Il riformismo islamico in Asia meridionale è una realtà complessa che punta alla trasformazione degli individui e della società, ma con metodi diversi

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:29

Sfociato in diverse modalità di attivismo, il riformismo islamico in Asia meridionale è una realtà complessa che punta alla trasformazione degli individui e della società, ma con metodi diversi: c’è chi predilige l’impegno educativo e sociale, ma anche chi usa la via politica e chi opta per l’uso della violenza. Diffuso anche oltre i confini sud-asiatici, esso testimonia la multipolarità dell’Islam e documenta che modelli islamici esportabili possono venire anche da regioni diverse dal Medio Oriente.

I movimenti riformisti dell’Islam sunnita in Asia meridionale[1] mostrano una notevole diversità nel tempo (periodi pre- e post-coloniale), nello spazio (l’Islam è maggioritario in Pakistan e in Bangladesh, minoritario nell’India indipendente) o ancora nelle forme (quietista, politico, jihadista). Ciò che li caratterizza è da un lato il fatto di aver conosciuto l’influenza esogena di movimenti di rinnovamento religioso nati in altre parti del mondo islamico e dall’altro la volontà endogena di rivalutare l’Islam alla luce della modernità introdotta dal contesto coloniale e post-coloniale. Benché tutti si traducano in tentativi di “epurare” dalle innovazioni e dalle sedimentazioni locali le concezioni e le pratiche considerate a fondamento della tradizione islamica, questi movimenti riformisti sono percorsi da differenze che riguardano soprattutto l’educazione e la diffusione delle ideologie, il rapporto con le autorità religiose tradizionali e più generalmente con la politica. Essi hanno dato luogo nell’Asia meridionale a un attivismo multidimensionale (che sarà esaminato dopo aver premesso un breve quadro storico), ma esercitano anche una certa influenza in altre parti del mondo musulmano.

Il riformismo islamico è emerso, a partire dal XVIII secolo, nel segno di Shah Waliullah (1703-1762), teologo e mistico di Delhi. Come il suo contemporaneo Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhâb (1703-1792) fondatore del wahhabismo[2], anche Shah Waliullah ha posto le basi del riformismo islamico nella regione ispirandosi alle opere del teologo di Damasco Ibn Taymiyya (1263-1328). Inizialmente il suo progetto di “purificazione” dell’Islam non ebbe una grande eco. Ma la perdita del potere politico da parte dei musulmani a favore dei britannici ebbe importanti ripercussioni sulle loro concezioni e pratiche religiose. In questo contesto emerse la Tariqa-i Muhammadiyya, il cui fondatore, Sayyid Ahmad Barelwi (1786-1831), ispirandosi a riformisti autoctoni quali Shah Abdul Aziz (1745-1823, figlio di Shah Waliullah) e a riformisti originari di altri Paesi come lo Yemen (per esempio ‘Alî al-Shaukânî, morto nel 1834), si schierò a favore di una riforma religiosa e sociale. Opponendosi allo stesso tempo al ruolo dei santi come intercessori tra Dio e gli uomini e alle somme colossali spese nei santuari sufi, Barelwi raccomanda innanzitutto l’abolizione del culto dei santi, protesta contro i costumi che ritiene influenzati dall’induismo, come l’abitudine di sposare nuovamente le vedove, si pronuncia a favore della soppressione delle pompose e costose cerimonie celebrate in occasione dei vari riti di passaggio e infine insiste sull’importanza di alcune pratiche islamiche cadute in disuso come il pellegrinaggio alla Mecca e il jihad.

In seguito all’intensificazione della presenza britannica a partire dal 1857, nuove correnti sistematizzarono e continuarono le idee riformiste del secolo precedente. Tutte insistevano sul carattere superiore e distinto dell’Islam sia rispetto al Cristianesimo (in risposta ai missionari e ai coloni britannici) sia rispetto all’Induismo (in un’epoca in cui anche gli indù si erano impegnati in un processo di ridefinizione della loro religione).

 

Da Deoband il movimento più importante

Il più importante di questi movimenti, fondato nel 1867 da Muhammad Qasim Nanautawi (1833-1877) e Rashid Ahmad Gangohi (1829-1905), è quello dei Deobandi, il cui nome deriva dalla città di Deoband, a nord di Delhi. La loro originalità risiede principalmente nel progetto di insegnamento e diffusione dell’Islam. Essi adottarono metodi d’insegnamento moderni, pur escludendo dal loro programma l’inglese e le scienze “occidentali” e promuovendo al loro posto lo studio del Corano, degli hadîth, della legge e delle scienze islamiche. Trasformando progressivamente Deoband in uno dei maggiori centri per l’insegnamento religioso dell’Asia meridionale, essi crearono la più importante rete di madrase dell’epoca. Nonostante le sue velleità riformiste, Deoband rimase fedele alla tradizione hanafita in materia di teologia e diritto e tollerò il sufismo come pratica spirituale individuale.

Nello stesso periodo emersero però altri movimenti che ruppero questo conformismo. Il primo, dalle tendenze fondamentaliste, è lo Ahl-i hadith (Gente della Tradizione), fondato nel 1864. Traendo ispirazione dal pensiero del teologo Nazir Husain (1805-1902), il movimento ammette solo il Corano e gli hadîth come fonti del diritto e rifiuta gli insegnamenti della scuola hanafita, ma anche il sufismo in tutte le sue forme. Esso auspica il ritorno all’Islam degli antenati (salaf) delle prime generazioni dell’Islam, costituendo così la versione sud-asiatica del salafismo islamico. L’altra tendenza anti-conformista è quella dei modernisti, che non solo rifiutano la tutela degli ulema ma domandano anche una limitazione del religioso alla sfera privata. Il loro leader, Sayyid Ahmad Khan (1817-1898), raccomanda inoltre di conciliare lo studio della legge islamica con quello dell’inglese e delle scienze esatte, elaborando anche un’innovativa teologia razionalista. Esattamente come per i deobandi, l’insegnamento rappresenta una parte importante del suo progetto di riforma. Nel 1875 fonda ad Aligarh il Mohammedan Anglo-Oriental College (che nel 1920 diventerà l’Aligarh Muslim University), un’università all’inglese dalla quale usciranno generazioni di intellettuali occidentalizzati. Molti di questi si uniranno successivamente al movimento separatista che porterà alla creazione del Pakistan. Infine la Nadwatu’l ulama, fondata nel 1892 da Muhammad Ali Monghiri (1846-1927) aspira a conciliare le diverse tendenze del riformismo modernizzando l’insegnamento islamico. Tuttavia tali tentativi andranno incontro al fallimento e gli ulema della Nadwa diventeranno rappresentanti di un riformismo conformista.

L’inizio del Novecento fu segnato dall’introduzione di due tipi di innovazione: il proselitismo e il progetto di Stato islamico, pietre angolari dell’attivismo islamico contemporaneo. Questi progetti erano sostenuti rispettivamente da due movimenti: la Tablighi Jama‘at e la Jama‘at-i Islami. La prima, il cui nome stesso significa “predicazione” (tablîgh), viene fondata nel 1927 da Muhammad Ilyas (1885-1944), un ‘alim della galassia di Deoband che, attraverso la predicazione, intese rispondere alla concorrenza nata nella prima metà del XX secolo tra indù e musulmani per guadagnare o riguadagnare convertiti. La seconda è creata nel 1941 da Abul Ala Mawdudi (1903-1979), il più importante teorico della nozione di Stato islamico. Rifiutando l’autorità degli ulema tradizionali, Mawdudi difende l’idea che l’Islam rappresenti un quadro di riferimento per tutti gli ambiti della vita sociale, politica e individuale. La presenza britannica in India contribuisce a politicizzare la sua visione dell’Islam, che egli erige a fondamento ideologico dello Stato. Il progetto annunciato da Muhammad Ali Jinnah nel 1940 di formare uno Stato separato per i musulmani, fondamentalmente laico, incoraggia Mawdudi a creare per reazione, l’anno successivo, un movimento politico-religioso, la Jama‘at-i Islami, la cui missione è formare un élite composta da uomini pii e “virtuosi”, incaricati d’impegnarsi in campo politico e sociale per fondare uno Stato islamico universale.

 

Attivismo a tre dimensioni

Lungi dallo spegnersi con la fine della colonizzazione britannica, l’attivismo dei movimenti riformisti continuerà a svilupparsi nei tre Paesi nati dalla partizione del 1947 – l’India, il Pakistan occidentale e il Pakistan orientale, che nel 1971 diventerà il Bangladesh – trovandosi questa volta a dialogare con la modernità post-coloniale. Questo attivismo può essere declinato in tre forme, quietista, politica e jihadista, con variazioni abbastanza significative secondo che l’Islam sia maggioritario o minoritario. Lo stesso movimento può privilegiare in un dato momento una forma di attivismo su un’altra, oppure combinare in modo sincronico o diacronico diverse forme di attivismo.

 

La linea quietista e il proselitismo

Il proselitismo è l’attività di punta dell’attivismo quietista e accomuna tutti i grandi movimenti riformisti, ciascuno dei quali adotta metodi di predicazione piuttosto diversi e dal successo variabile. Sia nei contesti di maggioranza che in quelli di minoranza il proselitismo è principalmente interno ed è finalizzato alla re-islamizzazione dei musulmani comuni attraverso la riforma delle loro pratiche in conformità all’ideologia propria del movimento.

Abbiamo visto che il movimento più emblematico di questo tipo di attivismo è la Tablighi Jama‘at, che non solo ha fatto del proselitismo la sua dottrina di base, ma che ha conseguito il successo più netto presso le popolazioni musulmane della maggior parte dei Paesi sud-asiatici. Fin dalle origini, questo movimento fondamentalmente pietista ha messo a punto tecniche molto precise: gli adepti devono consacrare una parte dettagliatamente definita del loro tempo ad annunciare in gruppo, di casa in casa, la parola di verità e a esortare i musulmani a vivere secondo i sei principi stabiliti dal fondatore del movimento (la professione di fede, le preghiere canoniche, la conoscenza e la memoria di Dio, il rispetto di tutti i musulmani, la sincerità dell’intenzione e la consacrazione di parte del proprio tempo al proselitismo). Poiché l’attenzione degli adepti deve concentrarsi unicamente sull’approfondimento della fede, è loro proibito d’intervenire nelle controversie religiose e di discutere di politica nell’ambito delle attività del movimento.

Anche gli altri movimenti riformisti, come gli Ahl-i Hadîth e la Jama‘at-i Islami, attribuiscono al proselitismo un ruolo di primo piano nelle loro attività. Il caso della Jama‘at-i Islami è particolarmente interessante. In India essa è costretta dalla condizione minoritaria dell’Islam a riorientare il programma, che originariamente mirava all’islamizzazione attraverso il controllo degli apparati statali, in direzione della riforma individuale dei musulmani per mezzo del proselitismo. In Pakistan, la delusione per le concessioni molto limitate dello Stato nel processo di islamizzazione delle sue istituzioni (cfr. infra) ha portato la Jama‘at-i Islami a ricentrare le sue attività sulla re-islamizzazione della società. A questo fine, la Jama‘at adotta, in India come in Pakistan, diversi metodi, come la diffusione capillare delle opere dei suoi principali ideologi, l’uso di nuovi mezzi di comunicazione, la creazione di sezioni studentesche nei campus universitari, la costituzione di circoli per lo studio del Corano o ancora l’attività caritativa. Per il suo carattere elitario, il suo impatto sulle società rimane tuttavia trascurabile.

Rispetto alle altre forme di attivismo, in India è l’attivismo quietista a prevalere, essendo l’Islam minoritario. Una forma di attivismo analogo si ritrova in maniera significativa anche in Pakistan e in Bangladesh, ma ciò che contraddistingue questi Paesi rispetto all’India è il fatto che qui l’attivismo politico – violento o non violento – è molto più sviluppato.

 

L’opzione politica

In Pakistan i movimenti islamici più importanti, i Deobandi e la Jama‘at-i Islami (ma anche i Barelwi che rappresentano l’Islam non riformato), si sono costituiti negli anni ’50 in partiti politici, dando vita a forme complesse e variegate di attivismo politico (partecipazione alle elezioni, mobilitazione delle piazze…). Questi gruppi militano principalmente a favore dell’applicazione della sharî‘a nella regolamentazione del diritto personale e nella codificazione del sistema giuridico del Paese. I loro risultati elettorali non sono molto significativi (mobilitano solo un quinto dell’elettorato circa), ma le pressioni che hanno esercitato sui vari governi che si sono succeduti nel tempo hanno generato una parziale islamizzazione delle istituzioni, simboleggiata in particolare dall’introduzione delle pene islamiche dette hudûd [pene corporali, N.d.T.]. Tra questi movimenti, la Jama‘at-i Islam, il cui progetto di Stato islamico è il più compiuto, ha svolto un ruolo di primo piano nei tentativi d’islamizzazione. Fino agli anni ’90 il successo di questi movimenti è stato legato alla loro strumentalizzazione da parte dei partiti laici, essendo l’Islam un’importante fonte di legittimazione politica. A fronte di un bilancio modesto nell’islamizzazione delle istituzioni, i movimenti islamisti come la Jama‘at-i Islam hanno in seguito riorientato le loro attività verso l’ambito sociale.

La lotta per l’applicazione della sharî‘a segue una logica di appropriazione dell’Islam da parte dei movimenti riformisti sunniti – i sunniti costituiscono l’80% circa dei pakistani – i quali pretendono di essere gli unici veri musulmani. Questa visione ha per corollario un militantismo ostile alle minoranze religiose (soprattutto cristiani) e settarie (sciiti duodecimani e ahmadi[3] in particolare), che si è tradotto nelle pressioni esercitate sullo Stato, dagli anni ’50 in avanti, per eliminarle. Esclusi dall’accesso alle cariche più alte dello Stato con la Costituzione del 1973, gli ahmadi sono stati dichiarati non musulmani da un emendamento del 1974 e un’ordinanza del 1984 proibisce loro di dirsi musulmani e praticare i riti islamici. Quanto ai cristiani (2% della popolazione), essi sono le principali vittime dei vari emendamenti alla legge sulla blasfemia, apportati dallo Stato pakistano su pressione degli islamisti.

In Bangladesh, dove il particolarismo bengali si è affermato a scapito dell’Islam, i movimenti islamisti sono comunque tornati nell’arena politica, in particolare attraverso la Jama‘at-i Islami, ma con scarsi risultati rispetto al Pakistan e pur avendo una notevole capacità di mobilitazione non sono riusciti a islamizzare le istituzioni. L’emarginazione delle minoranze religiose e settarie (dichiarare gli ahmadi non musulmani, per esempio) rappresenta una parte importante del loro programma.

In un contesto di minoranza invece l’attivismo politico gode di un margine di manovra molto limitato. Pertanto i partiti islamici che si sono formati nelle diverse regioni dell’India hanno avuto finora una rilevanza marginale perché i musulmani indiani hanno preferito rivolgersi ai partiti laici.

 

La modalità jihadista

La terza modalità di espressione dell’attivismo islamico nell’Asia meridionale è il ricorso a una violenza che gli attori hanno ricoperto di una patina islamica assimilandola al jihad. Questo è vero soprattutto per il Pakistan: se in un primo momento l’uso della violenza era limitato e puntuale (moti anti-ahmadi degli anni ’50, per esempio), alcuni decenni più tardi si è verificato uno slittamento verso una violenza eretta a principale modus operandi di alcuni gruppi. Questa terza modalità si è sviluppata principalmente in due ambiti che a volte si sovrappongono: il settarismo, che contrappone prevalentemente i sunniti agli sciiti, e i conflitti regionali in Afghanistan e nel Kashmir.

Di fronte al timore delle autorità pakistane che gli sciiti, dopo la Rivoluzione islamica del 1979, potessero finire nel girone dell’Iran, negli anni ’80 sono emersi alcuni gruppi radicali sunniti sostenuti dall’esercito e dai servizi segreti e sospettati di ricevere finanziamenti dall’Arabia Saudita. La guerra d’Afghanistan, che ha attirato molti jihadisti pakistani in erba, ha conferito una dimensione nuova all’idea di jihad in Pakistan, fino a quel momento riservata ai conflitti con l’India, trasformando organizzazioni militanti come il Sipah-i Sahaba (SSP), nato dal movimento Deobandi, in gruppi paramilitari guadagnati alla cultura del kalashnikov e influenzati dalla militanza dei talebani. Dopo l’11 settembre la violenza ha conosciuto una nuova impennata, alimentata dal sostegno di al-Qaida ai gruppi più radicali come il Lashkar-i Jhangvi (nato dal SSP). Queste violenze, che hanno mietuto migliaia di vittime, si traducono in attacchi contro le moschee sciite, omicidi di personalità importanti etc. L’attivismo jihadista si è sviluppato anche su un altro fronte, quello del conflitto in Kashmir, che oppone l’India al Pakistan fin dalla Partizione. Esso mobilita sia gruppi inizialmente attivi in Afghanistan come il Harkat-ul Ansar, sia organizzazioni sostenute dai servizi segreti pakistani e dall’esercito e create appositamente per condurre il jihad in Kashmir, come il Jaish-i-Muhammad, vicino al movimento Deobandi, e il Lashkar-i Tayyiba, legato all’Ahl-i-Hadith.

Nonostante alcuni gruppi pakistani abbiano aperto delle filiali in Bangladesh, l’attivismo jihadista qui è meno sviluppato in ragione della distanza dai focolai che alimentano la violenza islamista. Ciò non toglie tuttavia che alcuni gruppi come il Bangladesh Islami Chhatra Shibir, il ramo studentesco della Jama‘at-i Islami, abbiano spesso fatto ricorso alla violenza contro i loro oppositori musulmani e la minoranza indù, specialmente attaccando i templi di quest’ultima. La stessa Jama‘at-i Islami del resto si era distinta per le atrocità commesse durante la guerra d’indipendenza del Bangladesh, in cui si era schierata a fianco dei pakistani.

Quanto all’India, eccezion fatta per il Kashmir dove dagli anni ’90 il jihad si confonde con la lotta per l’autonomia, l’attivismo jihadista è comparso negli anni 2000 essenzialmente in reazione alle violenze perpetrate dai nazionalisti indù contro la minoranza musulmana. Questi attacchi sono spesso attribuiti agli Indian Mujahidin, un gruppo alquanto misterioso e sospettato di essere composto dagli elementi più estremisti dello Student Islamic Movement of India, organizzazione studentesca inizialmente vicina alla Jama‘at-i Islami indiana e che è andata radicalizzandosi in seguito alla distruzione della moschea di Ayodhya nel 1992[4].

 

Propagazione oltre i confini

L’influenza del riformismo sud-asiatico ha superato i confini della regione. Essa si è esercitata attraverso l’esportazione dei modelli di pietà e predicazione della Tablighi Jama‘at, diventata il più importante movimento missionario musulmano al mondo, attivo in diverse regioni, principalmente nell’Asia sud-orientale e centrale, ma anche in Africa e in Europa per mezzo delle diaspore che si sono insediate in queste regioni. Ulema come Abul Hasan Ali Nadwi (1914-1999), che nella tradizione della Nadwa si era impegnato in una vasta politica di traduzione di testi religiosi in arabo, hanno avuto un impatto significativo in Medio Oriente, mentre le idee di Mawdudi sullo Stato islamico e sulla legittimazione della violenza contro i regimi corrotti hanno esercitato un forte influsso sugli islamisti del Medio Oriente, come i Fratelli Musulmani in Egitto.

Il riformismo islamico nell’Asia meridionale, sfociato in un attivismo poliedrico e parzialmente dipendente dalla posizione maggioritaria o minoritaria dell’Islam, è dunque una realtà complessa, che implica attori con obiettivi e modalità di azione diversi e che gode di livelli d’influenza e di successo molto variabili. Se tutti questi movimenti sono accomunati dall’obiettivo di trasformare gli individui e la società, lo spazio riservato alla politica può variare notevolmente all’interno di essi. In epoca contemporanea occorre costatare che questo riformismo segue logiche che vanno al di là delle ideologie e nelle quali prevale la strumentalizzazione politica del religioso. Questo riformismo si distingue infine per una creatività che consente una diffusione oltre i confini sud-asiatici. Esso testimonia così la multipolarità dell’Islam e, se non una nuova centralità, almeno un’esplosione geografica, in forza della quale regioni diverse dal Medio Oriente offrono modelli esportabili, che circolano e vengono riadattati a nuovi contesti.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

 

Bibliografia essenziale

Mariam Abou-Zahab, Olivier Roy, Réseaux islamiques : la connexion afghano-pakistanaise, Autrement, Paris 2002.

Marc Gaborieau, Un autre islam : Inde, Pakistan, Bangladesh, Albin Michel, Paris 2007.

Christophe Jaffrelot (a cura di), Le Pakistan, Fayard, Paris 2000.

Denis Matringe, Un islam non arabe : horizons indiens et pakistanais, Téraèdre, Paris 2005.

 

Note

[1] Per motivi di spazio questo articolo tratterà esclusivamente del riformismo sunnita.

[2] Si veda l’articolo di Hamadi Redissi in questo stesso numero della rivista (N.d.R.).

[3] Il fondatore della setta degli Ahmadi, Mirza Ghulam Ahmad, si proclamò Mahdi (messia) suscitando l’ira degli ulema che vedevano in questa dichiarazione un modo di attribuirsi delle funzioni profetiche, laddove il dogma considerava Muhammad il “sigillo” dei profeti.

[4] La moschea fu distrutta da attivisti indù, che rivendicavano da tempo la “proprietà” del sito della moschea perché ritenuto il luogo natale del dio Rama (N.d.R.).

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Aminah Mohammad-Arif, Le vie della riforma in Asia meridionale, «Oasis», anno XI, n. 21, giugno 2015, pp. 24-32.

 

Riferimento al formato digitale:

Aminah Mohammad-Arif, Le vie della riforma in Asia meridionale, «Oasis» [online], pubblicato il 12 giugno 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/le-vie-della-riforma-asia-meridionale.

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