Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:40:36

Intervista a Christine Amjadali (nella foto), Direttrice del Christian Study Center di Rawalpindi, Pakistan Si ricevono in Occidente molte notizie che evidenziano la difficile situazione dei cristiani in Pakistan. Qual è la sua esperienza? Come vive la sua fede? Si sente mai minacciata nella vita quotidiana? Il Pakistan riconosce la libertà di religione, di praticare la propria fede, di pregare e anche di fare propaganda. Questo è scritto nella Costituzione. Ci sono molte comunità cristiane e molte comunità hindi. Quindi a un certo livello c’è un grande patto di libertà. Le chiese sono aperte, non ci sono problemi se si va in chiesa o se si pratica la vita cristiana in modi diversi. Ma i cristiani devono affrontare discriminazioni e a volte atti violenti. In particolare la violenza è connessa con la legge contro la blasfemia che in genere viene usata in modo strumentale contro persone che non sono gradite. Una volta che la questione blasfemia viene sollevata, nessuno si salva. Per questo in questo ambito vi sono delle difficoltà, ma possiamo dire che in Pakistan i cristiani sono sicuri come tutti gli altri cittadini. Perché il Pakistan non è sempre un luogo sicuro, è un Paese violento da vari punti di vista.Quanto a sicurezza posso dire che i cristiani si trovano nella stessa situazione degli altri cittadini, solo che in più sono discriminati. Come vivono il loro essere in condizione di minoranza? Per esempio: devono frequentare scuole riservate a loro, vivono in quartieri speciali, separati dagli altri… Spesso i cristiani vivono insieme in piccole aree, situazione che sta diventando alquanto frequente. Penso che questo processo sia dovuto a una certa loro marginalizzazione nella società. Per quanto riguarda le scuole, i cristiani sono liberi di andare in quelle statali. Chi può permetterselo, preferisce mandare i propri figli nelle scuole cristiane, perché quelle statali sono piuttosto di basso livello. Ma la maggioranza alla fine frequenta le statali. Le scuole cristiane sono aperte a tutti, cristiani e musulmani, solo che sono gestite dalla Chiesa. Secondo la legge pakistana, qual è lo status dei cristiani? Essi sono riconosciuti come cittadini, ma sono chiamati “minoranza” e come tali sopportano le stesse restrizioni che pesano su tutte le minoranze del Paese. Per esempio: per diventare Presidente o Primo Ministro è necessario essere musulmani. Ufficialmente la sharî'a è parte della Costituzione ma in anni recenti gli aspetti della Shari’a che maggiormente colpiscono tutte le minoranze (questioni che in genere avevano a che fare con le leggi sul testimone) non sono più stati usati contro le minoranze. Il Governo ha assicurato che le minoranze e le donne sono trattate secondo quanto prevede il regolare codice penale pakistano, non con la sharî'a. Così i cristiani sono cittadini come gli altri. Ma la discriminazione cresce sempre più: è difficile trovare un lavoro, solo per citare uno trai tanti esempi possibili. È divenuto più forte il senso dell’identità pakistana: un pakistano deve essere musulmano e questo deve essere scritto sul suo curriculum. Questo è un problema grave. Anche se a livello “ufficiale” non vi sono discriminazioni, e infatti il Governo cerca di assicurare che non vi sono discriminazioni contro nessuno, a livello sociale esse sono presenti e pesanti, e spesso di matrice religiosa. Quale è secondo lei il futuro dei cristiani in Pakistan? La lotta del ministro assassinato Bhatti contro la legge sulla blasfemia sarà portata avanti? Per ora nessuno parla delle legge sulla blasfemia, è troppo pericoloso. Molti musulmani, cristiani e hindu cercano di cambiare le cose, ma nessuno osa toccare l’argomento della blasfemia. C’è, io credo, un movimento crescente a favore di un cambiamento in Pakistan. C’è la speranza di un cambiamento. I cristiani, come parte della Comunità per i Diritti Umani, possono lavorare con la comunità per favorire un cambiamento. Penso che possano lavorare anche con i musulmani più aperti e con le comunità di musulmani in questa direzione. Tuttavia il problema più grande che grava sulla comunità cristiana è che, a causa delle difficoltà economiche e delle discriminazioni, i cristiani istruiti appena possono, lasciano il Paese. E la comunità sta divenendo più piccola e va perdendo la sua leadership. Questo è il problema più serio. Ciò che indebolisce la comunità cristiana pakistana è la perdita di una leadership preparata. Sul versante positivo ritengo che la comunità cristiana abbia una grande contributo da offrire al Paese. Proprio perché è ai margini, sa offrire una prospettiva diversa alla società. Porta oggi e ha sempre portato un valore inestimabile alla società pakistana. Voglio sperare di vederlo crescere. Negli ultimi mesi alcuni Paesi arabi sono passati attraverso dei cambiamenti. Crede che il vento della cosiddetta primavera araba posso raggiungere anche il suo Paese? Il vento della primavera araba non ha sfiorato il Pakistan. È molto lontano e non ha nulla a che fare con noi. Questa la mia impressione. Ma la democrazia è sempre stata parte del Pakistan, anche se abbiamo combattuto contro molte dittature. Il Pakistan è sempre stato un Paese plurale: plurale per le religioni e plurale per i gruppi etnici e per le lingue. Il contesto è del tutto diverso da quello arabo. C’è un grande desiderio in Pakistan: che l’Islam riesca a definire se stesso in modo democratico. E questo desiderio potrebbe venir ulteriormente alimentato da quanto sta accadendo nella Primavera araba. Accanto a questo, però, bisogna considerare la presenza dei gruppi di estremisti violenti e quanto sta avvenendo in Afghanistan con la talebanizzazione. Questo è un problema serio. Chi sa cosa accadrà alla fine?