Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:45:00

Cristiani e musulmani in Sudan: come si presenta oggi tale relazione, dopo una guerra troppo lunga e conclusasi solo un anno fa con l'accordo di pace ancora "in prova"? "Tutto l'argomento va letto nel contesto politico del Sudan, che si ispira all'Islam, ma va considerato anche alla luce della diversità di razze che in esso sono presenti e della complessità rappresentata dal dato per cui i musulmani, qui come in tutto il Medio Oriente, arrivano ad usare l'Islam come mezzo per il mantenimento di qualunque sistema abbiano instaurato. Questo li spinge a ignorare totalmente le persone diverse da loro, tanto più se queste altre persone sono più deboli o meno numerose di loro. A volte risulta veramente difficile stabilire se è l'Islam che spinge queste persone a fare quello che fanno o se è il male che risiede nel cuore dell'uomo che porta a questi eccessi e causa tutti questi mali intorno. La domanda che mi pongo è se davvero la gente si chiede e verifica se sa usare correttamente la ragione. E' sorprendente, infatti, come davanti a determinati fatti, pur ricorrendo alla ragione umana, si arrivi a conclusioni così diverse, a letture e atti così diversi. L'africano ha una sua visione mentale per guardare alle cose e per pensare. E l'arabo, come pure il musulmano, ne ha un'altra. Tale dato risulta evidente perché non si tratta tanto di persone educate che possono manipolare una discussione o un confronto, ma persino di gente semplice. C'è proprio una visione mentale diversa tra noi e i musulmani. Questo è il problema. Tale materia, la relazione tra cristiani e musulmani, è davvero oggi in questo Paese molto complessa, al punto che resta come sospesa". Quindi il dialogo resta una meta altrettanto sospesa? "Lo sforzo di elaborare un dialogo diventa molto problematico. Intendo: un dialogo può essere ottenuto con facilità quando si tratta di cose semplici come per esempio la posizione delle sedie in questa stanza, ma quando ad esso si chiede di portare a una trasformazione del modo di pensare o ad un'apertura a forme diverse di pensiero o di reazione di fronte a situazioni precise e concrete, allora tutto diventa molto difficile. E penso che servirà molto molto tempo. Basti pensare a questo: chi lo comincia? Se il dialogo è tentato da un cristiano, gli altri diranno che sta cercando di fare un lavaggio del cervello con ideologie occidentali. Se è iniziato da un africano, la reazione sarà la stessa; e se guardiamo all'altro lato, ai musulmani, chi è veramente disposto ad avanzare verso questa direzione? Ci vuole fiducia reciproca tra le persone, che a causa della guerra e dell'odio seminato negli anni, si è persa completamente e ricostruirla è molto arduo. Capita con facilità di sentire un sud-sudanese che, convinto, dichiara che di un arabo non ci si può fidare. E quando dice arabo intende musulmano. Essendo diffusa questa mentalità, indotta dalla violenza di tanti secoli di storia recente, quasi martellata dentro le anime, si può immaginare quanto sia difficile il dialogo. Per arrivare ad una vera apertura reciproca c'è ancora un grande cammino da fare". In questo i cristiani d'Europa possono essere d'aiuto? O da questo cosa possono imparare nella relazione con gli immigrati musulmani sempre più numerosi? "Quello che rende ancora più difficile il dialogo è una certa tendenza che sembra affermarsi tra i cristiani specialmente in Europa e in America, dove sembrano diventati incerti sulle loro radici e sui fondamenti dell'identità cristiana. Gli europei quasi preferiscono vendere o dar via quello che hanno per avere in cambio il dialogo. Ma non si accorgono che questo processo lo dobbiamo chiamare schiavitù. Se ti dai via, ti rendi schiavo. Come vescovi del Sudan siamo stati delusi dall'atteggiamento di alcuni cristiani europei perché si illudono di poter creare così la convivenza tra popoli, mentre in realtà quella che appare convivenza pacifica non è altro che un aggiustamento temporaneo che non durerà. La questione centrale è che è richiesto un vero cambiamento del cuore. E questo può partire come uno sforzo umano, ma può realizzarsi solo in quanto grazia di Dio. Per questo abbiamo uno strumento potentissimo: la preghiera. Per la comprensione reciproca di cristiani e musulmani è lo strumento più potente che abbiamo per camminare e procedere. La preghiera è essenziale in questo perché tocca la realtà più profonda dell'uomo, da cui inizia il cambiamento del modo di pensare". E gli incontri o i tavoli per il dialogo? Questi non servono? "Accade a volte che tali incontri siano solo un inganno. Inganniamo noi stessi e il mondo. Guardiamo all'esempio dei cristiani nel Medio Oriente: là sia i cristiani che i musulmani sono arabi e per i cristiani riferirsi all'Islam è quasi un fatto naturale della loro costituzione e per questo possono andare avanti insieme. In alcuni casi vivono protetti dall'Islam, in altri casi cercano di non mettersi in antagonismo, ma se dovessero guardare un po' più in profondità alla loro situazione, dovrebbe riconoscere tutto l'handicap cui sono costretti. Quando questi esempi ci sono offerti come modello di coesistenza con i musulmani dentro di me sorrido, perché in realtà non è altro che un atteggiamento di sopravvivenza. Le relazioni tra cristiani e musulmani funzionano bene quando ci sono rapporti di amicizia nella vita quotidiana, ma quando si va a un passo oltre vediamo che cominciano le difficoltà. In teoria non dovrebbe esserci essere nessuna ragione per coinvolgere la questione religiosa, ma il pensiero politico di alcune persone ha voluto che l'Islam fosse coinvolto. Vedo che alcuni leader politici vivono la religione non con devozione a Dio, ma come strumento per mantenere il potere: questo è uno degli aspetti di difficoltà della questione perché una volta che i musulmani sono al potere, pretendono anche di dirigere la vita religiosa dei non musulmani ed è lì che le cose cominciano ad andare male". Come è stato recepito in Sudan il discorso del Papa a Regensburg? "Non ci sono state particolari reazioni violente, solo qualche dimostrazione. Ma ora i cristiani si chiedono: come mai i musulmani hanno offeso pesantemente i cristiani, attaccando anche la persona di Gesù, e nessuno ha mai reagito? Si domandano se la reazione al discorso del Papa era in fondo motivata da sentimenti religiosi genuini. In Occidente c'era molta paura per la reazione, mentre si rinunciava a porsi il problema di arrivare a un dialogo più franco e profondo, meno diplomatico. I cristiani devono riuscire a separare la questione della verità da quella della paura e del timore della gente. Il Papa nel suo discorso cercava di raggiungere qualcosa di molto più profondo, di separare la religione dalla violenza e di promuovere un uso più corretto della ragione. Che è una cosa valida per tutti i tempi. E se il Papa non avesse chiarito il senso della discussione, gli altri avrebbero alla fine completamente deviato la direzione del suo discorso". Come ha vissuto il viaggio del Papa in Turchia? Quali ricadute ha provocato nella vita del suo Paese? "Il dialogo deve esser sincero e franco, ma la richiesta di sincerità spaventa e inibisce le qualità della gente. Il problema sta nell'educazione che permette di acquisire un nuovo modo di pensare. Solo io mi chiedo se tra i musulmani ci sono i mezzi e le persone in grado e disposte ad educare in questo modo. Persone che abbiano il coraggio di prendere posizione, di non arrendersi di fronte a uno stile diffuso per cui per presentare la verità, la devi camuffare. Sembriamo preoccupati di cercare dei bei vestiti per la verità, invece di lasciare che essa liberi le persone. A me è sempre piaciuto essere una di queste persone che parlano in modo diretto. Molte volte noi perdiamo tempo ad girare intorno alle questioni. Solo quando i cristiani e i musulmani saranno pronti ad affrontare la verità direttamente, in modo frontale, solo allora il dialogo verrà. Altrimenti ci limitiamo a giocare e il dialogo non avrà luogo".