Intervista a Majed Hadj Ali a cura di Maria Laura Conte

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:54

«Non possiamo sorprenderci troppo di essere arrivati a questo punto». Majed Hadj Ali, avvocato del comitato centrale del Partito Repubblicano, con lo studio che si affaccia su Avenue Bourguiba, legge la notizia dell’assassinio di Chokri Belaid, esponente dell’opposizione della sinistra laica tunisina, con la rabbia e l’amarezza che sta attraversando tutto il Paese, ma anche con grande disincanto. Il suo partito fa parte, insieme a Nidaa Tunis e Al Massar, di una sorta di “troika” dell’opposizione, avviata ufficialmente poche settimane fa, che punta a ricucire la frammentazione dei partiti laici per guadagnare un migliore posizionamento alle prossime elezioni, a discapito le forze attualmente al potere. Mentre l’Università della Manouba ha sospeso le lezioni dopo la notizia dell’assassinio e in tutto il Paese si decidono scioperi a vari livelli, Majed Hadj Ali prova a descrivere la situazione attuale: «È vero, tutta la popolazione è rimasta sotto choc, perché un simile atto – l’eliminazione fisica a freddo, alla luce del sole, di un politico – ha scatenato la reazione del popolo che si è riversato in Avenue Bourguiba, nelle piazze, in tutto il Paese per dire no alla violenza di cui questo Governo è ritenuto l’ultimo responsabile. Ma l’omicidio di Belaid è l’esito del crescendo di violenza che si registra in Tunisia da mesi. Migliaia di persone, in tutto il Paese, operano nelle milizie della “Lega nazionale di protezione della rivoluzione”, che semina terrore in ogni città e villaggio. Si tratta di un’associazione ben strutturata, con rappresentanti nelle varie località. Per chi lavorano? Non è difficile dedurlo. Basta considerare che non hanno mai attaccato nessuno degli esponenti o delle sedi dei partiti di Governo. Si può capire vicino a chi siano, se non addirittura a chi rispondano. Mentre i partiti di maggioranza negano a parole questo nesso e non fanno nulla per fermarle, nell’attuale ambiguità queste milizie si rinforzano». Cosa si aspetta ora? «Già nel luglio scorso Hamadi Jebali, Presidente del Consiglio dei Ministri, aveva promesso un rimpasto del Governo. Ma nulla è stato fatto, nonostante le promesse ripetute e gli appelli. Fino a ieri. Jebali ha annunciato, dopo l’assassinio, che il governo attuale sarà sciolto per lasciare il posto a un governo di tecnici, non politico. Vedremo. Ritengo, infatti, che questa risposta sia arrivata troppo tardi. Sono mesi che il mio partito e altre voci indipendenti chiedono un’azione decisa del governo per fermare la violenza dilagante sulla scena politica. Ecco solo qualche esempio: alcuni esponenti della Lega sono entrati poco tempo fa nell’Assemblea Costituente durante i lavori, insultando i deputati; altri hanno attaccato i partiti che accusano di essere legati al vecchio regime; altri ancora hanno fatto irruzione al nostro ultimo congresso; a queste milizie è attribuita la responsabilità della morte, avvenuta dopo un pestaggio, di Lotfi Nakadh, dirigente locale del Partito Nidaa Tunis, nell’ottobre scorso, spiegata invece dal portavoce del Ministro dell’Interno come un attacco di cuore; sono seguiti anche altri due tentati omicidi contro due dirigenti del Partito repubblicano, Saïd Aïdi, ex ministro del lavoro, e Chedly Fareh. E ancora i ripetuti attacchi alle sedi del sindacato UGTT, un’istituzione centrale nella storia tunisina, riconosciuta da tutti come icona dell’indipendenza della Tunisia. Abbiamo chiesto al governo di sciogliere queste milizie, che sono contro la legge, ma nulla è stato fatto. Il punto è che non abbiamo a che fare con una violenza spontanea, come con attacchi ben organizzati, da mesi, secondo piani precisi». Il Governo tecnico promesso potrebbe far uscire la Tunisia da questa impasse politico-istituzionale e dalla violenza? «Ci hanno promesso un Governo tecnico, è vero, ma il presidente del Consiglio dei Ministri non ha ancora detto da chi sarà composto, come saranno scelti i ministri e quando diventerà operativo. E comunque sembra che Jebali manterrà il suo posto. Come giurista non posso non rilevare tutte le contraddizioni di questa situazione. Nell’attesa di chiarimenti e risposte certe, tutti i partiti della “famiglia democratica” hanno deciso di sospendere la partecipazione dei propri deputati ai lavori dell’Assemblea Costituente. Non possiamo legittimare con la nostra presenza questo modo di lavorare per la nuova Tunisia. Non stiamo definendo il contenuto di un semplice decreto, stiamo stilando una Costituzione che deve avere il consenso di tutto il popolo, deve valere per almeno i prossimi cinquant’anni, non può essere fatta a colpi di maggioranza. Si andrà molto probabilmente a uno sciopero generale, perché vogliamo un vero Governo tecnico indipendente, non altro». Vede il rischio di un ritorno al passato per la Tunisia? «No. Se una cosa è certa è che indietro non si può tornare. Vi è un ampio margine di libertà per la stampa e non mancano giornalisti coraggiosi che denunciano apertamente quello che sta accadendo. Non si può tornare indietro, il popolo non lo accetterebbe più, le élite neppure. Non si può sottomettere una rivoluzione. Il popolo tunisino voleva un Islam moderato e moderno e ha creduto alle promesse elettorali di An-Nahda, mentre il fronte democratico era troppo frammentato e ha permesso di fatto la vittoria degli islamisti. Oggi i tunisini stanno verificando che la disoccupazione non smette di crescere, che il costo della vita cresce, che le regioni povere sono sempre più povere, che non solo non vi è stata risposta alcuna all’emergenza economica, ma non si è intravisto neppure un inizio di risposta». Come si guarda alla vicenda egiziana da Tunisi? «Noi non siamo l’Egitto; le tradizioni, il popolo, la transizione, è tutto diverso. Le elezioni si faranno, ma non in queste condizioni. Se la Costituente agisce contro il bene di tutto il popolo, sarà fermata».