Intervista a padre Moretti, comboniano che da Nairobi racconta come il Kenya sta reagendo alla violenza islamista e indaga le ragioni dell’attacco al Westgate

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:54

«Costernazione totale e dolore immenso»: padre Franco Moretti, comboniano, già direttore di Nigrizia, da Nairobi descrive con queste parole la situazione che vive il Paese da quando un commando di Shabab si è asserragliato nel centro commerciale Westgate, uccidendo 62 persone e ferendone oltre 170. Un bilancio ancora aperto, dato che i dispersi sono decine e le forse di sicurezza non sembrano ancora aver ripreso il controllo della situazione. Ma costernazione e dolore si sono tradotti presto tra i kenioti in una grande mobilitazione generale: «I giornali – racconta p. Franco – hanno proposto raccolte di fondi per le vittime e lanciato appelli per sollecitare le donazioni di sangue. Il quotidiano The Standard ha già raccolto 23 milioni di scellini per le vittime: tutti segni evidenti di come la cittadinanza stia seguendo questa tragedia, questa ferita inferta al Paese». E il colpo mortale è stato inferto a uno dei punti nevralgici della capitale. Era un obiettivo sensibile questo grande mall “Westgate”? Era una sorta di “cattedrale” per Nairobi. Le persone appena benestanti lo frequentavano abitualmente nel fine settimana, perché offriva di tutto: dai giochi per i bambini ai ristoranti sempre affollati, a negozi, cinema e teatri. L’assalto ha colpito famiglie, ma anche molti rappresentanti di diverse ambasciate e ONG, che la domenica dalla periferia raggiungono abitualmente il centro. Un evento che non ha guardato in faccia a nessuno, con un rimbalzo all’attenzione internazionale straordinario. Non è proprio quello che cercano i terroristi, stupire, mostrare la loro potenza in diretta mondiale? Sono convinto che tutta questa violenza sia stata usata dagli Shabab per rimettere al centro dell’attenzione mondiale la questione somala. Le telecamere di tutto il mondo sono fisse sull’orrore del Westgate, anche se posizionate a un chilometro e mezzo di distanza circa, perché tutto intorno al centro commerciale è stata creata una cintura di sicurezza per evitare che qualcuno da fuori possa informare i terroristi chiusi dentro. Sono ore terribili, Nairobi è come sotto choc: in ogni angolo della città si parla di quanto sta accadendo, si raccontano tutti i dettagli, si condivide ogni sensazione. Si ripercorre la storia recente dei rapporti tra il Kenya e la Somalia, si cercano le ragioni di una violenza così assurda. C’è chi spiega questo gesto come una vendetta per l’affronto compiuto dall’esercito keniota, che due anni fa ha invaso il sud della Somalia, ha ucciso molti membri degli Shabab per sostenere quel governo di transizione che si è posto in concorrenza con il potere delle corti islamiche. Ma non sarebbe una vendetta un po’ tardiva? Piuttosto non Le sembra rilevante il fatto che alcuni degli ostaggi fuggiti parlassero di una violenza specifica di questi terroristi contro i cristiani, mentre i musulmani – sembra – sarebbero state risparmiati? Credo che le dichiarazioni raccolte da persone scampate alla violenza, ferite e sotto choc, vadano prese con una certa prudenza. Tra le vittime, infatti, vi sono anche numerosi musulmani. C’è stata subito la reazione del leader del Consiglio islamico del Kenya che ha condannato senza esitazione la violenza. Ma certo non si può non vedere la matrice islamista in questo attacco: negare che l’Islam abbia un problema con la violenza sarebbe ingenuo. Inoltre sembra che i terroristi somali abbiano dei sostenitori anche tra i musulmani kenioti. I Somali in Kenya non sono certo una presenza irrilevante ormai. Il loro numero e il loro potere cresce. Come sta incidendo realmente nel Paese? Il Kenya sta subendo il forte impatto della presenza crescente dei rifugiati somali: sui 44 milioni di abitanti, i cattolici sono il 33% della popolazione, i protestanti e anglicani arrivano al 45%, mentre il 10% si riferisce alle religioni tradizionali africane. I musulmani sono circa il 10% della popolazione e sono soprattutto concentrati lungo la costa, ma il loro numero è cresciuto con l’arrivo di immigrati somali. Solo nei dintorni di Nairobi si parla di circa un milione di somali presenti, in certi casi forse non del tutto estranei a quello che sta avvenendo oggi. Nel quartiere Eastligh della capitale la comunità somala è quasi quintuplicata negli ultimi anni. Alcuni sono molto ricchi, stanno comperando interi quartieri della città, costruendo palazzi e investendo nell’edilizia in un modo che per alcuni è sospetto: si ritiene che vengano reinvestiti qui gli introiti della pirateria somala che continua imperterrita lungo le coste. Si parla di cifre esorbitanti, di milioni di dollari. E sembra che anche a qualcuno del governo keniota questo traffico non dispiaccia. Certo sulla presenza somala in Kenya questo attentato getta un’ombra inquietante. Molti somali temono oggi la vendetta da parte di kenioti che non possono accettare quel che è accaduto. Quest’atto di violenza estrema, radicale, renderà tutti i rapporti più difficili. La popolazione è stanca. Questo non è il primo attentato, anni fa ci sono stati alcuni attacchi alle chiese. Come legge il fatto che i terroristi non siano tutti somali, ma che tra loro si contino degli stranieri, addirittura pare degli americani ed europei? Conferma il fatto che si tratta di un’azione globale eterodiretta, che mira a colpire e dare una lezione anche oltre i confini regionali. La BBC ha sostenuto, grazie a fonti piuttosto sicure, che l’operazione sarebbe gestita via internet da Chisimaio in Somalia. Non hanno nessuna intenzione di venire a patti, di trattare. Vogliono che il mondo sappia quanto sono forti, determinati. Che il mondo li deve temere, a cominciare dall’esercito del Kenya e dalle forze dell’Unione Africana.