All’interrogativo sul potere il Nuovo Testamento risponde nella persona del Figlio di Dio che non respinge, ma tratta il potere umano come una realtà iscritta nella creazione

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:20

All’interrogativo sul potere il Nuovo Testamento risponde nella persona del Figlio di Dio che non respinge, ma tratta il potere umano come una realtà iscritta nella creazione. Con una deriva possibile: sollevarsi contro Dio. Una scelta alla quale Gesù contrappone l’umiltà, via di liberazione dall’incantamento del dominio.

 

Il potere come obbedienza

Che l’uomo abbia un potere e nel suo esercizio esperimenti una singolare soddisfazione, non è un aspetto eccezionale della esistenza, ma è connesso, o almeno può essere connesso, alle sue attività ed alle sue condizioni abituali; anche a quelle che a prima vista non sembrano avere alcun legame con il carattere del potere.

È evidente che ogni atto dell’agire e del fare, del possedere e del godere genera la coscienza immediata di disporre di un potere. Lo stesso si può dire di tutti gli atti vitali. Ogni attività in cui si esplichi l’immediatezza vitale è esercizio di potere e come tale viene avvertita… Analogamente si potrebbe dire dell’esercizio del conoscere. Per sé esso significa la capacità di penetrare dentro ciò che è con lo sguardo e con l’intelletto; ma colui che conosce sperimenta la forza che dal conoscere gli deriva. Egli sente di «divenire consapevole della verità», e il sentimento può trapassare in quello di «essere padrone della verità». […]

 

A immagine di Dio

Per una più profonda conoscenza del potere è importante ciò che la Rivelazione dice della sua natura. Ne ritroviamo i presupposti, già all’inizio dell’Antico Testamento, là dove si parla dell’essenziale destino dell’uomo. Dopo il racconto della creazione del mondo, nel primo capitolo del Genesi si legge:

E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra’ (Gen 1,26-28).

E nella seconda narrazione della creazione si legge:

Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente (Gen 2,7).

Per prima cosa, dunque, si dice che l’uomo è di natura diversa dagli altri esseri viventi. Egli è creato come ogni essere vivente, ma lo è in modo particolare, e precisamente secondo l’immagine di Dio. È fatto di terra, della terra dove cresce l’alimento dell’uomo, ma vive in lui un soffio dell’alito divino. È perciò inserito nel complesso della natura, ma al tempo stesso sta in un immediato rapporto con Dio e può quindi prendere posizione di fronte alla natura. Può esercitare il suo impero su di essa, anzi deve farlo, così come deve essere fecondo a fare della terra l’abitazione della sua discendenza.

Il rapporto dell’uomo con il mondo viene ulteriormente sviluppato nel secondo capitolo e precisamente dal punto di vista cui abbiamo già accennato, che cioè l’uomo deve divenire padrone non solo della natura, ma anche di se stesso; deve avere forza non solo per il lavoro, ma anche per la propagazione della sua propria vita:

E il Signore Dio disse. ‘Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile’. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile (Gen 2, 18-20).

L’uomo riconosce quindi di essere essenzialmente diverso dall’animale, e di non poter avere perciò comunanza di vita con esso, né di poter propagare per suo mezzo la propria vita. […]

 

Un esercizio essenziale

Questi testi, che riecheggiano attraverso tutto l’Antico ed il Nuovo Testamento, dicono che all’uomo è stato dato potere sia sulla natura sia sulla propria vita. E dicono inoltre che da questo potere nasce una autorizzazione ed un dovere: esercitare un dominio.

In questo dono di potere, nella capacità di farne uso e nell’imperio che ne consegue, consiste la naturale somiglianza a Dio dell’uomo. Si esprime qui la distinzione essenziale e la pienezza di valore dell’esistenza umana, ed è questa la risposta della Scrittura alla domanda donde si origini quel carattere ontologico del potere di cui abbiamo più su parlato. L’uomo non può essere uomo ed oltre a ciò esercitare o meno un potere; esercitare quel potere è essenziale per lui. A ciò lo ha destinato l’Autore della sua esistenza. E noi facciamo bene a ricordarci che nel protagonista del progresso moderno, anche nel protagonista di quello sviluppo di potere umano che in esso si compie, e precisamente nel borghese, agisce una fatale inclinazione: esercitare il potere in modo sempre più fondamentale, scientificamente e tecnicamente perfetto, e al tempo stesso non prenderne apertamente le difese, cercando invece di ammantarlo dei pretesti dell’utilità, del benessere, del progresso e così via. L’uomo ha perciò esercitato una potenza senza sviluppare l’etica corrispondente. Ne è nato così un uso della forza, che non è essenzialmente governato dall’etica e che trova la sua espressione più genuina nella società anonima.

Solo quando si riconoscono questi fatti, il fenomeno del potere acquista tutto il suo peso: la sua grandezza e la sua serietà, quella serietà che sta nella responsabilità. Se l’umano potere e la potenza che ne deriva ha la sua radice nella somiglianza con Dio, esso non è un diritto autonomo dell’uomo, ma qualche cosa che gli è stato prestato. Per la grazia egli è signore, e la sua signoria egli deve esercitare facendosene responsabile di fronte a Colui che è Signore per essenza. Il potere si fa allora obbedienza e servizio. […]

 

Copia e archetipo

Segue il racconto della tentazione dell’uomo e possiamo a priori supporre che essa avrà per oggetto il punto decisivo della sua esistenza e cioè il potere ed il suo uso. […]

L’uomo deve giungere al dominio nel senso più ampio, ma rimanendo in un rapporto di obbedienza a Dio e attuando quel dominio come servizio. Egli deve divenire signore, ma restando fedele all’immagine di Dio che è in lui, e senza pretendere di essere lui l’archetipo. […]

Il serpente, immagine simbolica di Satana, confonde davanti all’uomo i fatti fondamentali della sua esistenza: la differenza essenziale fra creatore e creatura; il rapporto fra l’archetipo e la copia; la realizzazione di sé nella verità e quella nell’usurpazione; il dominio come servizio e il dominio come pretesa propria. Il puro concetto di Dio viene sospinto nella mitologia, poiché se si dice che Dio sa che l’uomo, attraverso l’atto proibito, può divenire simile a Lui, ciò significa che sente la sua divinità minacciata dall’uomo; allora il suo rapporto con l’uomo sarebbe il rapporto delle divinità mitologiche, che provengono dalle comuni radici, dalla causa prima della natura e non sono perciò in definitiva da più dell’uomo. […] Gli uomini cadono […] nell’inganno e avanzano la pretesa di un dominio per forza propria. Il seguito del racconto biblico ha un autentico valore di rivelazione là dove dice che la disobbedienza non porta con sé la conoscenza che rende simili a Dio, ma la mortale esperienza di essere «nudi». La nudità di cui ora si parla è essenzialmente diversa da quella di cui si è parlato poco più su, dove si diceva: «tutti e due erano nudi, ma non ne provavano vergogna».

Ora è turbato il rapporto fondamentale dell’esistenza. L’uomo ha ancora, come prima, potere e possibilità di dominio. Ma è infranto l’ordine in cui il potere accordato non era disgiunto dalla responsabilità di fronte al vero Signore. […]

 

Un nuovo inizio

La dottrina dell’Antico Testamento è di una semplicità grandiosa. Si direbbe che ha qualche cosa di classico nel distinguere direttamente il disegno di Dio e la ribellione dell’uomo, la condizione primitiva del creato e la decadenza provocata dalla ribellione. L’immagine che ci presenta il Nuovo Testamento è molto più difficile da afferrare.

La Redenzione non è un semplice miglioramento delle condizioni dell’essere, ma si pone al livello della creazione. Non procede dalle strutture del mondo, sia pure quelle più spirituali, ma dalla pura libertà di Dio. Pone un nuovo inizio: crea un nuovo luogo dell’esistere, un nuovo criterio del bene, una nuova forza di realizzazione. E ciò non significa una magia esercitata sul mondo, e neppure l’esser rapiti in uno spazio libero da vincoli; la Redenzione si compie entro la realtà dell’uomo e delle cose. Ne deriva una situazione complessa, che forse si esprime nella forma più chiara nella dottrina dell’apostolo san Paolo circa il rapporto fra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo. […] In ogni cultura superiore, gli uomini saggi hanno conosciuto il pericolo del potere e hanno parlato del suo superamento. La loro ultima parola si chiama moderazione e giustizia. Il potere trascina alla superbia e al disprezzo del diritto; all’uomo violento si contrappone l’uomo ragionevole, che onora gli dèi e gli uomini e custodisce la giustizia. Ma tutto questo non è ancora Redenzione: è il tentativo di trovare un punto di appoggio nell’esistenza sconvolta, di stabilire un ordine; l’esistenza non è concepita come un tutto, come farà invece la Redenzione.

In che consiste, dal punto di vista dei problemi che qui ci preoccupano, il carattere decisivo del messaggio della Redenzione? Esso si esprime in una parola che nel corso dell’epoca moderna ha perduto il suo significato: l’umiltà.

L’umiltà è scesa a significare debolezza, carenza vitale, viltà nell’affermare i diritti della vita, mancanza di nobili sentimenti, è diventata il complesso di ciò che Nietzsche chiama «decadenza» e «morale dello schiavo». Ma il senso del fenomeno è andato in tal modo completamente perduto. E se si deve senz’altro riconoscere che nel corso quasi bimillenario della storia cristiana si trovano concetti e manifestazioni di umiltà che corrispondono a quei giudizi, essi stanno a significare decadenza, anzi caduta da una grandezza che non è più compresa.

L’umiltà, nel senso cristiano, è una virtù di forza non di debolezza. Nel senso primitivo umile è il forte, colui che ha sentimenti elevati e coraggiosi. Colui che per primo ha realizzato una condotta di umiltà e l’ha resa possibile agli uomini, è Dio stesso con l’incarnazione del Logos. Nella Lettera ai Filippesi, Paolo dice che

Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un furto [che si possiede ingiustamente e che si tiene stretto timorosamente, per debolezza] la sua uguaglianza con Dio ma rinunciò a se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,5-8).

 

Nella forma dell’umiltà

Tutta l’umiltà creata discende da questo atto con cui il Figlio di Dio è divenuto uomo. Quell’atto che Egli non ha compiuto perché spinto da necessità, ma in pura libertà, perché Egli, il Sovrano, così aveva voluto. Il nome di questo sovrano «perché» è l’amore; e a questo proposito si deve osservare che la misura di un tale amore non deve essere derivata dall’uomo, ma da ciò che Dio dice di sé. Poiché, come l’umiltà, anche quello che il Nuovo Testamento chiama amore ha inizio in Dio (1Gv 4,8-10).

Come abbia potuto avvenire che Egli, l’Assoluto e Sovrano, sia entrato in una unità esistenziale con una natura umana; che Egli non solo regga la storia, ma si inserisca in essa; che abbia accolto in sé tutto ciò che da un tale inserimento discende, cioè il «destino» nel senso autentico, tutto ciò è imperscrutabile. Appena muoviamo dai criteri di una filosofia puramente naturalistica, ovvero dal concetto dell’essere assoluto, il messaggio dell’incarnazione diviene mitologico o assurdo. Ma già far questo è un assurdo, perché è un capovolgere l’ordine delle cose. Non si può dire: Dio è così e così, e perciò non può fare questo o quello; ma bisogna dire: Egli agisce così e perciò manifesta chi Egli è. Non è possibile esprimere un giudizio sulla Rivelazione; si può solo riconoscere che essa è avvenuta, accettarla e pertanto da essa esprimere un giudizio sul mondo e sull’uomo. È questo il fatto fondamentale del Cristianesimo: Dio stesso entra nel mondo. Ma come?

Il brano della Lettera ai Filippesi dice: nella forma dell’umiltà.

Consideriamo la situazione esistenziale di Gesù; il modo in cui si svolge la sua attività e prende forma il suo destino; le forme dei suoi rapporti con gli uomini; lo spirito delle sue azioni, delle sue parole, della sua condotta, e sempre vedremo una potenza altissima tradursi nella forma dell’umiltà. Solo alcuni accenni: Egli discende da antica stirpe, regale; ma quella stirpe è decaduta ed è divenuta insignificante. I suoi rapporti economici e sociali sono modesti. Neppure all’apice della sua attività Egli appartiene ad uno dei gruppi dominanti; e gli uomini che attira attorno a sé non danno mai l’impressione di avere una personalità o delle capacità fuori dell’ordinario. Dopo breve tempo Egli viene coinvolto in un processo bugiardo, il giudice romano, in parte spaventato, in parte annoiato, cede di fronte ai nemici e lo condanna a una morte insieme straziante e disonorevole. Si è a ragione osservato che il destino dei grandi personaggi della storia antica, anche quando conduce a una fine tragica, mantiene sempre una certa proporzione, si tiene entro le misure di ciò che può toccare a un grande: nel caso di Gesù tale misura non esiste e sembra gli possa accadere assolutamente tutto. Questo destino è già prefigurato nella misteriosa figura del «servo» della profezia di Isaia (52,13-53, 12).

 

La forza del servo

In questo senso è usato da san Paolo il termine kenosis, a significare l’annichilimento con cui Egli, che è per sua essenza en morphe theou nella forma di Dio, discese nella morphe tou doulou nell’abbassamento del servo.

L’intera esistenza di Gesù è traduzione della potenza in umiltà. O, per esprimerci in forma attiva: traduzione nell’obbedienza alla volontà del Padre, quale si esprime di volta in volta nella situazione; e questa situazione nel suo complesso e nei singoli momenti è tale che esige un continuo «annichilimento». Per Gesù l’obbedienza non è qualche cosa che sopraggiunga in un secondo momento, ma forma il nocciolo stesso del suo essere. È già obbedienza il fatto che Egli non predispone la sua «ora» secondo la sua volontà, ma in assoluta purezza la vede nella volontà di Dio. Questa volontà diviene la sua volontà in senso assoluto: l’onore del Padre il suo onore. E non perché Egli si arrenda al comando, ma in piena libertà.

L’assumere la «forza del servo» non significa debolezza, ma forza. […]

Questa è la risposta del Nuovo Testamento all’interrogativo circa il potere. Esso non viene respinto come tale. Gesù tratta il potere umano come esso è, una realtà. E lo sente; altrimenti un episodio come quello della terza tentazione, che è appunto una tentazione di hybris (Mt 4,8-10) non avrebbe alcun senso. Ma altrettanto chiaro diviene il suo pericolo: sollevarsi contro Dio, sino a non vederlo più come la realtà più seria; smarrire le proporzioni; esercitare la violenza in tutte le sue forme. A questo Gesù contrappone l’umiltà che libera fin nelle più intime radici dall’incantamento del potere.

Si potrebbe chiedere che cosa succede allora nella storia, e se la degenerazione del potere è stata di fatto superata. Non è facile dare una risposta.

Redenzione non significa che il mondo nel suo complesso sia stato modificato una volta per tutte, ma che Dio ha posto un nuovo inizio dell’esistenza. Questo inizio esiste e rappresenta una possibilità permanente. Una volta per tutte è divenuta manifesta la posizione del potere davanti agli occhi di Dio; una volta per tutte, nell’obbedienza di Gesù, è stata data una risposta. Ma questa obbedienza non ha un carattere privato, è aperta, è accessibile a tutti. Non è l’esperienza e il superamento personale del singolo, ma un atteggiamento a cui ciascuno può avere parte, purché lo voglia: intesa la parola «volere» nella pienezza del suo significato neotestamentario, che abbraccia insieme la grazie del volere-potere e la risolutezza del tradurre la volontà in azione.

Questo inizio esiste e nulla potrà cancellarlo. La misura in cui si realizza è cosa propria di ogni individuo e di ogni tempo. La storia ricomincia nuovamente con ogni uomo, e ricomincia ad ogni ora, in ogni vita di uomo. Ed ha perciò, in qualsiasi momento, la possibilità di cominciare di nuovo, da quell’inizio che qui è stato posto.

 

[Romano Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 19999, 124-144, passim]

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Testo di Romano Guardini, Il potere come obbedienza, «Oasis», anno X, n. 20, dicembre 2014, pp. 75-78.

 

Riferimento al formato digitale:

Testo di Romano Guardini, Il potere come obbedienza, «Oasis» [online], pubblicato il 28 gennaio 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/il-potere-come-obbedienza.

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