sviluppo e anche quanto al loro declino).

 

L’appartenenza a una società politica garantisce l’equo diritto all’organizzazione, all’espressione, alla difesa, ma lascia anche la libertà di gioco delle forze in campo, compresa la prevalenza della componente culturalmente maggioritaria di una società, che normalmente è anche la protagonista della storia di una società e del suo Stato nazionale e che, quindi, ha il dovere di ammettere alla comunicazione politica quanti lo chiedono e si trovano nelle condizioni di farlo e ha anche il diritto di proteggere e proporre il proprio patrimonio di storia, di cultura, di tradizioni, di costumi, etc. in un leale confronto e con una schietta negoziazione con i sopravvenienti. Sarà la dialettica sociale e culturale − in condizioni di equità di interlocuzione − a decidere le prevalenze e/o le mescolanze nella lunga durata. In generale non si tratta dunque di preservare o di promuovere le differenze perché tali, bensì di porre le condizioni politiche affinché queste possano preservarsi, autopromuoversi e confrontarsi, secondo le loro reali capacità.

 

In sintesi, impostare il problema del multiculturalismo secondo il criterio della “comunicazione politica” interculturale permette di salvare sia il valore della differenza, sia il principio della pari dignità, secondo una formula del tipo: garanzia dei diritti e dei vincoli delle differenze culturali nella pari dignità della loro partecipazione politica. Per questo probabilmente non si tratta di scegliere tra una società pluralista ispirata al criterio limitativo della tolleranza passiva e una società multiculturalista ispirata al criterio della valorizzazione apriori delle differenze culturali, ma di garantire una partecipazione politica alla comunicazione sociale in cui possa svolgersi liberamente un processo interculturale.

 

In concreto, il fenomeno storico dell’interculturalità risulta dalla sinergia di due fattori: la libera dialettica civile tra i reali soggetti sociali, culturali e religiosi e l’intervento pubblico statuale, che deve prendere decisioni in ordine alla convivenza delle differenze, facendo riferimento al patrimonio di valori di cui esso è espressione. Da questo punto di vista sembra giustificato − secondo il suggerimento di Stefano Zamagni[10] − che l’istituzione pubblica, in relazione agli interventi giuridici ed economici che le competono, discerna con un giudizio in costante aggiornamento ciò che di una data identità culturale è solo «tollerabile», ciò che è anche «rispettabile» e ciò che invece è pienamente «condivisibile»[11].

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

[1] René Girard ha messo in evidenza la tipicità distintiva occidentale di sapersi rappresentare in modo autocritico attraverso la messa in scena di un “altro”, una sorta di doppio oppositivo, come avvenne ad esempio con la dottrina-mito del “buon selvaggio” nel XVIII secolo (cfr. L’Altro. Occidentali contro l’Occidente, «Il Sole 24 Ore», 30 dicembre 2001, p. 29). Anche Robert Spaemann parla dell’«autorelativizzazione» come capacità autoriflessiva, caratteristica della cultura occidentale (cfr. Das Natürliche und das Vernünftige, Piper, München 1987, p. 8).

[2] Elena Pariotti, Multiculturalismo, globalizzazione e universalità dei diritti umani, «Ragion pratica», n. 16 (2001), p. 63.

[3] Michel Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 184

[4] Cfr. Jacques Derrida-Anne Dufourmantelle, Sull'ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2000.

[5] Jürgen Habermas, “Lotte per il riconoscimento” nello stato democratico di diritto, «Ragion pratica», n. 3 (1994), pp. 132-165.

[6] Charles Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano 1993.

[7] Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002 e Id., Riconoscimento e disprezzo. Sul fondamento di un’etica post-tradizionale, Rubettino, Catanzaro-Messina 1993.

[8] Cfr. Giovanni Sartori, Pluralismo, multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano 2000.

[9] Si veda in particolare Pierpaolo Donati, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in Carmelo Vigna e Stefano Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 51-106.

[10] Stefano Zamagni, Migrazioni, multiculturalità e politiche dell’identità, in Carmelo Vigna e Stefano Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, pp. 247 ss.

[11] Per un approfondimento della problematica teorica di questo saggio cfr. Francesco Botturi, Universale, plurale, comune. Percorsi di filosofia sociale, Vita e Pensiero, Milano 2018, in particolare il cap. IV “Pluralismo e multiculturalismo”.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Francesco Botturi, Le condizioni della convivenza multiculturale, «Oasis», anno XIV, n. 28, novembre 2018, pp. 96-107.

 

Riferimento al formato digitale:

Francesco Botturi, Le condizioni della convivenza multiculturale, «Oasis» [online], pubblicato il 21 novembre 2018, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/condizioni-della-convivenza-multiculturale.

Tags