Nel giugno del 2015, l’associazione islamica Maqâsid ha promosso la stesura della Dichiarazione di Beirut sulle libertà religiose. Uno dei suoi estensori denuncia l’estremismo che, cacciando i cristiani, distrugge il Medio Oriente

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Ultimo aggiornamento: 22/09/2022 17:29:00

Nel giugno del 2015, l’associazione islamica benefica Maqâsid ha promosso la stesura della  Dichiarazione di Beirut, un documento che si prefigge di contrastare la violenza religiosa e promuovere una cultura islamica illuminata. Uno degli estensori denuncia le nozioni brandite dall’estremismo eversore sia contro i cristiani che contro i musulmani. Lo fa a partire da un’interpretazione conciliante dell’Islam. E dalla convinzione che i musulmani abbiano bisogno dei cristiani (e viceversa) per vivere.

La preoccupazione che oggi attanaglia i cristiani orientali non è infondata. Essa è una reazione ai tragici eventi che hanno scosso molti Paesi arabi, e di cui sono stati vittime i cristiani. Per la loro fede sono stati uccisi, costretti all’emigrazione, fatti prigionieri e privati dei loro luoghi di culto, delle chiese e dei monasteri. All’ondata di estremismo religioso, con la sua violenza e l’estensione del suo dominio su vaste aree (dell’Iraq e della Siria in particolare), ma soprattutto con i suoi slogan takfiristi ed eversori, non è corrisposta un’ondata islamica di segno contrario capace di rispondere con forza sul piano giuridico e pratico. Ciò ha accresciuto nei cristiani un sentimento di frustrazione e timore per il loro futuro e destino. La colossale emigrazione verso l’estero che ne è seguita è un fenomeno che non ha precedenti nella storia moderna delle relazioni islamo-cristiane. Dalla metà del XX secolo a oggi la percentuale dei cristiani presenti nell’Oriente arabo si è più che dimezzata e l’emorragia è destinata ad aggravarsi se l’estremismo eversore continuerà a crescere. Sono molteplici le ragioni della preoccupazione dei cristiani. La più importante di queste è legata alle nozioni religiose brandite dai movimenti estremisti islamici, che le considerano tra le costanti del credo islamico, ciò che di fatto non sono.

 

Dhimma vs. cittadinanza

Alcuni movimenti islamici estremisti negano la fede di cristiani ed ebrei sulla base dell’errata comprensione di due versetti coranici: «In verità la Religione, presso Dio, è l’Islam» (3,19) e «chiunque desideri una religione diversa dall’Islam, non gli sarà accettata da Dio» (3,85). Ciò avviene attraverso una visione esclusivista della fede in Dio, che viene circoscritta al solo messaggio di Muhammad. In verità questa comprensione errata allontana gli stessi movimenti islamici dallo spirito dell’Islam e dall’essenza del testo coranico. L’Islam infatti è abbandono all’unico Dio. Alla luce di questa precisazione, essere musulmani non significa credere esclusivamente in ciò che ha rivelato Muhammad. L’essenza dell’Islam è credere in tutti i profeti e in tutti gli inviati, da Abramo a Muhammad, e in tutte le scritture celesti che sono state loro rivelate in quanto scritture ispirate da Dio, in particolare il Vangelo e la Torah che, ricorda il Corano, contengono «retta guida e luce» (5,44.46).

La dhimmitudine non è una nozione coranica e tanto meno uno statuto religioso. Essa è un “patto” civile concluso (in un dato periodo) tra due parti: i musulmani al potere e i cristiani protetti. All’epoca in cui i musulmani hanno istituito questo sistema non ne esisteva uno migliore e più equo per regolare la convivenza con i non-musulmani. Oggi invece esiste il concetto di cittadinanza. Nel periodo mamelucco e ottomano questo patto ha suscitato malcontento perché faceva del cristiano un cittadino di seconda classe e, nel quadro da esso stabilito, il cristiano era attaccato nella sua dignità e privato dei suoi diritti. Rievocare oggi questa nozione equivale ad auspicare il ritorno a quegli eccessi disumani, incivili e irreligiosi. Per questa ragione i cristiani vedono nella dhimma un attentato al patriottismo e alla convivenza. E hanno ragione. La dhimma è una nozione anacronistica e non ha più valore da quando gli stessi contraenti hanno sciolto il patto su cui essa si fondava ed è nato lo Stato nazionale, fatto da musulmani e cristiani insieme. Con il consolidamento della nozione di cittadinanza, che garantisce l’uguaglianza tra i cittadini a prescindere dalla religione, dalla confessione, dalla razza e dal genere la dhimma diventa un fatto storico, non una norma definitiva e stabile. Va da sé che superare la dhimma non significa superare la sharî‘a islamica né tanto meno la dottrina islamica. La dhimmitudine è una pagina triste di una lunga storia che ha visto periodi luminosi e periodi bui, come sottolinea l’Esortazione Apostolica sul Libano del 1995.

 

Cristiani orientali: crociati conquistatori?

Ogni volta che sorge un problema politico che coinvolge dei cristiani, che si tratti di un partito o di un’autorità politica o religiosa, vengono loro rinfacciate le crociate in modo da diffamarli, danneggiarli e screditarli. Ma la realtà è che le crociate in Oriente non furono operazioni di proselitismo cristiano. Si trattò di campagne espansionistiche condotte dall’Occidente sotto l’insegna della croce per liberare Gerusalemme dai musulmani. Lo prova il fatto che le prime vittime di quelle campagne furono i fedeli delle Chiese orientali e gli ebrei, da Costantinopoli alla stessa Gerusalemme. I crociati hanno distrutto chiese, ucciso monaci e sacerdoti, dato alle fiamme paesi e villaggi cristiani abitati da gente pacifica. Il papa copto Shenouda mi disse un giorno che la Chiesa copta ha canonizzato alcune suore uccise dai crociati. Gli storici arabi capirono presto come stavano realmente le cose e infatti definirono queste spedizioni «campagne franche». Essi sapevano che i cristiani orientali erano stati vittime di queste campagne tanto quanto i musulmani.

Allo stesso modo, ogni volta che scoppia una crisi nelle relazioni tra gli arabi e gli Stati Uniti o con qualsiasi Stato europeo, i cristiani arabi vengono accusati di essere una quinta colonna del nemico occidentale contro i musulmani e gli arabi. L’origine di questo errore, anzi di questo vero e proprio peccato, sta nella confusione che si genera nelle menti degli estremisti islamici tra le nozioni di Occidente e Cristianesimo. Così essi immaginano che il Cristianesimo orientale sia un’estensione dell’Occidente, la sua punta di lancia, o che i cristiani orientali siano ciò che resta dei crociati conquistatori. Due fatti smentiscono questa visione. In primo luogo l’Occidente ha rinunciato al Cristianesimo, recidendo il suo legame culturale con la religione e ponendo la laicità a fondamento delle sue società. Quando l’Occidente si erge a difensore dei diritti dei cristiani orientali infatti non si muove in un’ottica di fede, quanto in un’ottica di sfruttamento per difendere i propri interessi. In secondo luogo, i cristiani orientali hanno preso posizione contro il colonialismo occidentale e l’occupazione sionista, come testimoniano i movimenti nazionali in Libano, Siria, Egitto, Iraq e Giordania, ma soprattutto in Palestina, guidati da cristiani o ai quali i cristiani hanno partecipato.

 

Takfîr e dignità umana

La reticenza sul takfîr [anatema, NdR] rivolto contro i non-musulmani rappresenta la base che consente poi di pronunciare l’anatema anche contro i musulmani. Tale anatema si estende fino a colpire i musulmani della stessa confessione solo perché esprimono un’opinione politica o personale differente! Ma di fatto il nobile Corano descrive i cristiani come credenti e loda i suoi sacerdoti e i suoi monaci. Il Profeta Muhammad ha intessuto rapporti con loro, prima e dopo l’inizio della sua missione. Con loro ha concluso accordi sulla base del principio per cui «i nostri diritti sono i loro, i nostri obblighi sono i loro», e ha vietato di violare le loro persone, le loro chiese e i loro monasteri, definendoli dimore di Dio in cui risuona e si loda il Suo nome. Ciò trova conferma nel patto del Profeta con i cristiani di Najran, e nel patto di ‘Umar con il patriarca di Gerusalemme. La monopolizzazione della fede e l’esclusione dalla misericordia di Dio di chi aderisce a religioni e dottrine religiose diverse contrasta con la nozione islamica di fede, che si estende ad accogliere le Genti della Scrittura. Anzi, questa nozione non si limita ai cristiani e agli ebrei, ma può essere allargata anche ad altri. Infatti, come ha annunciato l’Altissimo nel Corano, Egli chiede conto solo dopo aver mandato un inviato, dopo cioè che agli uomini è resa evidente la via che conduce alla fede in Lui. L’Altissimo ha inoltre annunciato che molti profeti e inviati non sono menzionati nel Corano.

Gli estremisti limitano il diritto alla dignità umana al solo fedele musulmano. Per questa ragione essi non riconoscono ai cristiani, figli dell’unica patria e dell’unica famiglia araba, il diritto alla dignità. Ma il Corano recita: «E noi già molto onorammo i figli di Adamo» (17,70) a significare che l’uomo è onorato da Dio in quanto essere umano, non per la sua fede in una religione o per il suo credo. Dio ha scelto l’uomo (in assoluto) come Suo vicario sulla terra e non ha posto come condizione che esso fosse musulmano o fedele di una religione o dottrina particolare. Limitare la dignità a un gruppo definito di esseri umani è un’idea errata perché restrittiva. Essa contrasta con l’idea islamica aperta che fa della dignità un diritto di tutti gli uomini e un dono per tutti. E allora come garantire questi uomini, figli di un’unica nazione e di un’unica famiglia? Sono i diritti di cittadinanza a renderli tutti uguali senza distinzioni.

 

«Afferratevi tutti alla corda di Dio»

Il concetto di diversità, che secondo l’Islam sussiste e persiste per la volontà e la sapienza di Dio, contraddice l’idea del monopolio della verità reclamato dagli estremisti e dai fanatici, i quali considerano qualsiasi pensiero diverso dal loro come miscredenza e deviazione dalla religione. La diversità fra le persone è una realtà naturale. E Dio solo, nel giorno della resurrezione, giudicherà gli uomini tenendo conto di ciò su cui essi divergevano. Ne consegue che nessun essere umano ha il diritto di scrutare nella coscienza altrui per giudicarlo. Il giudizio spetta solamente a Dio ed è rimandato al giorno della resurrezione, come spiega chiaramente il testo coranico. È vero che l’Islam e il Cristianesimo divergono sulla comprensione e sulla definizione della natura dell’unicità divina, ma è altrettanto vero che nel Cristianesimo nessuno afferma più che Dio è il terzo di tre. Il Cristianesimo dice che Dio è uno, clemente e misericordioso.

Lo stesso Islam distingue tra una divergenza che esso stesso ha stabilito e che invita a rispettare e accogliere, e la frammentazione, che rifiuta e dalla quale mette in guardia. A questo proposito afferma il Corano: «Afferratevi insieme tutti alla corda di Dio e non disperdetevi» (3,103). Non ha detto “non vi sia divergenza tra voi”.

Non ci si può nascondere infine che i cristiani arabi e orientali mostrano grande preoccupazione per la sharî‘a poiché essa pone i non-musulmani al di fuori della sfera della cittadinanza, o li rende cittadini di seconda classe. Anche su questo i cristiani hanno ragione. In linea di principio, l’obbligo di applicare la sharî‘a islamica ai cristiani è in contraddizione con il testo coranico che recita: «Giudichi dunque la Gente del Vangelo secondo quel che Iddio ha ivi rivelato» (5,47). Dunque i trasgressori sono coloro che non hanno giudicato secondo ciò che Dio ha rivelato. Il nobile Corano non ha detto alla gente del Vangelo di giudicare secondo quanto Dio ha rivelato nel Corano! Alla luce di tutto ciò, come si può pensare di imporre la sharî‘a a chi non dovrebbe esserne soggetto, se l’Islam dice «a ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via» (5,48)? Come può una religione che professa la non-costrizione, come insegna 2,256, costringere i cristiani a seguire la sharî‘a?

 

Califfato: origini coraniche o post-coraniche?

Oggi poi, dopo l’avvento del cosiddetto Stato Islamico, è tornato di moda il richiamo al Califfato. Esso viene inteso come uno Stato religioso che emargina i cristiani. Tuttavia esso non è un’istituzione prevista dal Corano e neppure un lascito del Profeta. Fondamentalmente nell’Islam non esiste uno Stato religioso clericale, come recentemente ha ricordato anche al-Azhar. Il Califfato è un’istituzione sulla quale si è raggiunto un accordo in seguito alla morte del Profeta per dare autorevolezza al sovrano musulmano in quanto successore di Muhammad. I successori di Abû Bakr al-Siddîq, successore dell’Inviato di Dio, portavano il titolo di comandante dei credenti. Ancor prima della morte di Muhammad, i suoi compagni divergevano su chi e in che modo avrebbe dovuto assumere il potere dopo il Profeta. Non si sarebbero certo ritrovati a discutere se fosse esistito un testo sul Califfato. Tre dei quattro Califfi ben guidati (‘Umar, ‘Uthmân e ‘Alî)  morirono assassinati e le loro divergenze fecero esplodere una discordia (fitna) che ancora non si è risolta. Nel tempo le divergenze si sono moltiplicate e sono andate accumulandosi l’una sulle macerie dell’altra.

Per conferire una dimensione religiosa all’Impero ottomano, il sultano, che non era né arabo né discendente dei Quraysh, ricevette il titolo di califfo. Poi gli inglesi vollero punirlo per essersi alleato con la Germania nella prima guerra mondiale e provarono, senza successo, a costruire un altro Califfato nel mondo arabo o in India, che all’epoca era sotto il loro controllo. A questo punto si adoperarono per abolire il Califfato come istituzione. Ma l’Islam non venne abolito e rimase come religione protetta dalla volontà di Dio. Ciò prova che la caduta del sistema califfale non comporta necessariamente la caduta dell’Islam; e analogamente il ritorno al sistema califfale non comporta il ritorno dell’Islam. L’Islam non è un sistema politico per i musulmani, ma il messaggio del Signore dei mondi destinato a tutti gli uomini.

 

Islamofobia e cristianofobia

Il fenomeno del fanatismo e dell’estremismo, che tanto preoccupano i cristiani orientali, costituiscono la ragione principale della loro emigrazione. Oltre a intaccare i fondamenti fragili della cittadinanza, l’estremismo, con la sua deviazione dai fondamenti della sharî‘a e del diritto islamico e la sua pretesa di monopolio della verità, è un importante fattore che si aggiunge agli elementi politici ed economici responsabili dell’emigrazione di cui soffrono le nostre società nazionali.

Quest’emigrazione è in sé una delle cause dell’islamofobia, perché veicola in Occidente il messaggio che convivere con l’Islam non è possibile perché l’Islam rifiuta l’altro. L’Occidente risponde con la stessa logica: se l’Islam rifiuta l’altro, come può accettare noi? E se per sua natura non ci accetta, perché mai noi dovremmo accettarlo? Ne deriva che l’emigrazione dei cristiani dall’Oriente non provoca solo lo sfaldamento del tessuto sociale nazionale e la perdita di competenze culturali, scientifiche ed economiche uniche, ma danneggia anche la presenza islamica in Occidente e nel mondo, riflettendosi negativamente sulle relazioni islamo-cristiane in Europa, America settentrionale, Australia, Canada…., e accentuando il sentimento di rifiuto per l’Islam e la discriminazione verso i musulmani.

L’islamofobia ha delle ripercussioni nei Paesi musulmani in cui i cristiani orientali sono vittime, generando quella che può essere definita cristianofobia. E questo, come abbiamo detto, è dovuto alla mancata distinzione tra l’Occidente e il Cristianesimo. Ne deriva un incremento dell’estremismo non solo in Oriente ma anche in Occidente, ciò che pregiudica ulteriormente le relazioni islamo-cristiane.

Alla luce di tutto ciò non è possibile, o forse non è più possibile, curare isolatamente ognuno di questi  tre fenomeni poiché l’uno è conseguente e complementare all’altro. Arrestare l’emorragia dell’esodo cristiano – e questo è un obiettivo islamo-cristiano condiviso – è possibile solo a condizione di riuscire ad arginare l’estremismo e il fanatismo nelle società islamiche. I cristiani e i musulmani arabi e orientali hanno l’eccezionale responsabilità di custodire i rapporti islamo-cristiani mettendo da parte provocazioni reciproche. I cristiani possono veicolare al mondo un’immagine costruttiva di convivenza con i musulmani, ma perché questo sia possibile è necessario che essi vivano in patria in condizioni pacifiche e costruttive. Ma questo non può accadere se essi non godono dei diritti di una cittadinanza piena. Da parte loro i musulmani possono aiutare i loro concittadini cristiani a svolgere questo ruolo, ma per farlo devono a loro volta poter vivere in un contesto pacifico e costruttivo. Questo non è possibile se non si sradica la cultura del rifiuto dell’altro e non si favorisce la cultura del rispetto delle libertà individuali e collettive, ciò che consente di realizzare la piena cittadinanza dei diritti e dei doveri.

Le nostre società arabe lamentano una mancanza di democrazia e un eccesso di estremismo e fanatismo. L’assenza di democrazia imposta da regimi tirannici opprimenti contrasta con i requisiti necessari per gestire società plurali dal punto di vista religioso, confessionale ed etnico, rafforza il fanatismo, e soffia sul fuoco della divisione e della lacerazione. A farne le spese sono i diritti di cittadinanza e la libertà religiosa che essi implicano, che vengono sistematicamente violati.

In sintesi possiamo perciò affermare che i cristiani orientali sono cittadini originari e non casuali della regione. Essi non appartengono alla cultura occidentale, né sono un prolungamento politico dell’Europa, ma sono tra gli artefici della cultura araba, tra i custodi della sua lingua e tra i costruttori dei Paesi arabi e difensori della loro sovranità. La loro sofferenza è un aspetto di una sofferenza complessiva di tutti i popoli della regione. L’islamofobia occidentale genera una cristianofobia in Oriente, come reazione alle ingiustizie politiche e umane, evidenti nel caso nel sostegno occidentale a Israele. Questi due fenomeni negativi sono strettamente intrecciati, perché si sostengono l’un l’altro. L’unica via di uscita da questa situazione è la cittadinanza, con il rispetto dei diritti dell’uomo, delle comunità e il consolidamento dei rapporti islamo-cristiani a ogni livello.

Oggi questi rapporti attraversano una fase molto critica, che si manifesta come abbiamo detto nella massiccia emigrazione e nell’ascesa del fanatismo.

Opporsi con la buona parola all’ondata estremista è un diritto e un dovere. È un diritto della società e un dovere di ogni uomo di fede che aspiri all’unità, alla sicurezza e alla pace della sua società, sia in Libano che negli altri Stati arabi. In un’epoca in cui risuonano slogan fanatici, «assomiglia la parola buona a un albero buono, che ha radice salda e i rami alti nel cielo» (Cor. 14,24).

 

Rimanere sulla retta via

Il musulmano (e la musulmana) compiono quotidianamente le cinque preghiere. Il numero delle rak ‘ât [le prostrazioni compiute durante la preghiera rituale, NdR] previsto nelle preghiere è di almeno 17. Ad ogni rak‘ât il fedele recita la sura Aprente: «Guidaci per la retta via, la via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagano nell’errore!» Chi sono coloro sui quali Dio ha effuso la sua grazia? Chi coloro coi quali Dio è adirato? Chi coloro che vagano nell’errore? Dal contesto della sura è evidente che coloro sui quali Dio ha effuso la Sua grazia sono gli uomini che ha guidato sulla retta via, e che rimangono entro i limiti da Lui stabiliti. Di conseguenza coloro coi quali Dio è adirato sono gli uomini che hanno abbandonato la retta via e hanno oltrepassato i suoi limiti, mentre coloro che vagano nell’errore sono gli uomini che si sono radicalizzati, hanno abbandonato la via mediana e hanno ecceduto.

Recitare la sura Aprente a ogni rak‘a, a ogni preghiera, ogni giorno, è un obbligo saggio perché ricorda al fedele l’importanza di rimanere sulla retta via, senza uscirne mai per non essere tra coloro che vagano nell’errore, e senza rifiutarla mai per non essere tra coloro coi quali Dio è adirato. Ma l’Islam del XXI secolo soffre per il rafforzamento di chi si allontana – di coloro coi quali Dio è adirato e di quanti vagano nell’errore – rispetto alla comunità dei fedeli che si tengono ben saldi sulla retta via.

Il termine “rettitudine” (istiqâma) e i suoi derivati ricorrono nel nobile Corano 46 volte in 34 sure. La rettitudine alla quale l’Islam invita è legata alla fede e ne consegue poiché esprime la necessità di rispettare i valori e i principi islamici. Recita il nobile Corano: «In verità coloro che dicono: “Il Signore è Dio!” e su retta via camminano, su loro scenderanno gli angeli» (41,30). La fede è la porta d’ingresso della rettitudine. La rettitudine è il frutto della fede. L’allontanamento da questa strada genera smarrimento, la ribellione suscita l’ira divina.

Nonostante la comunità dei veri credenti sia di gran lunga maggioritaria, i fanatici levano sempre di più la propria voce, e i riottosi hanno un ruolo sempre più negativo. Questi due gruppi fanno dire all’Islam di se stesso e dell’altro ciò che esso non dice e questo danneggia l’immagine dell’Islam, le relazioni con il non-musulmano e perfino le relazioni con il musulmano di altre confessioni o addirittura della stessa confessione! In un hadîth autentico l’Inviato di Dio, la pace sia su di lui, dice: «La fede di un servo non è retta se non è retto il suo cuore. E il suo cuore non è retto se la sua lingua non è retta». Completa questo hadîth un altro detto. Alla domanda “chi è il musulmano?”, il Profeta risponde: «Il musulmano è colui che la gente non deve temere né per la lingua né per la mano».      

 

Cristiani e musulmani insieme nella diversità

Uscire dalla crisi di fiducia che ha scosso e dominato le relazioni islamo-cristiane è possibile riacquistando quello spirito conciliante – e non solo tollerante – che è proprio dell’Islam. Questa riscoperta è complementare alla riscoperta dello spirito del Cristianesimo sancito dal Concilio Vaticano II nella dichiarazione Nostra Aetate nel 1965.

Per la prima volta il Concilio ha manifestato non solo la sua stima per i musulmani, che professano l’unicità di Dio, onorano la madre del Messia e il Messia venerandolo come profeta, ma ha altresì dichiarato che «le divergenze con i musulmani costituiscono un pericolo per la fede nel Dio unico, il quale ha creato tutti gli uomini e li ha chiamati alla redenzione e alla felicità». Esso ha fissato un principio fondamentale:

La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.

È vero che, in Medio Oriente in generale ma in Libano in particolare, i musulmani e i cristiani vivevano già prima del Concilio Vaticano II sentimenti di fratellanza reciproca. Tuttavia il Concilio ha dato a questa fratellanza una base teologica, cosicché la fratellanza nazionale si è unita alla fratellanza di fede nell’unicoDio. Tale fratellanza non può essere solamente uno slogan, ma deve tradursi nell’atteggiamento individuale e collettivo e nella vita pubblica. Alla luce di questo si spiega l’insistenza dell’Esortazione Apostolica Ecclesia in Medio Oriente (n. 25) sul diritto e sul dovere dei cristiani «di partecipare pienamente alla vita della nazione, lavorando alla costruzione della loro patria», e sul fatto che «godano di piena cittadinanza e non siano trattati come cittadini o credenti inferiori».

Il musulmano in Medio Oriente, e in particolare in Libano, può fare a meno del cristiano per praticare i propri riti religiosi e consolidare la sua relazione spirituale con Dio. Nella stessa misura, o forse in misura maggiore, il cristiano può fare a meno del musulmano; ma nessuno dei due può fare a meno dell’altro nella sua vita. La vita infatti, come dice Martin Buber, è l’incontro con l’altro.

E l’incontro non avviene tra simili, avviene tra diversi.

 

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*Testo preparato per la Conferenza della Dichiarazione di Beirut, 20 giugno 2015
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