Rinaldo Marmara, Giovanni XXIII amico dei turchi, Jaca Book, Milano 2013 (prima edizione francese 2001)

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:53:33

Tra il 1935 e il 1944 Giovanni XXIII fu amministratore del vicariato latino di Istanbul e delegato apostolico in Turchia e Grecia. Dieci anni di eccezionale importanza in cui presero forma, nel nascondimento di una ex-capitale diventata tutto sommato secondaria nello scacchiere mondiale, alcune convinzioni che si sarebbero manifestate al mondo molto più tardi, negli anni del Pontificato e dell’indizione del Concilio.Il volume di Rinaldo Marmara, ora tradotto in italiano, restituisce con precisione e cura quel decennio cruciale, attingendo ai documenti d’archivio tuttora conservati presso il vicariato d’Istanbul. Il libro è prima di tutto l’incontro con un santo, un cristiano che, come ha dichiarato Papa Francesco nell’omelia di canonizzazione, «ha dimostrato una delicata docilità allo spirito, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata». La situazione che Roncalli trovò a Istanbul, arrivando dalla Bulgaria, era tutt’altro che facile. C’era da impostare il rapporto con la nuova Repubblica di Turchia, con le altre comunità religiose, con gli ortodossi. Ma prima di tutto c’era da correggere un atteggiamento di fondo comune tra i cattolici, ridotti a piccolo gregge dopo gli sconvolgimenti della fine dell’impero ottomano. «Ecco – scrive Roncalli – noi cattolici latini di Istanbul e cattolici di altro rito armeno, greco, caldeo, siriano, ecc., siamo qui una modesta minoranza che vive alla superficie di un vasto mondo con cui abbiamo solo rapporti superficiali. Noi amiamo distinguerci da chi non professa la nostra fede: fratelli ortodossi, protestanti, israeliti, musulmani, credenti o non credenti di altre religioni […]. Pare logico che ciascuno si occupi di sé, della sua tradizione familiare e nazionale tenendosi serrato entro il cerchio limitato della propria consorteria […] Miei cari fratelli e figliuoli: io debbo dirvi che nella luce del vangelo e del principio cattolico, questa è una logica falsa» (p. 28). Sono parole che dovrebbero essere meditate sempre e che Roncalli visse in prima persona. Fu lui infatti l’artefice del primo disgelo con il patriarcato ecumenico, che si espresse nel 1939 nella presenza di alcuni rappresentanti ortodossi alla cerimonia funebre in suffragio di Pio XI e al Te Deum per l’elezione di Pio XII. Approfittando del varco che si era aperto, Roncalli stesso si recò allora in visita al Fanar, venendo ricevuto con tutti gli onori dal Patriarca Beniamino. Era la prima volta da secoli. Anni dopo Atenagora avrebbe commentato: «Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni». Ma il raggio della cura pastorale non si fermava alle porte della chiesa. Roncalli infatti nutrì uno straordinario amore per Istanbul, di cui amava ricordare con toni quasi lirici l’abbacinante bellezza («quella incomparabile metropoli […], alla quale la natura, la storia e l’arte hanno conferito un primato di bellezza che la rende sempre oggetto di una grande ammirazione», p. 6), e per il popolo turco. Quell’«io amo i turchi» così spesso citato non fu un’espressione passeggera, ma un sentimento che andò rafforzandosi negli anni e che non lo lasciò neppure una volta divenuto Pontefice. Roncalli infatti era convinto – e lo scrisse – che il cambiamento in atto nella neonata Repubblica fosse uno degli eventi più significativi del XX secolo. Questo lo indusse anche a dar prova di flessibilità rispetto agli eccessi del kemalismo, pur senza rinunciare a un giudizio su di essi. È significativo un episodio: quando nel 1935 entrò in vigore la norma che imponeva l’abito civile in pubblico a tutti i ministri dei culti, con la consueta bonomia Roncalli diede l’esempio e aiutò il suo clero ad acquistare abiti civili adeguati, cosa non facile se si pensa che alcuni religiosi vestivano l’abito da più di 50 anni. Ma sotto una fotografia che lo ritraeva in compagnia del clero latino annotò a mano: mutatis immutandis, “cambiate le cose che non vanno cambiate”. Il desiderio d’incontrare realmente il popolo lo spinse anche ad adottare la lingua turca in alcune parti della liturgia, nonostante le obiezioni di «certi cattolici di mente ristretta» che avrebbero preferito continuare a utilizzare il francese o l’italiano. Il provvedimento peraltro non fu imposto al clero, ma si diffuse gradualmente, per imitazione. E Roncalli stesso, che non aveva il dono delle lingue, si applicò con energia a imparare il turco, stringendo al tempo stesso relazioni di amicizia con molti rappresentanti del governo. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la sede periferica tornò al centro degli avvenimenti mondiali. Mentre la Grecia, che ricadeva anch’essa sotto la giurisdizione del delegato apostolico, veniva invasa dall’Asse, la Turchia, conservando la neutralità, divenne teatro di un’intensa azione diplomatica. Roncalli si prodigò personalmente per salvare migliaia di ebrei dallo sterminio, fornendo loro documenti falsi, e al tempo stesso ordinò insistentemente di pregare per la pace, formulando un voto solenne per chiedere che Istanbul fosse risparmiata dalle bombe. La sua azione fu talmente efficace che ancora prima della fine del conflitto il delegato, che nulla aveva fatto per essere promosso, fu assegnato alla prestigiosa sede di Parigi. Da lì poi sarebbe passato a Venezia e infine a Roma. Vocazione alla santità per tutti i cristiani, Chiesa non ripiegata su se stessa, liturgia comprensibile al popolo, ecumenismo e azione per la pace: sono i principi dei dieci anni che Roncalli trascorse a Istanbul. Sono il programma che Giovanni XXIII dettò alla Chiesa.