L’estremismo pone la questione della mancanza di ideali in un’Europa in cui le ideologie classiche non mobilitano più

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:10

Il jihadismo è oggetto di molteplici forme di analisi e critiche. La pluralità di tesi che lo riguardano vanno dalla denuncia pura e semplice dell’Islam (la religione di Allah sarebbe per sua natura jihadista e quindi terrorista), avanzata da intellettuali americani neo-conservatori, da giornalisti come la defunta Oriana Fallaci o da fautori dell’estrema destra europea come, tra gli altri, Geert Wilders, ad analisi più sfumate, che chiamano in causa considerazioni storiche, antropologiche e sociologiche legate all’Islam, oltre ad analizzare la dimensione politica e geostrategica dell’islamismo radicale. Si contendono il campo visioni opposte, che si chiedono se occorra interpretare il jihadismo come la radicalizzazione dell’Islam o l’islamizzazione della radicalità[1], o ancora se sia necessario considerarlo un fenomeno “leaderless” (senza direzione unificata dall’alto) o ben strutturato[2].

La ricerca mostra però come la realtà si ribelli a queste visioni dicotomiche, che sono da articolare piuttosto che da contrapporre. Lo stesso vale per le tesi che considerano esclusivamente il carattere “depressivo” dei jihadisti[3] o la loro sessualità problematica[4], o ancora il fatto che il jihadismo proceda da una natura confessionale e nasca con l’indottrinamento dei giovani[5] o l’esistenza di una domanda “rivoluzionaria” da parte dei giovani che vorrebbero prendere questa strada[6].

Questo lavoro opta per un approccio fenomenologico che consiste nell’analizzare l’intenzionalità degli attori contestualizzandola nel faccia a faccia immaginario tra i giovani e l’Isis attraverso la mediazione della rete o il contatto con reclutatori e islamisti radicalizzati. La scena jihadista europea è segnata da una situazione di “crisi di utopia”: la scomparsa dei miti fondatori e delle grandi narrazioni del XIX secolo, in particolare la lotta di classe e il repubblicanesimo. Questa crisi va di pari passo con la crisi delle classi medie, i cui figli non hanno più la convinzione di appartenere ai settori in ascesa della società, ma sono pervasi da un sentimento di declassamento sociale e di declino. Ai giovani delle periferie (e agli esclusi delle società europee), che non hanno alcuna speranza nel futuro, si aggiungono così quelli delle classi medie, segnati dalla mancanza di fiducia in un futuro che diventa minaccioso per la mancanza di prospettive di promozione sociale e di ideali nobili.

Tipologie di radicalizzazione

A caratterizzare il jihadismo europeo è un insieme di tratti comuni in quasi tutti i Paesi. L’immagine è quella di un uomo (e sempre più di una donna) o addirittura di un adolescente convertito/a oppure di origine musulmana, di cui si potrebbero tracciare diversi identikit.

Innanzitutto c’è il jihadista dei quartieri deprivati o dei ghetti, in Francia le periferie, in Inghilterra i centri storici impoveriti. Questa tipologia è incarnata da giovani che presentano alcuni tratti caratteristici: un passato da delinquenti, un passaggio in prigione, la frequentazione di altri giovani in via di radicalizzazione, spesso il viaggio iniziatico in un Paese dove imperversa la guerra civile e dove gli estremisti islamisti si sono fatti spazio o hanno fondato uno Stato (la Siria è il modello, ma ci sono anche il Mali, lo Yemen o la Libia), e la creazione di legami con l’Isis attraverso Internet o un reclutatore, o a volte entrambi.

A questo ritratto si aggiunge quello dei giovani delle classi medie che dal 2013 sono partiti per la Siria, e il cui numero è aumentato significativamente nel 2014 e 2015. Gli europei che hanno lasciato il loro Paese per andare a combattere a fianco dell’Isis (e in misura minore, con Jabhat al-Nusra, succursale di al-Qaida) sono circa 5.000, tra cui 500 donne. Le ragazze e le donne appartengono spesso alle classi medie e hanno un livello d’istruzione più alto rispetto alla media dei ragazzi che partono.

C’è inoltre un numero sempre maggiore di giovani convertiti, ragazze e ragazzi indistintamente. Tra gli adolescenti la conversione avviene in un lasso di tempo molto breve, nel giro di qualche settimana o qualche mese. La dimensione affettiva prevale sull’adesione a un’ideologia. La conversione esprime la ricerca di una nuova comunità nella fede; la religione d’appartenenza appare infatti fredda al giovane, per non dire inesistente, soprattutto nelle famiglie laiche. In quest’ultimo caso, la “non-religione” pare loro sempre più angosciante, visto che, contrariamente al passato, la laicità e il repubblicanesimo non trasmettono più il senso di un sacro dotato di un orizzonte di speranza, quando la fraternità repubblicana portava in sé la promessa di riunire in un insieme organico la libertà e la giustizia sociale (l’uguaglianza) in seno a un’umanità trionfante in marcia verso il progresso sociale e politico. La ricerca dell’Islam si colloca, tra il 2013 e il 2015, in una doppia prospettiva: innanzitutto quella del trionfalismo dell’Isis, che è riuscito a estendersi rapidamente in Iraq e in Siria, e a sbaragliare un esercito iracheno in crisi e un esercito siriano disgregato. Prendendo il successo come prova di veridicità, molti giovani hanno visto nel trionfo passeggero dello Stato Islamico nel 2014 una testimonianza del sostegno di Dio e della natura autenticamente islamica di questo Stato inspiegabilmente forte. D’altro canto la propaganda dell’Isis nei confronti dei giovani europei non insiste sulla dimensione religiosa, ma sulla colpevolizzazione (l’Islam è in pericolo e occorre agire e impegnarsi completamente) e sul fascino di una vita eroica scandita dalla rottura con una quotidianità noiosa e priva di grandi emozioni.

I giovani di origine cristiana provengono da famiglie in gran parte poco praticanti o dalla cultura religiosa molto labile: molti giovani convertiti in prigione ci hanno rivelato di non possedere una cultura cristiana, spiegandoci che l’Islam era la prima religione dotata di un insieme di codici e norme che dicano loro ciò che è consentito e ciò che è proibito in nome di Dio. Il disorientamento di questi giovani di fronte al Cristianesimo dipende dalla natura complessa della dottrina dell’incarnazione, che fa di Gesù un essere umano e divino allo stesso tempo, ciò che rende difficile il sentimento di essere “creatura”, a cui invece aspirano questi giovani in cerca di un dio “sovrumano” che detti loro un’etica chiara.

In effetti, questi giovani sono spesso in cerca di norme, a differenza di quelli del maggio ’68, che rifiutavano le norme in vigore e cercavano la spontaneità e la soggettività nell’amore libero (“fate l’amore, non la guerra”) e l’esagerazione della festa (i party musicali in cui si consumava droga e si viveva intensamente l’anarchia sentimentale). Oggi, più le norme sono repressive più hanno un senso: il bisogno di tracciare rigorosamente la linea di demarcazione tra il lecito (halāl, religiosamente permesso) e l’illecito (harām, religiosamente proibito) fa parte della loro psiche in cerca di un significato. In società europee in cui nessuna utopia credibile si profila più all’orizzonte, è la “distopia” dell’Isis, la sua utopia regressiva e repressiva, a raccogliere il consenso di questi giovani “alla ricerca del senso perduto”, un senso che scovano nel sacro repressivo di una versione violenta dell’islamismo in rottura con la loro quotidianità, fatta di una vita tranquilla in questa parte dell’Europa pacificata che da sette decenni non conosce più la guerra.

E proprio l’ebbrezza della guerra, santificata dall’islamismo radicale nella forma del jihad, anima molti giovani, i quali vorrebbero realizzare il loro sogno di una vita intensa ed eroica che non trova un campo di applicazione concreta nel loro Paese d’origine. Il successo dell’Isis risiede nella sua capacità di manipolare e far vibrare la corda sensibile dell’esotismo, del romanticismo, della colpevolizzazione e dell’eroismo tra i giovani delle classi medie che temono il declassamento sociale e tra i giovani delle periferie o delle classi sociali inferiori che si sentono costretti a una vita insignificante e mediocre. Tra gli adolescenti l’aspirazione al sacro e all’immortalità si coniuga con il desiderio di “essere qualcuno”. L’Isis offre l’opportunità di compiere un rito di passaggio che consente di accedere velocemente all’età adulta, a differenza di un’Europa in cui anche oltre i vent’anni compiuti si può rimanere sulle spalle dei genitori, in particolare per l’incapacità di acquisire l’indipendenza economica, vivendo una condizione di adolescenza prolungata.

Lo Stato Islamico, per contro, consente di tagliare il cordone ombelicale con la famiglia e diventare uomini e donne, realizzando quel desiderio di essere adulti che non trova compimento nella vita quotidiana. Partire per la Siria dà spesso diritto a un alloggio, a un’occupazione militare e alla possibilità di sposarsi e creare una famiglia, un sogno irrealizzabile in Europa dove la dipendenza economica dai genitori è un grande ostacolo a questa volontà di essere “adulto”, cioè di volare con le proprie ali. Particolarmente determinante è il sentimento di onnipotenza dei giovani che partecipano alla guerra, uccidono e si fanno uccidere indifferenti alla morte propria e altrui, e la partecipazione all’effervescenza festante della guerra, che svolge un ruolo catartico rispetto al loro disagio adolescenziale e post-adolescenziale.

La conversione dei giovani è spesso dettata dallo scarso senso del sacro di un Cristianesimo eroso da una secolarizzazione radicale. Il sentimento religioso, assoggettato all’immanenza di uno spazio pubblico che ha completamente evacuato il sacro religioso, diventa particolarmente fragile di fronte alla trascendenza repressiva di un’imago mundi jihadista che loda l’eccesso nella guerra e la felicità nell’atto del “martirio” o dell’uccisione dei miscredenti, e in cui la violenza trova giustificazione nel desiderio di difendere l’Islam ed estenderne il dominio. Il cavaliere della fede diventa il braccio armato di Dio per sradicare i seguaci di Satana: da qui per inciso i numerosi riferimenti allo Shaytān, il diavolo.

Le adolescenti e le donne

Le ragazze sono particolarmente animate dal desiderio di vivere una vita altra, romantica ed esotica, sotto l’ala protettrice dei cavalieri della fede di cui al tempo stesso relativizzano l’importanza nel momento in cui accettano che muoiano martiri. L’indifferenza o il rifiuto di un femminismo di cui sfugge loro la storia svolge pure un ruolo essenziale nella loro ricerca della femminilità, nutrendo il desiderio di essere “donna”, ed esclusivamente donna come distinta dall’uomo, in una forma mitizzata. In questo modo esprimono la volontà di cambiare di fronte a una distribuzione dei ruoli tra uomini e donne che sembra loro sempre meno gratificante e fa scomparire la loro specificità femminile nell’angosciante mancanza di distinzione di un’identità “unisex”. Essere donna, nient’altro che donna, con la propria funzione riproduttiva posta al servizio di una tradizione mitizzata: è questo il sogno di alcune ragazze che si imbarcano nell’avventura dell’Isis.

Un altro sottogruppo preferisce militare direttamente a servizio dell’islamismo radicale e le sue protagoniste si uniscono alla brigata al-Khansa, dove imparano a maneggiare le armi e fabbricare esplosivi. In questo caso in particolare, sin dai primi mesi del soggiorno in Siria, l’identificazione con l’ordine islamico è messa alla prova da una dura realtà; in quanto donne, infatti, le militanti si vedono negata qualsiasi autonomia nei movimenti (devono sposarsi prima di uscire in compagnia del marito) e sono confinate in una casa riservata alle donne non sposate (magharr). Esse possono peraltro essere investite di incarichi come la supervisione della “moralità” islamica della popolazione autoctona, facendosi così detestare da una società civile in crisi che vede in loro le seguaci di un ordine imperialista che di nuovo impone gli occidentali al mondo arabo, questa volta in nome dell’Islam.

Alcune infine accettano di essere direttrici di case del piacere dove schiave yazide[7] fungono da cavie per soddisfare i desideri sessuali dei combattenti. Questo sottogruppo di ragazze e giovani donne intende realizzarsi attraverso la violenza diretta, distinguendosi dal femminismo occidentale e dall’immagine tradizionale della donna musulmana. La violenza diventa così un catalizzatore della loro nuova identità, che perde qualsiasi differenza rispetto a quella degli uomini[8], mentre proprio la violenza è stata finora il tratto distintivo maschile (solamente il 4 per cento dei detenuti in Francia sono donne, il 6 per cento in Inghilterra, contro rispettivamente il 96 per cento e il 94 per cento di uomini).

Per questo sottoinsieme femminile che partecipa alla violenza come mezzo di autoaffermazione, mettere al mondo “leoncini” al servizio dello Stato Islamico, pronti a combattere i “miscredenti” fin dalla tenera età e a praticare la violenza, simbolica o reale, è una caratteristica di base della loro identità sovra-mascolina[9]. Queste donne si entusiasmano per le scene di decapitazione dei “nemici dell’Islam”, trovando appassionanti le partite di calcio tra uomini e ragazzi che usano la testa della vittima come pallone.

Le giovani donne e le adolescenti a cui è stato impedito di partire per la Siria dopo l’istituzione del “Telefono verde” – un servizio di monitoraggio sulla radicalizzazione – e con l’avvio della collaborazione con la Turchia, che ha limitato l’accesso dei jihadisti occidentali in Siria, hanno talvolta rivolto il loro odio verso la propria società. Il caso delle tre ragazze che hanno tentato di far esplodere un’autobomba a Parigi all’inizio del settembre 2016 è sintomatico: a due di loro era stato impedito di partire per la Siria. Una ha accoltellato un poliziotto emulando la violenza maschile ormai illimitata, facendo così venir meno la differenza tra uomo e donna.

Un terzo sottogruppo aderisce all’Isis per ritrovare vigore, superando la “depressione” e partecipando all’intensità della festa bellica come cura per guarire dal malessere identitario in società europee in cui la non-violenza assopisce il desiderio di esistere nell’esaltazione dell’effervescenza. La violenza diventa così uno sfogo del disagio, un modo per dissolverlo nell’ebollizione bellica (è noto che le guerre fanno diminuire il tasso di suicidi). Nel complesso, la violenza bellica dunque non affascina soltanto gli uomini ma anche le giovani donne; in questa circostanza “eccezionale” la vita acquisisce un senso e un’intensità tali da far dimenticare per un po’ la posizione d’inferiorità della donna sotto l’Isis, dissimulata sotto la nozione di “complementarietà”.

Più in generale, una categoria soprattutto si trova particolarmente coinvolta nell’avventura jihadista in Europa: quella degli adolescenti e post-adolescenti (fino ai vent’anni inoltrati), maschi e femmine indistintamente. La transizione dall’adolescenza all’età adulta si rivela spesso problematica, soprattutto nelle famiglie ricomposte (classi medie) o monoparentali (le famiglie magrebine delle periferie). In queste situazioni la nozione di autorità ha subito un’usura significativa per ragioni che variano da caso a caso. Nelle famiglie monoparentali di periferia si assiste alla dimissione del padre (assente o ridotto all’insignificanza e al silenzio) e alla violenza esercitata dal fratello maggiore che cerca di prendere il posto del padre senza averne l’autorità morale: è significativo il caso della famiglia di Mohammed Merah, all’origine dell’attentato a una scuola ebraica di Tolosa nel 2012, in cui il fratello maggiore esercitava la violenza fisica sugli altri.

La cultura egualitaria della famiglia ricomposta e il ruolo più o meno paritario del padre e della madre sono assenti dalla famiglia monoparentale maghrebina, che rimane patriarcale nella sua struttura mentale. Quando però il padre-padrone fallisce e scompare, lascia un vuoto, non colmato dall’egualitarismo tipico della famiglia ricomposta, dando così libero corso alla violenza tra fratelli e a quella che questi ultimi esercitano sulla sorella, di cui vogliono controllare la sessualità e la castità. Eppure gli stessi fratelli si abbandonano a relazioni extra-coniugali, frequentando spesso la sorella di un altro giovane di periferia della quale, a loro volta, violano la “castità” dissimulandolo, oppure escono con una “francese” che ritengono adeguata per soddisfare i propri desideri sessuali, ma non abbastanza “casta” per sposarla. Le figlie delle famiglie magrebine possono contestare questo ruolo o uscendo dalla famiglia e lavorando all’esterno per soddisfare le proprie necessità, o frequentando ragazzi al di fuori del quartiere in cui rischierebbero di essere riconosciute, o ancora rinunciando definitivamente al matrimonio.

A volte le ragazze rispondono alla violenza del fratello maggiore con l’aggressione fisica, provocandone la morte o ferendolo gravemente (abbiamo osservato alcuni casi in carcere) anche se è più frequente il contrario, cioè il caso del fratello che, per preservare “l’onore” della famiglia, fa violenza sulla sorella ferendola o uccidendola. A volte il progetto di partire per la Siria offre loro l’occasione di rompere con questa struttura famigliare in cui si sentono inferiori e a disagio, ma questa scelta è piuttosto rara, per ragioni legate al culto della famiglia (la madre sola, i fratelli minori che hanno bisogno di protezione ...).

Per un apparente paradosso, le vocazioni femminili al jihadismo sono minoritarie tra le ragazze di periferia, salvo pochi casi ingigantiti dai media, tra cui quello di Hayat Boumeddienne, moglie di Amédy Coulibaly, partita per la Siria prima degli attentati di gennaio 2015, o qualche raro caso di ragazze che fanno la spola tra il mondo delle periferie e quello delle classi medie, come Asna Aït Boulahcen, cugina di Abdelhamid Abaaoud, il mandante degli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi. A differenza dei ragazzi, che in Francia vivono per lo più nelle periferie e hanno un livello d’istruzione più basso rispetto alle ragazze, la stragrande maggioranza delle jihadiste, sia musulmane sia convertite all’Islam, proviene dalle classi medie.

Le prime giovani donne partite per la Siria hanno successivamente svolto la funzione di “reclutatrici”: inviano e-mail e gestiscono blog, offrendo un’immagine idealizzata della condizione della moglie dei mujāhidīn (combattenti del jihad) in Siria. Una volta giunte sul posto, le muhājirāt (immigrate) sposano spesso europei che si sono uniti ai ranghi dei combattenti jihadisti in Siria, come Khadijah Dare, una londinese che ha sposato un combattente svedese dello Stato Islamico, divenuto noto con il nome di guerra di Abu Bakr.

Un’utopia repressiva in un’Europa disertata dall’utopia

Con l’avvento dell’Isis in Siria e in Iraq, si assiste dunque alla comparsa di nuovi attori jihadisti in Europa: giovani donne e ragazze (il loro numero in passato era insignificante, ora costituiscono più del 10 per cento delle partenze per la Siria); adolescenti e post-adolescenti, ragazze e ragazzi indistintamente (prima inesistenti tra i jihadisti europei); membri delle classi medie (prima erano irrilevanti, ora sono una percentuale elevata, rappresentando fino il 40 per cento delle partenze); convertiti (il 20 per cento delle partenze, mentre in passato il loro numero era basso).

L’attrazione per l’Isis è legata a fattori esterni (la manipolazione attraverso Internet, ma anche disponibilità finanziarie maggiori rispetto ad al-Qaida) e interni (il malessere dei giovani, il timore del declassamento sociale, il senso di vuoto in assenza di utopie, il fascino della guerra e dell’eroismo, il romanticismo ingenuo dei giovani adolescenti e post-adolescenti). Sul lungo periodo il jihadismo pone la questione del senso e della mancanza di idealità in un’Europa in transizione verso una nuova forma di società in cui le ideologie classiche del comunismo e del nazionalismo come del resto quella della democrazia hanno perso la capacità di mobilitazione.

La versione repressiva dell’Islam veicolata dai movimenti jihadisti ha trovato un’eco favorevole in Europa soltanto per la fatica immensa di queste società, in pace dalla fine della seconda guerra mondiale, e in cui la ricerca dell’effervescenza e la volontà di vivere intensamente non trovano realizzazione in un’idealità che darebbe senso all’esistenza collettiva. L’utopia dell’Isis colma un vuoto simbolico: il suo fascino è legato tanto alla manipolazione dei giovani attraverso la propaganda su Internet, quanto alla loro richiesta di spaesamento e d’entusiasmo guerriero di fronte a una quotidianità cupa in cui la speranza non trova sbocchi, non essendovi alcuna promessa di promozione sociale. L’assenza di ideali “nobili” apre la porta a utopie repressive che promettono mari e monti alle nuove generazioni in una società rinvigorita da una fede mitizzata.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

 

Note

[1] Questo conflitto d’interpretazione si ritrova tra Gilles Kepel e Olivier Roy. Anche se Roy ha ragione nell’indicare come origine della radicalizzazione l’“odio” della società, bisogna anche riconoscere che in seguito la traiettoria dei giovani radicalizzati si disegna in riferimento a una versione radicale dell’Islam approfondita soprattutto in carcere. Si veda Farhad Khosrokhavar, Prisons de France, Robert Laffont, Paris 2016; Id., Radicalisation, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Paris 2014.

[2] È il dibattito tra Marc Sageman e Bruce Hoffman. Si vedano Marc Sageman, Leaderless Jihad Terror. Networks in the Twenty-First Century, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2008; Bruce Hoffman, The Myth of Grass-Roots Terrorism, «Foreign Affairs» 87 (2008), n. 3, pp. 133-138.

[3] Sarah Knepton, British jihadis are depressed, lonely and need help, says Prof, «The Telegraph», 15 ottobre 2014.

[4] È la tesi dello scrittore Tahar Ben Jelloun, secondo il quale gli islamisti hanno «un problema irrisolto con la sessualità»: Pour l'écrivain Tahar Ben Jelloun, les islamistes ont “un problème de sexualité non résolu”, «L’Obs», 29 agosto 2016.

[5] Semplificando, la tesi di Dounia Bouzar e di alcuni psicanalisti.

[6] Scott Atran, L’Etat islamique est une révolution, «L’Obs», 2 febbraio 2016.

[7] È il caso delle donne yazide la cui fede è dichiarata idolatra dall’Isis. Donne e bambini sono ridotti in schiavitù, mentre gli uomini sono messi a morte. UK female jihadists run ISIS sex-slave brothels, «Al-Arabiya News», 12 settembre 2014.

[8] Carolyn Hoyle, Alexandra Bradford, Ross Frenett, Becoming Mulan? Female Western Migrants to ISIS, Institute for Strategic Dialogue, 2015.

[9] Si veda Shiv Malik, Lured by Isis: how the young girls who revel in brutality are offered cause, «The Guardian», 21 febbraio 2015.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Farhad Khosrokhavar, Identikit del jihadista europeo, «Oasis», anno XII, n. 24, novembre 2016, pp. 73-82.

 

Riferimento al formato digitale:

Farhad Khosrokhavar, Identikit del jihadista europeo, «Oasis» [online], pubblicato il 22 novembre 2016, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/identikit-del-jihadista-europeo.

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