Le manifestazioni in seguito all’assoluzione della donna cristiana hanno messo in risalto l’influenza dell’islamismo nel Paese. Quali sono i movimenti presenti sulla scena politica pakistana

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:58

Il 31 ottobre del 2018, la Corte suprema pakistana ha ordinato la liberazione di Asia Bibi, donna cristiana e madre di famiglia, condannata a morte nel 2010 per blasfemia in seguito a una banale disputa in un villaggio di campagna. La questione è però lungi dall’essere risolta. Le autorità pakistane hanno impiegato qualche giorno per farla uscire dal braccio della morte, trasferendola in una località segreta, nella quale è in attesa dell’asilo che alcuni Paesi occidentali, tra cui la Germania, la Francia o il Canada, sembrano disposti a concederle. Tuttavia, la sua partenza rischia di provocare una grave crisi politica, dal momento che la sua liberazione ha scatenato le manifestazioni violente degli islamisti, che per tre giorni hanno paralizzato il Paese e costretto il governo ad accettare un’istanza di revisione della sentenza, che, inoltre, impedisce ad Asia Bibi di uscire dal Pakistan.

 

Il paradosso pakistano: pochi islamisti, ma potenti

 

Al di là dei suoi aspetti giuridici, il caso Asia Bibi ha messo in evidenza l’influenza esercitata in Pakistan dai partiti islamisti, i quali, seppur snobbati alle urne e politicamente minoritari, riescono a imporre la loro volontà allo Stato. Nel 2017, ad esempio, hanno bloccato i principali assi stradali della capitale, manifestando con violenza per contestare un piccolo cambiamento della legge elettorale che avrebbe permesso alla minoranza musulmana degli ahmadi di partecipare alle elezioni legislative del 2018[1]. Anche se il governo si è impegnato a rettificare l’“errore”, gli islamisti hanno continuato il dharna (sit-in) fino a ottenere non soltanto le dimissioni del Ministro della Giustizia, Zahid Hamid, ma anche il rilascio dei loro attivisti. Il braccio di ferro è poi andato avanti per tre settimane. In generale concessioni come queste compromettono l’autorità dello Stato pakistano, che fatica a gestire il fattore islamista.

 

Il contesto islamista in Pakistan

 

Occorre innanzitutto distinguere gli islamisti dai jihadisti. I primi agiscono generalmente dentro un quadro istituzionale; si costituiscono spesso in veri e propri partiti politici, con programmi e iscritti, riconoscono la legittimità dello Stato pakistano e accettano il metodo elettorale come via privilegiata di accesso al potere. Al contrario, i jihadisti si costituiscono in gruppi armati, che, soprattutto nel caso di quelli più organizzati, hanno ali dedicate alla predicazione. Non riconoscono la legittimità dello Stato e in generale non partecipano alle elezioni. In quest’ottica, la violenza è la sola via d’accesso al potere.

 

I movimenti islamisti e quelli jihadisti sono molto numerosi in Pakistan. Tra di essi se ne trovano  sia di sunniti che di sciiti. I sunniti si ripartiscono in tre gruppi principali: i barelvi, i deobandi, gli Ahl-e-Hadith, a cui si aggiunge la Jamaat-i-Islami, un partito politico che non fa riferimento a nessun gruppo in particolare.

 

I primi tre evidenziano una frattura storica nell’Islam sunnita del subcontinente indiano che risale al periodo coloniale: quella tra riformisti e non riformisti. I deobandi sono stati i primi a fondare un movimento religioso a Deoband, un piccolo villaggio non lontano da Delhi, dove nel 1867 una piccola scuola coranica inaugurò quella che sarebbe diventata una delle più vaste reti di madrase nell’Asia meridionale. In Pakistan essi controllano attualmente più del 60% delle scuole coraniche, sebbene rappresentino soltanto il 20 % dei musulmani sunniti. La scuola deobandi è riformista nel senso che intende purificare l’Islam dai prestiti culturali provenienti dagli indù, con i quali i musulmani hanno coabitato per secoli, e dalle superstizioni popolari legate solitamente alle derive del sufismo, con l’obiettivo di riportarlo alle sue origini arabe. Questa lettura dell’Islam porta i deobandi a criticare duramente gli altri musulmani, la cui maggioranza, ieri come oggi, aderisce proprio a quest’islam “sincretico” che essi denunciano con forza.

 

Il rifiuto dell’Islam popolare è ancora più pronunciato tra gli Ahl-e-Hadith. Questo movimento religioso, fondato intorno al 1860 da una classe nobiliare musulmana decaduta a causa della colonizzazione, si spinge ancora più lontano nella riforma dell’Islam. A essere condannate non sono soltanto le derive legate al sufismo, ma il sufismo stesso, considerato un fenomeno estraneo all’Islam. Gli Ahl-e-Hadith rifiutano inoltre le quattro scuole giuridiche dell’Islam sunnita, dal momento che per loro il primato del Corano e degli hadīth (fatti e detti del Profeta) è assoluto. Elitista, almeno ai suoi inizi, questo movimento conta pochi adepti in Pakistan. Solo il 10% dei musulmani avrebbe aderito a questa lettura ultra-rigorista dell’Islam. Gli Ahl-e-Hadith rappresentano la corrente salafita del Pakistan.

 

Per proteggere le loro tradizioni e i loro riti ancestrali dagli attacchi e dalle critiche dei deobandi e degli Ahl-e-Hadith, i sostenitori dell’Islam popolare/sufi hanno fondato un loro movimento religioso a Bareilly, villaggio nei dintorni di Delhi che alla fine del XIX secolo darà il suo nome al movimento dei barelvi. Antiriformisti, questi ultimi intendono preservare l’Islam nella forma in cui è stato praticato nel subcontinente indiano e non com’era alla sua nascita nell’Arabia nel VII secolo. Essi sacralizzano il profeta e hanno una devozione sconfinata nei confronti dei suoi discendenti. Alcuni di questi, elevati alla condizione di santi, secondo il credo dei barelvi avrebbero facoltà sovrannaturali che permetterebbero loro, da morti o da vivi, di esaudire le preghiere degli uomini intercedendo in loro favore presso Dio, sia in questo mondo che al momento del Giudizio finale. Molti dei riti praticati dai barelvi avvengono presso le tombe di questi santi, spesso fondatori o esponenti di spicco di grandi confraternite, i cui anniversari (urs) sono festeggiati con molto fervore religioso. I musulmani barelvi, maggioritari in Pakistan, costituiscono più del 60% dei sunniti del Paese. I deobandi e gli Ahl-e-Hadith condannano il loro credo in ragione del fatto che il culto deve essere riservato esclusivamente a Dio, unico dispensatore di beni materiali e immateriali e il solo in grado di salvare le anime, una prerogativa che non lascia spazio a interferenze umane e neppure profetiche. Così, riconoscendo alcuni poteri divini ai santi, i barelvi si rendono colpevoli di shirk (il fatto di associare qualcuno a Dio), il peccato supremo, soprattutto per gli Ahl-e-Hadith.

 

Uno sciismo ugualmente diviso

 

Se il sunnismo è diviso al suo interno, neanche lo sciismo pakistano è molto omogeneo. Esso si suddivide principalmente tra duodecimani e ismaeliti, anche se ciascun gruppo conta numerosi sottogruppi più marginali. Politicamente, sono i duodecimani a essere i più organizzati. Nel complesso circa il 15-20% dei musulmani pakistani è sciita.

 

I principali partiti islamisti in Pakistan

 

I partiti islamisti e i movimenti jihadisti, che in questo momento imperversano in Pakistan, sono strutturati lungo le grandi fratture storiche del sunnismo. I partiti deobandi, ahl-e-hadith e barelvi, tuttavia, non sono gruppi monolitici. Se la questione della legittimità a rappresentare l’Islam li vede contrapporsi in ambito sociale, politico ed ideologico, le rivalità interne ai gruppi stessi sono feroci e ruotano spesso intorno a questioni di leadership e di controllo delle moschee, delle madrase e delle società di predicazione così come dei proventi che esse generano.

 

Malgrado l’esistenza di una pluralità d’istituzioni, molte delle quali prodotte dalle scissioni dagli anni ’80, sul piano politico i deobandi operano soprattutto attraverso le Jamiat-Ulema-i-Islam (JUI). Il partito politico più significativo per i Ahl-e-Hadith è il Markazi Jamiat Ahl-e-Hadith (MJAH) mentre i barelvi sono attivi in seno alla Jamiat-Ulema-i-Pakistan (JUP). La rappresentanza degli sciiti è invece garantita dalla Tehrik-e-Jafaria Pakistan (TJP). È importante tenere a mente che tutte queste formazioni sono partiti di ulema, e perciò fondati e diretti da uomini religiosi.

 

Al contrario, la Jamaat-i-Islami non è mai stata sotto il controllo degli ulema. Il suo fondatore Sayyid Abul ala Mawdudi (1903-1979) è uno dei grandi teorici dell’Islam politico. La direzione e i membri di questo partito non hanno una grande considerazione per i mullah, che ritengono responsabili del declino del mondo musulmano. Per i jamaati l’apprendimento delle scienze moderne è tanto importante quanto quello delle scienze religiose. Ritengono peraltro che la guida del mondo musulmano non vada affidata agli ulema, il cui oscurantismo è precisamente ciò che ha portato i musulmani alla rovina. La Jamaat-i-Islami non rivendica alcun particolarismo identitario. Il partito si pone al di sopra della mischia ed esibisce un approccio non settario anche nei confronti degli sciiti, sebbene questo non escluda la possibilità di critiche nei loro confronti. Ma a distinguerlo dai partiti degli ulema è soprattutto la sacralizzazione del politico. Mawdudi riteneva infatti che la pura fede non fosse sufficiente, ma che il coinvolgimento nello spazio pubblico fosse essenziale per la salvezza dell’anima. Il credente deve operare e militare in favore di un ordine islamico che deve sfociare nell’avvento di uno Stato islamico. La militanza politica è elevata al rango di obbligo religioso, allo stesso titolo della preghiera e del digiuno. Ideologicamente, la Jamat-i-Islami è prossima ai Fratelli Musulmani, attivi nel mondo arabo. Tuttavia, contrariamente al suo omologo, il suo approccio elitista e i suoi criteri di reclutamento limitano il numero dei suoi membri e sostenitori.

 

Se tutti questi partiti islamisti agiscono per l’applicazione della sharī‘a e l’instaurazione di uno Stato islamico, essi divergono tanto sulla sua interpretazione quanto sui contorni di questo ordine politico islamico che vorrebbero instaurare un giorno in Pakistan. In attesa della sua materializzazione, fatto poco probabile nel contesto pakistano, i partiti islamisti si contendono il mercato politico, che tuttavia riserva loro un posto limitato. Con l’eccezione di un 11% ottenuto nel 2002 tramite una coalizione politica (Muttahida Majlis-e-Amal), i partiti islamisti non sono mai riusciti a convincere gli elettori.

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Lahore, novembre 2018: manifestanti chiedono l'esecuzione di Asia Bibi [A M Syed / Shutterstock.com]

 

Degli attori politici con cui fare i conti

 

Tuttavia, anche se disdegnati alle urne, questi partiti non sono meno influenti: in primo luogo perché al di là di tutto essi dispongono di qualche seggio al Parlamento federale, anche se la loro presenza è più pronunciata a livello provinciale. Inoltre, sono riusciti a impiantarsi nelle strutture statali soprattutto sotto le dittature militari del 1977-1988 e del 1999-2008. Hanno anche intessuto legami con l’esercito, sotto la cui supervisione e con la cui collaborazione hanno condotto il jihad contro i sovietici in Afghanistan (1979-1989). È in quest’epoca d’altronde che questi partiti hanno contribuito alla formazione dei movimenti jihadisti che da allora hanno messo il Paese a ferro e fuoco. Gli islamisti dispongono peraltro di un vasto arsenale di mezzi dissuasivi, tra i quali si distinguono per efficacia le incitazioni all’odio, che in passato hanno portato dei fanatici a praticare attentati mirati, ma anche e soprattutto le mobilitazioni di piazza, che rischiano di paralizzare la vita socioeconomica del Paese causando un danno importante al governo. Gli islamisti sono perciò temuti dalla politica.

 

La blasfemia: terreno fertile per il radicalismo islamista

 

Concorrenti e antagonisti, questi partiti sono solidali sulle grandi questioni islamiche. La blasfemia è una di queste. Tutti i partiti islamisti, sunniti e sciiti, condannano la blasfemia e legittimano la pena di morte per questo “crimine”. Tuttavia non sono questi partiti ad essere all’origine dei problemi legati all’affaire Asia Bibi.

 

Il movimento più attivo su questa questione è un nuovo arrivato della scena politica, il Tehreek-e-Labaik Ya Rasulallah Pakistan (LTYRP). Fondato da un piccolo mullah che risponde al nome di Khadim Hussain Rizvi, questo movimento barelvi, marginale fino a poco tempo fa, intende preservare l’onore del Profeta perseguitando gli eretici fino alla morte. Sotto l’effetto delle sue prediche, i casi di linciaggio degli “empi” si sono moltiplicati in maniera esponenziale. Il movimento ha recentemente dato origine a un partito politico, il Tehreek-e-Labaik Pakistan (TLP) che ha colto tutti di sorpresa alle elezioni legislative del 2018 ottenendo due seggi all’assemblea provinciale del Sindh, un vero e proprio exploit visto che si trattava della sua prima partecipazione elettorale. Dall’annuncio della liberazione di Asia Bibi, è questo il movimento che inneggia al suo assassinio, a quello dei giudici che l’hanno assolta e a un ammutinamento dell’esercito. Per il momento, Khadim Rizvi è sotto mandato di cattura per ribellione e terrorismo. Tuttavia, è poco probabile che quest’arresto possa placare l’ardore omicida dei suoi seguaci. La questione islamista inquina la vita sociale e politica del Pakistan più che mai.

 

Testo tradotto dal francese
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 


Note

[1] In Pakistan, gli ahmadi sono considerati eretici perché il loro fondatore, Mirza Ghulam Ahmad (1835-1908) affermava di essere un profeta, suggerendo in questo modo che il ciclo della profezia non si era chiuso con Muhammad.

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