Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:21

Nella settimana della Festa della Donna, riecheggiano forti le parole del Grande Imam dell’Azhar sulla poligamia. Il tema dei diritti delle donne non si esaurisce però in Egitto, come si vede da quanto sta succedendo in Arabia Saudita e da quanto è accaduto in Siria. Ed è proprio il processo di ricostruzione siriano, dopo l’apparente fine del Califfato, a porci alcuni interrogativi. Ulteriori domande arrivano dall’Europa, circa il posto che occupa il Cristianesimo nel Vecchio Continente, e dal Nord Africa, riguardo il futuro dell’Algeria.

 

 

Il Grande Imam dell’Azhar sulla poligamia

 

Di grande portata sono le dichiarazioni sulla poligamia del Grande Imam dell’Azhar Ahmad al-Tayyeb, rilasciate nella giornata di venerdì scorso durante il suo programma televisivo settimanale e subito riprese dal quotidiano al-Ahram. Secondo al-Tayyeb, «quelli che sostengono che il matrimonio deve essere poligamico sono in errore». La poligamia, o per meglio dire la poliginia, è stata inoltre definita «un’ingiustizia per donne e bambini», quando fondata su uno scorretto approccio al Corano. In particolare, l’Imam ha fatto riferimento all’incompleta lettura del terzo verso della quarta Sura, An-Nisâ' (Le Donne) che recita per intero:

 

E se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani, sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono; ma se temete di essere ingiusti, allora sia una sola o le ancelle che le vostre destre possiedono, ciò è più atto ad evitare di essere ingiusti.

L’affermazione di al-Tayyeb ha ovviamente suscitato reazioni forti. Come riporta il sito giordano Albawaba, al plauso del Consiglio Nazionale delle Donne – che si è affidato a Twitter per ringraziare al-Tayyeb – hanno fatto da contraltare le risposte sdegnate di alcuni cittadini. Il dibattito molto acceso ha costretto l’Imam a chiarire la sua posizione: in un tweet è infatti la guida di al-Azhar a sottolineare che la poligamia non deve essere abolita, specificando il completo rifiuto per ogni legge in difformità con il Corano o la Sunna.

 

In realtà, la questione è lontana dall’essere esclusivamente dottrinale, soprattutto se si considerano i risvolti che ha nella quotidianità egiziana. Come riporta il giornale online egiziano Egyptian Streets, la Legge 1/2000, che obbliga l’uomo a informare la moglie prima di sposarne una seconda, esiste solo sulla carta. L’attualità della questione si coglie anche solo dal fatto che non più di un anno fa un membro del Parlamento egiziano, Abla Hawary, abbia cercato di presentare un disegno di legge, poi mai approvato, che prevedeva il carcere per chiunque avesse infranto la Legge 1/2000.

 

Le dichiarazioni di al-Tayyeb non hanno avuto un’eco solo nella società civile, ma anche nel mondo politico, come evidenzia Egypt Independent. Il 6 marzo, a meno di una settimana dalle affermazioni di al-Azhar, il parlamentare Mohamed Fouad ha infatti presentato un progetto di legge per modificare la Legge 103 del 1961, con l’intento di ricomporre il Consiglio Superiore degli Ulema secondo un principio di equità di genere, per cui almeno il 25% delle autorità deve essere donna.

 

Il dibattito sulle libertà delle donne va però ben oltre i confini egiziani, come è ben evidenziato in questo articolo del Washington Post che si concentra sull’Arabia Saudita. Nel Paese esiste infatti una forte limitazione alle libertà individuali, soprattutto femminili, a dispetto dei proclami riformisti del Principe ereditario Muhammad Bin Salman. Le donne, per esempio, possono viaggiare solo con il benestare del proprio tutore legale (wali). E a smuovere l’interesse del quotidiano americano è proprio un’app, Absher, che rinforzerebbe questo sistema, consentendo agli uomini di controllare dove e quando le donne possono spostarsi. Mentre Apple sta ancora indagando sulla liceità dell’applicazione, Google ha annunciato in settimana che Absher non viola i termini del servizio. La scelta è in parte anche giustificata dal successo dell’applicazione, che conta quasi 76.000 download. A ribadirlo è anche Khawla al-Kuraya, Direttore del Centro di Ricerca sul Cancro dell’ospedale King Faisal di Riyadh. In questo pezzo su Bloomberg, il medico saudita riconosce come l’app abbia in realtà aiutato le donne, permettendo loro di ottenere l’autorizzazione a viaggiare in modo semplice. In questo modo si evita un lungo processo burocratico che in passato veniva usato dagli uomini come scusa per negare i permessi alle proprie mogli o figlie.

 

Ma l’app è solo la punta dell’iceberg di un sistema iper-controllante, come dimostra il caso di Bethany Vierra, ex moglie di un uomo d’affari saudita. La donna è infatti bloccata a Riyadh dal momento in cui il marito ha lasciato scadere il suo permesso di soggiorno, di fatto privandola della possibilità di accedere ai conti bancari o di lasciare il Paese. è comunque preoccupante anche la condizione di cittadini sauditi critici verso la monarchia che si trovano negli Stati Uniti. Lo si capisce appieno in questo video della PBS che racconta i timori di tre giovani sauditi, minacciati dalle istituzioni del Regno dopo aver assunto posizioni in contrasto con quelle di Riyadh.

 

È interessante notare, come ha fatto Foreign Policy, che spesso le narrative che riguardano le donne trasmettono un’idea distorta della figura femminile. E questo discorso è particolarmente valido se si affronta la questione delle donne che fanno parte di ISIS, e più nello specifico delle muhajirat, le donne partite dall’Europa per combattere. Pensare a loro esclusivamente come vittime o carnefici non aiuta a comprendere la complessità del fenomeno e le motivazioni che hanno spinto migliaia di giovani donne ad arruolarsi fra le fila delle brigate femminili Umm al-Rayan o al-Khansaa, che in passato hanno contribuito alle fortune di ISIS.

 

 

La fine di ISIS?

 

Il sedicente Stato Islamico è però oggi ormai relegato in un fazzoletto di terra nella cittadina di Baghouz, nel governatorato di Deir el-Zor al confine con l’Iraq, dove sarebbe anche trattenuto padre Dall’Oglio. Nonostante gli annunci riguardo la fine del Califfato, il Washington Post parla di una nuova ondata di violenza. Se a breve è difficile immaginarsi la rinascita di uno Stato Islamico territorialmente esteso, anche a causa della scomparsa del cosiddetto “tesoro dell’ISIS”, i fattori che hanno contribuito all’emergenza di ISIS come gruppo terroristico sono ancora presenti. Tensioni settarie, corruzione, militarizzazione del territorio e disordini sociali sono infatti gli ingredienti che hanno permesso la nascita del gruppo, senza dimenticare la destabilizzazione della Siria dopo il 2011.

 

Ed è proprio sul processo di ricostruzione del Paese che si è concentrato Eugenio Dacrema su Syria Untold, ridimensionando le convinzioni diffuse che la Siria ambisca a un ritorno alla situazione pre-2011 e che il Paese punti a investimenti internazionali massicci. Secondo l’autore infatti gli obiettivi di Damasco sarebbero altri. In primo luogo, la ricostruzione non mira al ritorno al passato, ma al completamento del processo trasformativo della società siriana iniziato con la guerra. Di conseguenza, la riedificazione sarà meno inclusiva e sarà gestita principalmente dal governo siriano. Il secondo obiettivo è invece la riaffermazione dell’indipendenza di Damasco nello scacchiere regionale, perseguibile solo attraverso la creazione di legami bilaterali con alcuni attori chiave.

 

 

L’Europa è ancora cristiana?

 

Se lo domanda, o meglio, lo domanda Le Figaro agli intellettuali francesi Olivier Roy e Pierre Manent. L’intervista, ripresa in Italia da Il Foglio, è una lunga conversazione sull’identità cristiana europea, definita da Roy «un’identità negativa (…) a causa della presenza dell’Islam». In realtà, «l’individuo che desidera», figlio per Roy del Maggio francese, è diventato fondamento del vincolo sociale e ha plasmato la cultura dominante, con cui la Chiesa deve necessariamente confrontarsi. Eppure questo confronto cela un pericolo, come nota Manent, ovvero «la dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’”apertura all’altro”». Dall’altra parte ci sono anche i rischi connessi alla secolarizzazione e alla deculturazione, che minano i ponti fra «quelli che credono al cielo e quelli che non ci credono».

 

 

Ancora tensioni in Algeria

 

Non si placano le proteste in Algeria contro la ricandidatura dell’ottuagenario presidente Abdelaziz Bouteflika. Come ricostruisce Jadaliyya, le manifestazioni in corso nascono da un sentimento definito hogra (traducibile con un senso di ingiustizia sociale che si accompagna alla rivendicazione di una vita dignitosa). Sempre secondo il sito, le proteste si caratterizzano per un’assenza di ingerenze straniere e per un rifiuto verso un sistema politico frammentato e colluso con il potere a tutti i livelli, dai partiti tradizionali all’Unione Generale Algerina del Lavoro (UGAT) fino alle classi sociali più agiate. Resta un’incognita il ruolo che giocheranno le forze di sicurezza e l’esercito, tradizionale colonna portante dell’Algeria. Ad aumentare l’incertezza della transizione politica è anche l’assenza di un’alternativa credibile a Bouteflika, come nota Thomas Serres sempre su Jadaliyya. In conclusione, nonostante sia probabile che i tumulti da parte della società civile continuino, appare lontana la possibilità di un’escalation che ricalchi le orme delle Primavere Arabe: accanto al ricordo ancora vivo della sanguinosa guerra civile degli anni ’90, sono i casi di Libia e Siria a fungere da monito per la popolazione.

 

 

 

IN BREVE

 

-          Nigeria: i pastori Fulani hanno attaccato il villaggio di Karamar incendiando molte case e la chiesa locale. Hanno poi aperto il fuoco, uccidendo 32 cristiani del posto.

 

-          Papa Francesco in Marocco: secondo l’arcivescovo di Rabat, Cristobal Lopez Romero, la visita apostolica del Papa aiuterà a far luce sulla condizione dei migranti.

 

-          Yemen: mentre ci si concentra su Hodeidah e sul discusso cessate il fuoco, si sono registrati nel distretto di Hajour, nel nord dello Yemen, scontri molto violenti fra i ribelli houthi e le tribù locali.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis