Per comprendere la situazione del Cristianesimo in Medio Oriente occorre risalire alla svolta avvenuta tra XIX e XX secolo

Questo articolo è pubblicato in Oasis 20. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:18

L’abusato binomio maggioranza-minoranza non basta a comprendere la drammatica situazione del Cristianesimo oggi in Medio Oriente. Occorre risalire alla svolta avvenuta tra XIX e XX secolo: la griglia nazionalista europea investe l’ordine ottomano e apre la strada a nuovi movimenti politici.

Non è esagerato affermare che i tragici eventi in corso in Iraq e Siria affondano le loro radici, tra le altre cose, anche nel modo in cui i confini socio-politici del Medio Oriente sono stati ridefiniti nel corso del XX secolo. Lungi dalle semplificazioni che presentano i militanti dello Stato Islamico come fanatici medievali tornati improvvisamente in vita, questa prospettiva permette di capire la drammatica “modernità” che sta dietro le loro rivendicazioni. La stessa avvertenza metodologica vale per il destino delle comunità cristiane e per la legittima preoccupazione circa la loro esistenza.

La storia del Cristianesimo orientale viene infatti spesso presentata come un continuum in cui tutto, dalla conquista islamica in poi, è spiegabile attraverso il binomio concettuale minoranza-maggioranza, prestando poca o addirittura nessuna attenzione alla dimensione diacronica. Questa scelta finisce però per offuscare la natura storica delle rappresentazioni moderne delle comunità cristiane nella regione.

La loro situazione attuale ha infatti poco a che vedere con l’epoca pre-moderna: la svolta è da situare tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Proprio in quei decenni infatti fu imposta allo spazio ottomano la griglia nazionalista europea: secondo i nuovi parametri ideologici, tra le numerose comunità etniche e religiose che componevano l’Impero Ottomano si diffuse prima l’ideale dell’emancipazione e poi quello dell’indipendenza, provocando rancori e generando nuove rivalità. Mentre prima della metà del XIX secolo il sistema dell’Impero ottomano, benché lungi dall’essere ideale, accentuava la dimensione universale della fede religiosa, sostituendosi alle differenze etniche e linguistiche senza però distruggerle, la ridefinizione contemporanea del sistema tradizionale del millet, attraverso l’istituzione religiosa della comunità (tâ’ifa[1]), e l’intervento delle Grandi Potenze aprirono la strada a nuovi movimenti politici.

Nonostante l’obiettivo dichiarato di migliorare la condizione dei cristiani, le Grandi Potenze si inserirono nello spazio ottomano strumentalizzando le questioni religiose ed ecclesiastiche per perseguire i propri disegni politici a scapito dei rivali. In particolare, a partire dal XVIII secolo esse iniziarono a mettere sistematicamente in discussione l’autorità ottomana, imponendo la loro protezione su intere comunità all’interno dell’Impero attraverso la manipolazione delle berât del Sultano (garanzie rilasciate a musulmani e non-musulmani, che assegnavano privilegi o conferivano proprietà). Questa competizione offrì ai sudditi non-musulmani opportunità economiche senza precedenti, che consentirono loro di migliorare le condizioni di vita rispetto ai musulmani, rendendoli così non solo soggetti passivi di progetti esterni e calati dall’alto, ma piuttosto attori consapevoli dell’innalzamento del proprio status.

A partire dal livello comunitario e trasponendo le questioni religiose in una dimensione secolare, l’ideale dell’emancipazione si sviluppò progressivamente in una lotta per l’indipendenza completa dal regime ottomano[2]. La riscoperta e la glorificazione di antiche lingue e culture favorì la creazione di “nuove” identità etniche in competizione. Le istituzioni religiose contrastarono o sostennero questa trasformazione a seconda delle circostanze, ma alla fine furono inghiottite in quella che si dimostrò essere una competizione politica molto più ampia. La fondazione di Chiese nazionali dentro l’Ortodossia e la nascita di Chiese cattoliche orientali, insieme all’espansione di missioni protestanti e cattoliche, contribuirono alla frammentazione dei tradizionali millet ortodossi e armeni. Il risultato fu un cambiamento all’interno dell’Impero negli equilibri di potere che in passato avevano bene o male garantito un certo livello di coabitazione pacifica.

L’impasse di queste dinamiche doveva mostrarsi tragicamente alla vigilia del collasso dell’Impero ottomano e immediatamente dopo di esso. Nel frattempo, mentre la presenza dei cristiani come minoranza era oggetto di dibattito nei futuri nuovi Stati nazionali, quegli stessi cristiani venivano massacrati come conseguenza ultima dell’imposizione dell’ideale moderno di omogeneità e purezza nazionali. In questo rapido abbozzo mi concentrerò sul caso degli assiri e dei caldei, due termini che, originariamente legati in modo univoco a dimensioni ecclesiastiche e liturgiche, iniziarono a essere usati come espressioni dell’esistenza di una singola “nazione” di lingua siriaca.

Alla vigilia del conflitto

Il concetto di Cristianesimo siriaco raggruppa diverse Chiese orientali che condividono l’uso liturgico dell’antico siriaco. La Chiesa orientale (conosciuta in passato come Chiesa nestoriana o assira) e la Chiesa Siriaca Ortodossa (nota come Chiesa giacobita) sorsero in seguito ai dibattiti dottrinali dei concili di Efeso (431) e Calcedonia (451). La Chiesa orientale inizialmente si estendeva su un territorio molto vasto, che andava dalla riva orientale dell’Eufrate all’Asia sud-orientale. Tuttavia, essa fu duramente colpita dall’invasione mongola, al punto che dal XIV secolo in avanti le sue diocesi furono ridotte ai confini originari della Mesopotamia e dell’area turco-iraniana. Durante il XVI e il XVII secolo, gli sviluppi delle attività missionarie cattoliche produssero in queste antiche Chiese delle divisioni che culminarono nella formazione della Chiesa Caldea (unita a Roma) e della Chiesa Siro-cattolica. Queste ultime consolidarono le loro istituzioni ecclesiastiche durante il XIX secolo, stabilendo le rispettive sedi patriarcali a Mossul e Mardin[3].

Prima dello scoppio della prima guerra mondiale, le comunità siriache risiedevano dunque in quattro aree diverse ma confinanti, oggi parte di Turchia, Iraq e Iran, insieme a turchi, arabi, curdi e armeni[4]. Nella regione di Urmiya, nell’Iran nord-occidentale, i cristiani della Chiesa orientale erano sudditi persiani; nella Turchia sud-orientale, sulle montagne curde del Hakkäri, i cristiani erano solo nominalmente sottoposti all’Impero ottomano, essendo di fatto autonomi sotto i loro capi tribù (malik), mentre la famiglia patriarcale di Mar Shimoun[5] deteneva l’autorità spirituale, civile e militare. I resoconti dei missionari ricordano sei tribù cristiane assire. Il patriarcato era originariamente a Seleucia-Ctesifonte, vicino a Baghdad, ma più tardi fu spostato a Kothcanis, un grande villaggio vicino a Hakkäri[6]. Queste comunità erano parte di un sistema tribale più vasto, che comprendeva anche le tribù curde. In quella che è oggi la Turchia sud-orientale, nei dintorni delle città di Mardin e Diyarbakir e delle montagne del Tur ‘Abdin, la maggioranza dei cristiani era invece siro-ortodossa. Infine, nella regione della valle del Tigri, le comunità cristiane appartenevano prevalentemente alla Chiesa Caldea, specialmente a Mossul, che ne costituiva il centro.

Dagli anni ’30 dell’Ottocento in avanti, un numero sempre maggiore di missionari cristiani (metodisti e presbiteriani americani; lazzaristi e domenicani francesi; episcopaliani inglesi; luterani tedeschi e infine ortodossi russi) arrivò in queste regioni portando nuove idee e conoscenze, ma anche la convinzione nelle comunità locali di aver trovato l’agognata protezione da parte di potenti attori esterni. In particolare, questi contatti non si limitarono a creare possibilità economiche senza precedenti, ma introdussero anche l’idea di nazionalità, sviluppando una visione, prima sconosciuta, incentrata sul “noi” e sul “loro”. Allo stesso tempo, lo sviluppo delle riforme ottomane (Tanzimat) contribuì ad alimentare l’ideale e il desiderio di emancipazione, che però entrava inevitabilmente in conflitto con il cuore della nuova politica ottomana, il cui scopo era rafforzare il controllo dell’amministrazione centrale sui sudditi e sulle province. Il progetto di stabilizzazione del confine ottomano-persiano lungo le montagne curde, con la riduzione della tradizionale autonomia delle tribù curde e assiro-cristiane, e il programma di restrizione dell’attivismo armeno, alterarono drasticamente l’equilibrio locale di potere.

L’ascesa al trono del Sultano Abdul Hamid II, nel 1876 e il rovescio delle Tanzimat non migliorarono la situazione. Tra armeni, curdi e assiri, i movimenti nazionalisti e pro-nazionalisti continuavano a crescere. In particolare il soffocamento della ribellione curda nel 1880 e il contemporaneo riconoscimento ufficiale dei Mar Shimoun come capi della comunità assira deteriorarono le relazioni inter-comunitarie e inter-tribali delle montagne del Hakkäri. Allo stesso modo, la decisione di arruolare i membri delle tribù curde nei corpi Hamidiye (1890) convinse definitivamente le tribù assire del bisogno di una forte protezione esterna. Dagli anni ’40 dell’Ottocento, gli inglesi entrarono in concorrenza con i russi per guadagnarsi la lealtà delle comunità cristiane locali. I continui scontri tra i turchi e il movimento nazionalista armeno dagli anni ’80 dell’Ottocento, con episodi ciclici di massacri (Suzum nel 1894, Istanbul nel 1895 e Van nel 1896) contribuirono ad accrescere le preoccupazioni in tutta la popolazione cristiana. Nel 1908 la deposizione del Sultano Abdul Hamid II da parte dei Giovani Turchi fu inizialmente accolta con speranza. In particolare i cristiani pensavano che la loro condizione sarebbe migliorata, ma la polarizzazione non venne meno. Scoppiarono nuove ribellioni, nel tentativo di resistere alla tendenza alla centralizzazione imposta dal nuovo regime.

Sotto il regime dei Nuovi Turchi, tuttavia, la resistenza era vista non più come “insubordinazione” all’autorità del sultano, ma come una manifestazione di “tradimento” della “nazione” e quindi passibile della più dura e più sistematica repressione. La prima guerra mondiale Nel 1915, l’estensione delle operazioni militari al territorio ottomano portò al tragico collasso di qualsiasi logica di coabitazione al suo interno. La guerra amplificò così in modo drammatico le conseguenze di mezzo secolo di speranze “pericolose”, di ideali e di “fede” malriposti, che, di fronte alle logiche di potere della politica internazionale, mostrarono la loro natura effimera. La maggior parte della popolazione cristiana si trovò intrappolata tra due fronti contrapposti, finendo per soffrire inevitabilmente le conseguenze della guerra, e diventando vittima di detenzioni e deportazioni in quanto potenziale spia e quinta colonne all’interno dell’Impero. In particolare questo fu il caso dei cristiani siriaci di Mardin, Diyarbakir e di Tur ‘Abdin che, sebbene non direttamente coinvolti nell’attivismo politico e nelle operazioni militari, soffrirono lo stesso destino della maggior parte degli armeni che vivevano in quella che sarebbe diventata la Turchia moderna.

Nel 1915 l’arruolamento degli armeni ottomani nei battaglioni russi fu letto dai turchi come la conferma finale delle loro paure. Allo stesso modo, gli assiri delle montagne del Hakkäri, sotto la guida di Mar Shimoun XXI Benyamin, insieme a quelli di Urmiya, si schierarono con Russia e Inghilterra. Quasi immediatamente la decisione portò a conseguenze irreparabili: un’emigrazione forzata che si sarebbe presto trasformata in un massacro, arrivando all’epilogo solo negli anni ’30[7]. Già dal 1915, gli assiri furono costretti a cercare rifugio nelle provincie dell’Azerbaijan occidentale occupate dai russi, a Urmiya e Salmas. Un anno più tardi, nei campi profughi di Urmiya vivevano tra i 35 e i 40 mila assiri. Nel 1918, quando i russi si ritirarono dalla guerra e Mar Shimoun fu assassinato da un capo tribale curdo, gli assiri si ritrovarono soli. Sebbene gli inglesi avessero promesso loro un sostegno, non si materializzò alcun aiuto concreto ed essi furono costretti a spostarsi da Urmiya a Hamadan, e poi a rifugiarsi nei campi di Ba‘quba e da lì stabilirsi prima a Mindan (1920-1921) e in seguito a Duhok e Aqrah (1921-1933) nel neo-istituito Regno d’Iraq.

La prima guerra mondiale e le esperienze di scontri, massacri e continui spostamenti da un campo profughi all’altro che ne seguirono rappresentarono un punto di svolta decisivo nello sviluppo dell’identità delle comunità cristiane, specialmente nella diaspora. Quest’esperienza ha contribuito al consolidamento e alla politicizzazione dell’idea di un’identità assira a base etnica. Le vicende storiche precedenti al XIX secolo furono pragmaticamente reinterpretate per dare voce a una “nuova” identità politica ed etnica, stabilendo una sorta di dilemma tra identità etnica e religiosa/ecclesiale. La diaspora in Occidente ha fortemente contribuito a questo processo. Fin dagli anni ’60, le comunità espatriate hanno mostrato un crescente interesse negli eventi occorsi durante la Grande Guerra. All’interno di questo dibattito, specialmente negli anni ’90, la parola seyfo ha acquisito sempre più importanza. Questo termine, che sia in arabo che in siriaco significa “spada”, in dialetto siriaco sta per “genocidio”. Questa scelta lessicale aveva lo scopo di esprimere il fatto che durante la deportazione armena del 1915 fosse stato compiuto un massacro sistematico dei giacobiti che vivevano nell’area di Mardin-Midyat da parte delle forze ottomane e da unità tribali irregolari curde. Sebbene l’uso di questo termine sia ancora discusso e prevalentemente associato al destino armeno, ignorando quindi gli altri cristiani coinvolti in quegli eventi, seyfo svolge ormai un ruolo importante nella costruzione di una memoria comunitaria.

Il dopoguerra

La riconfigurazione del Medio Oriente secondo gli interessi degli Stati vincitori, specialmente Francia e Gran Bretagna, curò solo in apparenza le ferite inflitte tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. In un certo senso, finita la guerra e una volta sorto un mondo “nuovo” di possibilità politiche ed economiche, gli interessi delle potenze occidentali sembrarono ignorare i loro vecchi “protégées”, lasciandoli al loro destino. Questo valse in particolar modo per gli assiri. Il breve mandato inglese in Iraq non migliorò la loro condizione. Al contrario, frustrò i loro sogni d’indipendenza, allontanandoli dalle aree originarie di residenza e contribuendo a peggiorare le loro relazioni con le altre comunità irachene, in specie attraverso l’arruolamento in unità speciali militari pensate per sostenere il mandato. Alla fine, nel 1933, quando il mandato inglese in Iraq giunse a termine, il lungo esodo diventò per molti un esilio definitivo in Siria o nei Paesi occidentali, in seguito al massacro nel villaggio di Semmel da parte di un distaccamento dell’esercito iracheno[8] e l’esilio di Mar Shimoun Eschai a Cipro. In breve, i negoziati e i piani geopolitici britannici andarono di pari passo con l’inefficacia della Società delle Nazioni e con la crescita del nazionalismo turco, iracheno e siriano. Il risultato finale fu il grave deterioramento della condizione della comunità assira.

Per quanto riguarda i caldei, la loro incorporazione nel nuovo stato dell’Iraq fu meno traumatica. Essi non subirono infatti alcun esilio. Favorevoli a integrarsi nella nuova entità politica e grazie alla decisione di abbandonare l’ideale di una nazione assiro-caldea per rinforzare e consolidare legami comuni, i cristiani caldei furono capaci di dare vita e sviluppare le loro attività a Mossul e Baghdad. Tuttavia, l’imposizione di confini “nazionali” prima inesistenti alterò drasticamente la prospettiva sia dei cristiani sia delle loro istituzioni ecclesiastiche. In un certo senso, essa ha congelato le loro esistenze all’interno dei limiti del loro status di minoranza ufficiale, una garanzia per la sopravvivenza e lo sviluppo della loro vita comunitaria, ma anche una sorta di ricorrente simbolo del bisogno di provare ai vicini musulmani la propria efficacia, produttività e lealtà, specialmente in un tempo di crisi e cambiamenti.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

[1] Kemal Haşim Karpat, Millets and Nationality: The Roots of the Incongruity of Nation and State in the Post-Ottoman Era, in Benjamin Braude & Bernard Lewis (a cura di), Christians and Jews in the Ottoman Empire, The Functioning of a Plural Society, Homes & Meier Publishers, New York-London 1982, Vol. 1, 147-148.

[2] Paschalis Kitromilides, An Orthodox Commonwealth: Symbolic Legacies and Cultural Encounters in South-Eastern Europe, Ashgate, Aldershot 2007, 181-182.

[3] Anthony O’Mahony, Eastern Christianity in Modern Iraq, in Anthony O’Mahony (a cura di), Eastern Christianity. Studies in Modern History, Religion and Politics, Melisende, London 2004, 19-20.

[4] Suha Rassam, Christianity in Iraq. Its Origins and Development to the Present Day, Gracewing, Leominister 2006, 105-106.

[5]Il sistema ereditario di successione da zio a nipote del patriarcato fu istituito ufficialmente a metà del XV secolo. Mar Shimoun IV Basidi impose questa disposizione per consolidare la struttura socio-politica ed ecclesiastica della Chiesa dopo gravi crisi alla fine del XIII secolo, quando il khan mongolo di Persia Gahazan si era convertito all’Islam. Nel XIV secolo le campagne militari di Timur (Tamerlano) colpirono drasticamente la Chiesa Orientale confinandola a forza nel Nord della Mesopotamia. Di conseguenza, la tradizione antica delle scuole declinò e il Patriarca divenne un leader secolare e allo stesso tempo religioso. È in queste circostanze che fu introdotto il sistema ereditario di successione. Fin dall’inizio esso rappresentò una questione controversa nella storia della Chiesa Orientale. L’insoddisfazione verso questa pratica crebbe tra i membri della gerarchia tanto che la Chiesa si divise in due fazioni opposte. Nel 1552, il vescovo di Erbil, Urmiya e Salmas si oppose ufficialmente ed elesse un anti-Patriarca. Questa fazione cercò e trovò supporto nella Chiesa Cattolica, che consacrò il suo candidato, ratificando la divisione tra la neonata Chiesa Cattolica Caldea e l’Antica Chiesa Orientale.

[6] Arthur John Arberry, Religion in the Middle East. Three Religions in concord and conflict, Cambridge University Press, Cambridge 1969, 524.

[7] Florence Hellot, La Fin d’un Monde: les Assyro-Chaldéens et la Première Guerre Mondiale, in Bernard Heyberger (a cura di), Chrétiens du Monde Arabe. Un Archipel en Terre d’Islam, Autrement, Paris 2003, 129-130. Cfr. anche il documentato studio di Joseph Yacoub, Qui s’en souviendra ? 1915: le génocide assyro-chaldéo-syriaque, Cerf, Paris 2014.

[8] Nel 1933, un corpo armato assiro si diresse in Siria in cerca della protezione francese, senza però aver negoziato nessun accordo con le autorità francesi. Di conseguenza, gli fu rifiutata l’ammissione in Siria e sulla via del ritorno in Iraq si scontrò con l’esercito iracheno a Derabun. Questi eventi rappresentarono un monito minaccioso. Misure anti-assire furono prese nei giorni successivi e le tribù arabe e curde iniziarono a saccheggiare Zäkho, Duhok e Shaykhan. I rifugiati si riversarono a Mossul e nelle aree centrali di Alqosh e Semmel in cerca di protezione. A Semmel in particolare si raccolsero intorno alla stazione di polizia locale. La mattina dell’11 agosto 1933, Bakr Sidqi, il comandante militare di Mossul, inviò un distaccamento dell’esercito iracheno con l’ordine di massacrare ogni uomo nel villaggio.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Paolo Maggiolini, Il genocidio dimenticato dei cristiani siriaci, «Oasis», anno X, n. 20, dicembre 2014, pp. 101-105.

 

Riferimento al formato digitale:

Paolo Maggiolini, Il genocidio dimenticato dei cristiani siriaci, «Oasis» [online], pubblicato il 28 gennaio 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/il-genocidio-dimenticato-dei-cristiani-siriaci.

Tags