La visita apostolica di Benedetto XVI in Libano dello scorso settembre è stata l’occasione per riportare l’attenzione su una terra e su un popolo che costituiscono di per sé, per l’ordinamento dello Stato e per la drammatica storia recente, una provocazione tanto per i vicini che per i lontani. Nel bene e nel male.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:40

Il Paese dei Cedri è un caso unico in Medio Oriente per il tipo di coesistenza tra cristiani e musulmani. Essa si declina infatti a tutti i livelli: dalla famiglia alla condivisione del potere, ripartito in modo proporzionale tra le principali comunità confessionali. Una combinazione che garantisce un equilibrio delicato, da riguadagnare e consolidare ogni giorno perché sempre sull’orlo dell’imprevisto. «La libertà religiosa è il diritto fondamentale da cui molti dipendono. Professare e vivere liberamente la propria religione senza mettere in pericolo la propria vita e la propria libertà deve essere possibile a chiunque. La sedicente tolleranza non elimina le discriminazioni, talvolta invece le rafforza. E senza l’apertura al trascendente, che permette di trovare risposte agli interrogativi del cuore sul senso della vita e sulla maniera di vivere in modo morale, l’uomo diventa incapace di agire secondo giustizia e di impegnarsi per la pace». Queste parole pronunciate da Benedetto XVI davanti ai membri del Governo e delle istituzioni della Repubblica, al corpo diplomatico, ai capi religiosi e ai rappresentanti del mondo della cultura, a Beirut, durante il suo viaggio in Libano, suonano anche a una certa distanza di tempo come un concentrato efficace di ciò che ha reso quella visita un evento capace di innestarsi nella realtà locale e al tempo stesso superare i confini del Medio Oriente per parlare a tutti. Il Papa, pellegrino di pace per consegnare il documento Ecclesia in Medio Oriente, l’Esortazione Apostolica frutto del lavoro del Sinodo straordinario sul Medio Oriente del 2010, ha setacciato la questione della libertà in tutta la sua ampiezza. Un tema all’ordine del giorno non solo nei Paesi in cui i cristiani e altre minoranze vivono una situazione di discriminazione e di libertà conculcata, ma anche nell’Occidente, provocato dalla sua composizione plurale ad andare al fondo di parole come “tolleranza” o “convivenza”, spesso ormai logore, e a riflettere sulla dimensione personale ma anche sociale della libertà. Lo ha ribadito a chiare lettere il Papa nel Paese dei Cedri: la libertà può essere usata per il male o per il bene perché sempre «il male, il demonio, passa attraverso la libertà umana, attraverso l’uso della nostra libertà. Cerca un alleato, l’uomo». Con la sua presenza fisica a Beirut, a Harissa, a Bkerke e a Charfet, proprio nella settimana in cui sono scoppiate le reazioni violente di alcuni gruppi di estremisti islamici contro il film offensivo nei confronti di Maometto, Benedetto XVI ha testimoniato un modo di esercitare la libertà capace di allontanare le paure e muovere incontro all’altro. E da parte del popolo libanese la risposta a questo gesto non è mancata. La presenza imponente di centinaia di migliaia di pellegrini, venuti da tutto il Libano e dai Paesi vicini per la messa solenne al Waterfront, a due passi dal centro finanziario della capitale libanese, è riuscita a cambiare per un giorno il volto di una delle città più trafficate del Medio Oriente, trasformandola in una chilometrica area pedonale. Davanti all’altare a forma di cedro, costruito con orgoglio patrio in barba a ogni minimalismo architettonico, i fedeli sembravano dire: siamo tanti, diversi, libanesi, giordani, siriani, iracheni, filippini,…. Siamo qui perché tu sei qui, contro ogni malaugurio di chi andava bisbigliando che il viaggio sarebbe stato cancellato per la guerra in Siria. «Non ho mai pensato di rinunciare a questo viaggio – ha detto Benedetto XVI ai giornalisti in volo con lui da Roma a Beirut. Anzi se la situazione diviene più complicata, allora è ancora più necessario donare questo segno di fraternità, di incoraggiamento e di solidarietà». Equilibrio Instabile Un popolo composito, quello accorso dal Papa, protagonista del “modello libanese”, espressione che se da una parte ne esalta la specificità e la ricchezza per tutti, dall’altra tende a semplificare la complessità di una storia e di un presente ancora travagliato, riducendola entro a una comoda griglia. Non sembra un caso che Benedetto XVI abbia usato l’espressione “modello” con una certa prudenza: «Il famoso equilibrio libanese – ha osservato il Papa – che vuole continuare ad essere una realtà, può prolungarsi grazie alla buona volontà e all’impegno di tutti i libanesi. Solo allora sarà un modello per gli abitanti di tutta la regione e per il mondo intero». Quindi c’è un lavoro da fare, una strada da percorrere: «Non si tratta di un’opera solamente umana – ha aggiunto Benedetto XVI – ma di un dono di Dio che occorre domandare con insistenza, preservare a tutti i costi e consolidare con determinazione». Ma che Libano ha trovato il Papa? La Beirut del centro continua a dare l’impressione di un Paese fieramente in via di sviluppo, un cantiere aperto dove nuovi grattacieli puntano audaci verso il cielo, a pochi passi dal mare. Ma basta allontanarsi dal centro e si entra in quartieri più poveri, divisi spesso da assi stradali nei quali gli abitanti riconoscono ancora le linee del fronte della guerra civile. Se poi ci si sposta dalla capitale verso l’interno del Paese, il paesaggio muta ancora, diventa più verde, per quanto ormai la speculazione edilizia abbia preso di mira anche i pendii delle colline, trasformandoli nel giro di pochi mesi in agglomerati di cemento. La presenza di boschi straordinari non basta a fermare le ruspe. Viaggiando verso Est si incrociano i destini di alcuni villaggi e famiglie che, nella loro storia, hanno sempre dovuto fare i conti con la vicina ingombrante Siria. Quei siriani che fino a pochi anni fa erano gli “occupanti”, oggi sono qui i “rifugiati” in fuga da una guerra disperante e senza fine. Lo si legge sui volti delle persone accolte nei villaggi libanesi, lo si ascolta nei loro racconti. Centinaia di migliaia di persone scappano da mesi dai bombardamenti, dai rastrellamenti e dai rapimenti compiuti da mani diverse, a volte delle forze ribelli, a volte dell’esercito nazionale. Attraversano i confini in cerca di una tregua. Il governo libanese non permette campi profughi ufficiali – troppo controversa la questione per il fragile equilibrio intercomunitario – ma nei fatti questi luoghi di prima accoglienza esistono. Tra i Profughi Invisibili A Taalabaya, nella Beqaa, un centro della Caritas libanese accoglie ogni giorno nuove famiglie siriane che chiedono di registrarsi per poter accedere a un minimo di assistenza, un pacco di alimenti, una coperta... Poco distante un pezzo di campagna è stato lasciato ad alcune famiglie che hanno tirato su baracche di cartone, stoffa e lamiere. Per i centocinquanta bambini tra i due e i dieci anni che scorrazzano liberi sulla terra battuta, quel campo è un posto povero certo, ma quasi spassoso. A loro non importa troppo se non possono cambiarsi o lavarsi, sono concentrati a correre con i compagni di avventura. I loro occhi sono pieni di voglia di vita, almeno tanto quanto quelli delle loro madri sono vuoti, smarriti nel mare di desolazione che le circonda. La maggior parte delle duecento famiglie presenti giunge dalla periferia di Homs, scappata da un inferno per ritrovarsi in baracche dove il pensiero solo di dovervi trascorrere un inverno intero si fa insopportabile. Per una giovane madre, 26 anni, lo scorrere stesso del tempo si è inceppato. Il passato si è ingoiato il marito, ucciso in Siria, e la casa, distrutta dalle bombe; il futuro non si lascia intravedere. Solo il presente vuoto di speranza grava addosso a lei e ai suoi due figli. Condividono il suo sostare in questo mondo sospeso centinaia di altre persone. Ogni profugo che ha passato il confine porta con sé un fardello unico che non si può assimilare agli altri. Nell’edificio di una scuola elementare del villaggio di Dayr Zanoun, sempre nella Beqaa, sono state sistemate venti famiglie di Damasco. Queste hanno almeno trovato un vero tetto, l’acqua corrente e la luce per due ore al giorno. Ma la loro agitazione è totale quando l’assistente sociale della Caritas spiega che con l’inizio dell’anno scolastico dovranno andarsene da lì. Mentre distribuiscono i generi alimentari, i volontari sono subissati dalle proteste dei rifugiati: non accettano di essere spediti via come dei pacchi da quella scuola, chiedono che i loro diritti siano rispettati. Soprattutto, in quanto sunniti, hanno paura di essere trasferiti nella zona di Baalbek a maggioranza sciita. Il direttore della scuola si muove preoccupato tra i locali, conta i danni provocati da questi ospiti ingombranti: le aule sono diventate camere da letto e cucine insieme, le lavagne reggono spazzole per capelli e sapone, mentre il giardino è usato come servizio igienico. Un giovane padre di tre figli, falegname di mestiere, ha lasciato la Siria perché rischiava come suo fratello di sparire. Del fratello non ha più notizie così come non sa nulla di quello che sta davvero accadendo in patria. Ma almeno ha salvato la vita di sua moglie e dei suoi tre bambini. Ci sono anche nei villaggi e nelle grandi città dei profughi più fortunati, che possono pagare un affitto di 200 o 250 dollari al mese. Possono permetterselo perché almeno un componente della famiglia ha trovato un lavoro. Sono spesso più nuclei famigliari che condividono lo stesso appartamento e il comune dolore. Nelle case non c’è mobilio, si vive quasi per terra. Nella miseria generale, si incappa anche in storie intessute di una riconoscenza che dura nel tempo: una famiglia siriana, in cui la madre non ha più notizie del marito e padre dei suoi quattro figli, ha trovato accoglienza presso una famiglia libanese che aveva ospitato anni prima, nella sua dimora in Siria, quando il Libano era stato travolto da una fase di violenza. Ma se la storia incalza con i suoi corsi e ricorsi, la geografia impressiona per la breve distanza, un’ora di macchina al massimo, tra l’abisso di disperazione di questi profughi di Siria e l’accorre dei fedeli cattolici attorno al Papa per chiedergli di essere confermati nella fede, di essere aiutati a sperare. La Tregua Non una voce critica si è levata nei giorni della vigilia, a parte quella di un isolato shaykh salafita che pretendeva le scuse di Benedetto XVI per il suo discorso di Regensburg, mentre tutte le comunità esprimevano l’attesa per un evento capace di garantire una sorta di “tregua”. E tregua è stata, con l’eccezione di alcune manifestazioni tenutesi in quei giorni a Tripoli contro il film Innocence of Muslims, il cui grave bilancio è stato di un morto e quasi trenta feriti. «La visita del Papa ha trovato una grande accoglienza positiva – spiega Georges Corm, economista e storico libanese – perché è stata percepita come una pausa di felicità per il nostro popolo. La popolazione è esasperata, ha sempre i nervi a fior di pelle. Alla tensione politica si aggiunge un notevole aumento della criminalità. Ci sono alcune aree del Paese che possono stare più di dodici ore senza elettricità, se non diciotto. In molte regioni l’acqua non arriva ai rubinetti. Le performance socio-economiche sono di basso livello. Anche un breve istante di felicità è già molto nella vita difficile che viviamo da 40, 50 anni». Anche se, aggiunge poi Corm, «questo non potrà continuare dopo». Anche la visita in Libano di Giovanni Paolo II nel 1997 fu per lui un grandissimo momento per la storia patria, una terra scelta come luogo privilegiato dal quale lanciare un “messaggio” nuovo a tutto il Medio Oriente e all’Occidente, ma che rimase a suo dire una pagina senza seguito.  Una lettura che ha trovato una triste conferma nell’attentato in cui è rimasto ucciso il capo dei servizi segreti, avvenuto nel quartiere cristiano di Achrafieh, nel pieno centro di Beirut, solo un mese dopo la partenza del Papa. Tutelare il Pluralismo Le ragioni della debolezza del Libano sono tante per Corm. Tra queste la mancanza di un’educazione che valorizzi la tradizione dei cristiani libanesi e il comunitarismo, che frena l’edificazione di una vera cittadinanza, perché riduce l’identità di una persona alla sua appartenenza a uno dei 18 gruppi confessionali riconosciuti dallo Stato. «Quanto all’educazione – spiega Corm – non troverete nelle nostre scuole secondarie un libro di testo con la storia della Chiesa di Antiochia, mentre si impara a memoria la storia di Francia o degli Stati Uniti e si arriva a pensare che il Cristianesimo sia nato a Roma. Scrivete un libro sui cristiani sfortunati e perseguitati in Medio Oriente e sarà un bestseller. Se scrivete un libro sulla complessità delle vicende di qui, non venderete che poche copie…». «Noi sosteniamo l’appello rivolto ai cristiani del Mashreq per preservare la loro presenza nel mondo arabo e sosteniamo pure l’Esortazione che è stata indirizzata a loro di ricoprire il loro ruolo nel quadro di un’azione nazionale comune, nella fiducia che questo preserverà l’unità del tessuto sociale di questa parte del mondo»: le parole che Mohammed Rashid Kabbani, sunnita, muftì della Repubblica, ha rivolto al Papa sono state interpretate da molti come un’ammissione da parte musulmana della “necessità” che i cristiani non se ne vadano dal Medio Oriente, perché la loro presenza è garanzia di unità sociale. Parole importanti per Antoine Messarra, cattolico maronita, membro della Corte Costituzionale: «L’Islam arabo dunque si libera e bisogna aiutarlo a liberarsi. La sfortuna è che i cristiani del mondo arabo hanno fatto un passo indietro. I musulmani libanesi hanno bisogno dei cristiani come un sostegno nella tradizione della libertà. Credo sia questo il senso e il contenuto centrale dell’intervento del Muftì. Che vergogna, sul piano della fede, che le religioni accettino di dividersi in religioni che impauriscono e religioni impaurite. Immaginate se, per esempio, cominciassi ad aver paura dell’Islam. Ma l’Islam è nella mia cultura, nelle mie relazioni quotidiane!». Ciò che va difeso per Messarra è il pluralismo arabo: «Il grande problema sul terreno non è tutelare la presenza dei cristiani nella regione né l’islamismo. Il problema centrale è la protezione del tessuto pluralista arabo. E il principio centrale in una realtà pluralista è la libertà religiosa. L’Islam deve prendersi il tempo per ripensare la questione». Anche per Messarra la sfida è ancora una volta educativa: «Uno dei problemi della divisione della città in quartieri diversi è che molti giovani, nati durante e dopo la guerra, non hanno potuto vivere il tempo della convivialità, non l’hanno imparata dall’esperienza. Così oggi abbiamo una grande emergenza educativa in questo senso». Se per il cristiano Messarra l’Islam è parte del suo DNA, il sunnita Hisham Nashabe, presidente dell’Istituto di Studi islamici dell’Università Makassed, nel trarre il suo bilancio personale, rileva che in quanto musulmano «si specchia nella presenza dei cristiani tra di noi». Nashabe è convinto che la visita del Papa farà crescere il desiderio di una conoscenza più accurata del Cristianesimo da parte musulmana: «Come in Occidente si sono sviluppati gli studi orientalisti, così si dovrebbero sviluppare maggiormente in Medio Oriente gli studi “occidentalisti”. Questa è una provocazione culturale che il Papa, forse inconsapevolmente, ha lanciato al Libano». Concetti Killer Certo qualcuno si aspettava un Papa dotato di bacchetta magica che risolvesse di schianto i problemi del Paese. Invece, come rileva Mons. Paul Rouhana, vicario patriarcale di Sarba e Jounieh, Benedetto si è presentato come un pastore preoccupato di guidare il suo gregge, di porre al centro il valore della dignità umana sul quale – come anche l’Esortazione Apostolica rileva – tutti i credenti e gli uomini di buona volontà si incontrano anche in momenti storici difficili come la guerra in Siria. «La vicenda della Siria e la situazione dei cristiani, che rischiano di essere sotto il fuoco incrociato delle due parti in guerra – osserva Mons. Rouhana – ci interrogano profondamente da tanti punti di vista. Urge trovare una soluzione che salvaguardi l’unità del Paese. Non vi sarà mai una soluzione “per i cristiani” soltanto, così come anche in Libano non c’è mai potuta essere una soluzione esclusiva per loro. Cristiani e musulmani condividono in entrambi i Paesi lo stesso destino. Quello che ci auguriamo è che anche la Siria possa approdare a una convivialità islamo-cristiana come quella che oggi viviamo in Libano. Il comunitarismo tende a creare fossati nella società? Certo non è la soluzione migliore, ma da qui si può partire per costruire una vera cittadinanza comune». Secondo Mons. Rouhana, La voce «ragionevole e moderata» del Papa, che a 85 viene a dire che la fede non è una rêverie, ma si implica con tutta la realtà, sa essere universale. Per lui anche i musulmani si riconoscono in alcune delle “battaglie” del Papa: «L’Islam non è un monolite». Lo si constata ulteriormente nel profilo di un intellettuale come Ibrahim Shamseddine, docente di scienze politiche all’American University di Beirut, sciita, per il quale gli interventi del Papa hanno permesso di tornare a riflettere sulla “formula libanese”. La specialità di tale formula non consiste nella dualità cristiano-musulmana dello Stato, ma in un triangolo: «Il trio democrazia-Islam-Cristianesimo rende unico il Libano. Se non vi fosse il fattore “democrazia”, non sarebbe possibile neppure una partnership cristiano-musulmana. La formula collasserebbe. Ci sono tante difficoltà, non ultime quelle che nascono dal contesto geografico nel quale il Libano si trova, e c’è un veleno in circolo nel Paese, cioè la presenza di milizie armate e gruppi confessionali che di fatto scavalcano e indeboliscono lo Stato dal di dentro. Il governo non decide perché le istituzioni sono paralizzate». Il punto per Shamseddine è smettere di ricorrere alla categoria di “minoranza”, un concetto “killer”: «Gli sciiti non sono una minoranza. Io rifiuto di essere chiamato minoranza. I cristiani sono parte della grande maggioranza araba, e gli sciiti sono parte della maggioranza musulmana». C’è una formula chimica che secondo lui ben riassume il Libano, quella dell’acqua,: «Noi abbiamo bisogno di due molecole di idrogeno e una di ossigeno. Non altro. Dio ha creato le cose così. I cristiani sono l’ossigeno della nostra democrazia». I contenuti della rivista non sono attualmente disponibili on line. Acquista una copia o abbonati per leggere tutti gli articoli di Oasis.

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