Il debutto di Teheran ai colloqui di Vienna apre nuovi scenari in Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:39

Lasciare isolati per dodici giorni due milioni di persone che ancora risiedono ad Aleppo è stata la principale conseguenza dell’ultima offensiva sulla città, quella che ha portato il 19 ottobre il capo della Union of Syrian Medical Relief Organisations a lanciare l’allarme per una nuova emergenza umanitaria. Aleppo resta contesa, i civili si trovano nel mezzo, intrappolati tra le forze del presidente siriano Bashar al-Assad, sostenute da russi e iraniani, e i ribelli, spesso legati all’islamismo radicale. Con offensive di questo tipo “Aleppo non cadrà nelle mani di nessuna delle due parti: si tratta di una grande area urbana dove è difficile e costoso combattere, e nessuno dispone di truppe sufficienti”, sostiene Yezid Sayigh, senior associate al Carnegie Middle East Center. È anzi “probabile che lo status quo persista e non assisteremo a cambiamenti radicali nell’immediato”. Sul fronte iracheno è invece partita un’operazione curda per riprendere la cittadina di Sinjar, conquistata in estate dallo Stato islamico. Le forze curde sono appoggiate dall’aviazione della coalizione internazionale a guida americana e da piccoli gruppi di combattenti della minoranza yazida della regione. La prima volta della Repubblica islamica Se in Siria si continua a combattere, da diverse settimane la diplomazia internazionale è impegnata in un inedito sforzo per trovare un compromesso sul conflitto. La novità datata 30 ottobre è stata la partecipazione dell’Iran ai negoziati di Vienna sulla Siria, cui hanno partecipato tra gli altri Russia, Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Altri incontri hanno seguito questo debutto, anche e soprattutto dopo i tragici attentati del 13 novembre a Parigi, che hanno reso prioritario un consenso su una soluzione anche politica della crisi. È la prima volta che Teheran siede a un tavolo negoziale dal 2011, anno di inizio delle rivolte in Siria, e non è un caso che questo accada a pochi mesi dalla firma dell’accordo sul nucleare di luglio. Quell’intesa “facilita e crea le premesse per avviare discussioni su altri campi d’interesse”, dice a Oasis Riccardo Redaelli, professore di geopolitica all’Università Cattolica di Milano. Non soltanto, secondo Germano Dottori, docente di studi strategici alla LUISS, durante le trattative “si era persino avuta la sensazione che il tavolo negoziale fosse quasi una copertura, concepita per celare al grande pubblico l’avvenuta nascita di una sede di concertazione utilizzata da americani e iraniani per parlarsi”. Con la firma dell’accordo, all’Iran, che ha sempre avuto intense relazioni con paesi come Russia, Cina e India si apre la strada – seppur ancora ipotetica e irta di difficoltà – per riallacciare i rapporti con una parte del mondo preclusa dalla Rivoluzione islamica del ‘79. Nuovi schemi e nuove alleanze La firma dell’accordo sul nucleare è una condizione da tenere in conto nel tentativo di comprendere l’invito di Teheran a Vienna, ma non è sufficiente a spiegarlo: sulla scelta di includere l’Iran al tavolo dei colloqui hanno pesato altri due fattori. Il primo è il rapporto tra il presidente iraniano Hassan Rohani, Javad Zarif, il suo ministro degli Esteri, e le controparti americane, non più connotato da una “rigida contrapposizione”, spiega Dottori. Non significa che iraniani e americani siano d’accordo su tutte le questioni aperte, ma oggi si registra una maggiore disponibilità al dialogo. Il secondo fattore è lo sconvolgimento del Medio Oriente che “avvantaggia il reinserimento dell’Iran nella geopolitica regionale perché la crescita del settarismo, la frammentazione degli stati, l’ascesa del ‘Califfato’, hanno fatto saltare tutti gli schemi e le alleanze” e fatto nascere nuove e finora improbabili coalizioni: dopo gli attacchi di Parigi, il presidente Fraçois Hollande ha chiesto a Russia e Stati Uniti di unire le forze contro il terrorismo e Mosca e Parigi hanno bombardato in contemporanea postazioni dello Stato islamico nell’area siriana di Raqqa. I dubbi dei regimi sunniti Se un’unità di intenti militari può essere trovata, restano le differenze sulla soluzione politica in Siria. Il pieno reintegro dell’Iran nelle relazioni diplomatiche regionali sarebbe una svolta epocale. Eppure “dal momento della firma non è conseguito un miglioramento nei rapporti tra l’Iran e i suoi avversari regionali, tutt’altro”, dice Redaelli. I regimi sunniti, dall’Egitto ai paesi del Golfo, temono da sempre un’espansione dell’egemonia sciita sulla regione. Israele considera Teheran una minaccia esistenziale e come gli Stati Uniti e l’Unione europea accusa la Repubblica islamica di sostenere movimenti terroristici come i libanesi di Hezbollah. I problemi non si fermano qui: le recenti dichiarazioni di Ali Kamenei, la Guida suprema iraniana, in occasione dell’anniversario della crisi degli ostaggi del ‘79 evidenziano una ripresa della retorica antiamericana in Iran. Secondo il professor Redaelli “dopo l’imposizione dell’accordo agli ultraconservatori, Khamenei vuole riequilibrare lo scenario politico”, facendo capire ai riformisti che non potranno spingere troppo oltre le loro richieste. Inoltre, i pasdaran, Guardiani della rivoluzione, non hanno interesse a salvaguardare l’accordo: controllano settori chiave del sistema iraniano e si sono arricchiti grazie alle sanzioni che gravavano sul Paese a causa del suo programma atomico. Una nuova Dayton Nonostante queste difficoltà, le differenti posizioni sulla guerra siriana e i problemi posti dal sostegno iraniano a Hezbollah, “l’invito a Vienna è stato un passo avanti sulla strada che dovrebbe condurre alla pacificazione della Siria”, sostiene Dottori. Non ci sono alternative: se si vuole arrivare a un compromesso gli iraniani devono essere ammessi al tavolo dei negoziati con “americani, russi, sauditi, turchi, e loro soltanto. Non come avvenuto finora negli incontri di Vienna dove si sono resi protagonisti molti comprimari che poco hanno da dire, e ancor meno possono fare, a proposito della soluzione della guerra civile siriana. Serve una nuova Dayton – prosegue Dottori – ma attenzione: restaurare l’unità dello Stato siriano non è più possibile né desiderabile”, perché non garantirebbe la protezione dei vinti. Un primo passo per raggiungere il compromesso è stato fatto, ma se l’Occidente non vuole che russi e iraniani si buttino anima e corpo in sostegno di al-Assad “occorre rassicurarli sul fatto che i loro interessi strategici in Siria siano in qualche modo garantiti anche dopo una transizione politica”, conclude Redaelli.

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