Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:10

Il 5 febbraio è terminata la storica visita di tre giorni di Papa Francesco ad Abu Dhabi. Il suo 27° viaggio apostolico è coinciso con il primo di un Pontefice nella Penisola Arabica, suscitando la reazione positiva dei media filo-emirati. Alla sfarzosa cerimonia di benvenuto di lunedì 4 febbraio, hanno fatto seguito l’incontro nel pomeriggio con i rappresentanti del Consiglio dei Saggi, presieduto dal Grand Imam dell’Azhar Ahmad al-Tayyeb, e l’incontro interreligioso nel Founder’s Memorial. Proprio in questa occasione il Santo Padre e il Grand Imam hanno firmato il “Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune”, pietra miliare del dialogo interreligioso, come sottolineato da padre Adrien Candiard e ribadito più volte dal Segretario di Stato vaticano Parolin. Il testo include preziose novità e chiama tutti a «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace», introducendo per la prima volta un riferimento anche alle religioni non abramitiche. Il viaggio si è poi concluso nella giornata di martedì con la visita alla Cattedrale di Abu Dhabi e la Santa Messa allo Zayed Sports City Stadium di fronte a circa 140.000 fedeli, fra cui anche 4.000 musulmani. Vanno inoltre registrati i telegrammi inviati dal Pontefice ai reggenti dei paesi sorvolati durante il viaggio di ritorno: oltre ai ringraziamenti allo sceicco Khalifa bin Zayed, importanti sono le preghiere riservate a Re Salman, allo Sceicco bahreinita al-Khalifa e al Presidente egiziano al-Sisi.

 

Nella nostra rassegna stampa dai media arabi abbiamo raccontato di come le reazioni alla visita di Papa Francesco siano state influenzate dalla geopolitica: se gli organi di informazione filo-emiratini hanno plaudito all’evento, i media vicini al Qatar non hanno perso l’occasione per ricordare le violazioni di diritti umani perpetrate dagli Emirati. Per quanto non siano mancate voci critiche, soprattutto da parte di attivisti e ONG, sarebbe quantomeno parziale e distorto non riconoscere la portata dell’evento e l’estrema rilevanza del documento firmato ad Abu Dhabi. Il testo infatti non va sminuito per almeno due importanti ragioni.

 

In primo luogo, le fondamenta al dialogo interreligioso, soprattutto con i musulmani, poste nel Concilio Vaticano II grazie agli sforzi di Georges Anawati, Joseph Cuoq e Jean Lanfry non hanno sempre trovato continuità nella pratica religiosa[1]. Il Pontefice ha però ricordato che l’incontro è «un passo avanti che viene da 60 anni, il Concilio che deve svilupparsi». L’approccio pragmatico di Francesco si colloca dunque nello sforzo conciliare iniziato oltre mezzo secolo fa con la dichiarazione Nostra Aetate e risuona con tutta la sua forza nell’affermazione:

Chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione nel diffondere i princìpi di questa Dichiarazione a tutti i livelli regionali e internazionali, sollecitando a tradurli in politiche, decisioni, testi legislativi, programmi di studio e materiali di comunicazione.

La rilevanza del documento è stata percepita anche da alcuni musulmani in Italia, come il Presidente della Coreis Yahya Pallavicini che parla di «documento storico di grade ispirazione e concretezza».

 

Un secondo motivo che evidenzia l’importanza dell’incontro e della Dichiarazione prodotta risiede nel fatto che il Pontefice non abbia affatto taciuto delle problematiche connesse alla politica estera degli Emirati. Gli Emirati hanno intrapreso infatti un cammino per affermarsi come attore globale, facendo affidamento su un’immagine di tolleranza e su una decisa diplomazia culturale, i due pilastri del soft power emiratino. Essi non solo si rivolgono al mondo cattolico, ma hanno mostrato segni di apertura verso la platea evangelica americana e nei confronti della realtà ebraica. Accanto a questo potere soft coesiste però anche una dimensione hard, militare, che è alla base di una politica estera assertiva, come si può apprezzare dal conflitto in atto in Yemen. Ed è proprio all’appendice meridionale della Penisola Arabica che il Pontefice ha fatto riferimento durante l’Angelus in San Pietro, a poche ore dalla partenza per gli Emirati, un paese che è molto attivo insieme all’Arabia Saudita in Yemen.

 

 

Le frizioni fra Stati Uniti ed Emirati

Secondo quanto riportato dal membro della Camera dei Rappresentanti americana Ilhan Omar, gli oltre 17.000 morti, 40.000 feriti e 22 milioni di persone che necessitano aiuti umanitari fanno dello Yemen un Paese al collasso, un teatro da cui gli Stati Uniti cercano ora di defilarsi. Alcuni membri della Camera, fra cui il democratico Ro Khanna, stanno provando a rinegoziare la posizione americana in Yemen facendo appello alla War Power Resolution, una risoluzione che consente al Congresso di bloccare qualsiasi intervento militare approvato dal Presidente e notificato entro le prime 48 ore. Nonostante le resistenze di parte dell’establishment presidenziale e dell’ambasciatore yemenita a Washington, Ahmed Awad Bin Mubarak, la posizione americana allineata con l’Arabia Saudita e con gli Emirati inizia a mostrare qualche crepa. Oltre alle rimostranze interne, si possono osservare almeno tre fattori che nell’ultima settimana hanno interrogato gli Stati Uniti sul proprio appoggio alla coalizione a guida saudita.

 

Innanzitutto, a mettere pressione sulla Casa Bianca ci sono anche alcune ONG, a partire da Medici Senza Frontiere. Nonostante aver curato 973.095 pazienti, effettuato 76.436 interventi chirurgici e fatto nascere 64.032 bambini, l’organizzazione Premio Nobel per la Pace del 1999 è stata oggetto di attacchi per ben cinque volte dal 2015. L’ultima, ad Abs nel giugno 2018, è stata oggetto di indagine da parte di una Commissione incaricata dalla coalizione saudo-emiratina. Le conclusioni, giunte nel mese scorso e rese pubbliche all’inizio di febbraio, sono però ricche di contraddizioni: se da un lato si ammette la possibilità che a colpire la sede ospedaliera siano state bombe della coalizione, dall’altro si fa ricadere la responsabilità sull’ONG, rea di non aver segnalato a dovere la struttura assistenziale.

 

Il secondo elemento a far sospettare gli Stati Uniti dell’affidabilità degli alleati del Golfo è raccolto in un’inchiesta di Reuters. Nel 2014 alcuni ex-dipendenti dell’NSA, l’agenzia americana per la sicurezza nazionale, avrebbero preso parte al Progetto Raven, un’iniziativa di spionaggio a marca emiratina per controllare dissidenti politici, attivisti e governi stranieri. A parlare è Lori Stroud, ex-agente NSA e per un certo periodo collaboratrice di Edward Snowden. La Stroud nel 2014 iniziò a lavorare come contractor per CyberPoint, un’agenzia di sicurezza con sede a Baltimora, in stretto contatto con gli Emirati e base operativa del Progetto Raven. Inizialmente gli obiettivi ufficiali da controllare erano rappresentati dai militanti dello Stato Islamico in Iraq e Siria e da affiliati ad Al Qaeda nella Penisola Arabica. In realtà, le operazioni di spionaggio, possibili grazie al software Karma, andavano ben oltre, come esemplificato dai casi Rori Donaghy, giornalista britannico spiato per essere stato critico verso gli Emirati, e Ahmed Mansoor, attivista in prima linea contro la guerra in Yemen, condannato nel dicembre 2018 a 10 anni di prigione. Benché il Governo americano fosse a conoscenza dell’attività condotta da CyberPoint fin dal 2014, l’accordo fra l’NSA e l’agenzia di Baltimora vietava esplicitamente ogni attività di spionaggio a danni di cittadini americani. Probabilmente per questo motivo, il Progetto Raven venne improvvisamente spostato presso la neonata Dark Matter, questa volta con sede negli Emirati. Ed è qui che la Stroud è venuta a conoscenza di una lista confidenziale di giornalisti americani da sorvegliare, nota come “white list”. Il racconto, che si interrompe qui, lascia comunque intendere che l’FBI sia sulle tracce di chi gestisca questo servizio e di chi abbia contravvenuto gli accordi iniziali.

 

In conclusione, un terzo tema di discordia sarebbero alcune armi trasferite da Washington ad Abu Dhabi e Riyadh, finite poi nelle mani di gruppi affiliati ad Al Qaeda, come le Brigate Abu Abbas o il gruppo salafita Alwiyat al Amalqa. Secondo l’inchiesta della CNN, altri armamenti sarebbero stati trasferiti al gruppo ribelle degli houthi, violando i termini dell’accordo sulle transazioni militari. I nodi della questione sono due: l’infrazione di accordi commerciali e il supporto fornito a organizzazioni terroristiche, che prosperano nel contesto altamente destabilizzato dello Yemen. Ad esempio, solo nel mese scorso Al Qaeda ha colpito tre volte l’esercito nazionale e dieci volte i “competitor” dello Stato Islamico in Yemen, che ha risposto attaccando per cinque volte affiliati al gruppo qaedista. Da questi dati emerge inoltre come l’idea di uno Stato Islamico sconfitto sia priva di fondamento. Se è vero che in Siria gli affiliati al sedicente Califfato sono confinati in un’area «poco più grande di Central Park» dopo aver perso anche il villaggio di Baghuz (una piccola roccaforte sul fiume Eufrate al confine fra Siria e Iraq), la promessa rinnovata da Trump di «eliminare completamente l’ISIS nell’arco di una settimana» mal si concilia con le testimonianze di quanto sta accadendo in Yemen. Oltre al fatto che, secondo alcuni report, i seguaci di al-Baghdadi sarebbero ancora in possesso di Padre Dall’Oglio, che sarebbe quindi vivo, insieme al giornalista inglese John Cantlie.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

[1] Anna Hege Grung, Interreligious dialogue Moving between compartmentalization and complexity, «Approaching Religion», n. 1 (2011), pp. 25-32.