L’Abele coranico, che rifiuta di “stendere la mano” contro il fratello Caino, è per l’intellettuale siriano il fondamento di una teologia musulmana della nonviolenza

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:16

Violenza e religione. Negli ultimi anni questo binomio è diventato fonte di crescente attenzione. Nei giornali, in tv, nei dibattiti pubblici e nei circoli accademici sempre più spesso ci si interroga sul nesso tra l’appartenenza religiosa e il clima di terrore e diffidenza reciproca che si è diffuso a livello mondiale. Soprattutto dopo gli attentati del 2001, l’Islam è diventato l’oggetto principale di queste riflessioni. Poco è stato detto, invece, sull’altro lato della medaglia, cioè sulla nonviolenza nell’Islam. Tuttavia, è un tema esistente e che potrebbe contribuire a vivacizzare un dibattito che tende ad essere unilaterale. Lo stesso Papa Francesco, in occasione della 50° Giornata Mondiale per la Pace, ha ricordato il ruolo svolto dal musulmano Abdul Ghaffar Khan e dalla sua azione nonviolenta nella liberazione dell’India. Inoltre, anche i pochi studi esistenti sul rapporto tra Islam e nonviolenza chiamano in causa attori prevalentemente asiatici, mentre ben poco è stato prodotto sul mondo arabo-musulmano.

 

Jawdat Said.jpgÈ proprio nel contesto arabo, invece, che prende forma l’esperienza di Jawdat Said, intellettuale siriano contemporaneo, ideatore di una teoria sulla nonviolenza radicale basata sull’esegesi coranica, la tradizione islamica e la lettura dei fenomeni storici. Si tratta di un autore per lo più sconosciuto in Europa e relativamente poco noto anche in ambito musulmano, malgrado la rilevanza del suo apporto. Una rilevanza legata a molti fattori. Primo fra tutti la capacità di coniugare, nel pensiero e nell’azione, una novità interpretativa a un profondo senso di appartenenza alla propria fede e alla propria tradizione, che non subisce alcuna diminuzione o adattamento. Le riflessioni di Jawdat Said affondando infatti le proprie radici nei fondamenti della religione islamica, soprattutto nel Corano e nella Sunna. Il suo non è un tentativo di leggere la Scrittura con un’ottica occidentale, ma piuttosto l’elaborazione di un pensiero teologico-sociale alla luce di una rilettura spirituale, storica e linguistica del testo sacro e del mondo, opera prima di Dio. La duplice connotazione dell’intellettuale siriano, a cavallo tra tradizione e rinnovamento, riflette le influenze ricevute. Se inizialmente è il modernismo islamico ad attrarre l’attenzione di Said, attraverso le idee di Jamāl al-Dīn al-Afghānī e di Muhammad ʻAbduh, successivamente il suo interesse viene attirato dal riformismo critico di Mohammed Arkoun e Malek Bennabi, con la sua teoria della «colonizzabilità» dei popoli[1]. È proprio questa duplice connotazione a valergli le critiche degli uni e degli altri: se il riformismo lo annovera tra i ranghi degli islamisti, questi ultimi lo criticano per alcune delle sue posizioni distanti dalla tradizione.

 

Al contempo, nella profonda stabilità della sua identità religiosa e della sua fede, Said non teme la relazione con «l’altro», spingendosi a citare le fonti evangeliche a sostegno delle proprie teorie. Queste caratteristiche fanno del teologo siriano un autore particolarmente interessante, dal momento che il suo quadro di comprensione della religione è diverso dalla retorica dominante, ma rimane profondamente radicato nel pensiero islamico. Infine, la sua rilevanza non si limita all’ambito teorico, ma risiede anche nell’applicazione pratica, a livello sociale e politico, delle sue riflessioni. Un pragmatismo visibile attraverso il suo impegno nel dialogo interreligioso, in particolare con la comunità siro-cattolica di Mar Musa, e l’attivismo nella rivoluzione siriana del 2011. È in quest’ultimo contesto che le idee nonviolente di Said prendono concretamente forma: egli fu, infatti, il padre spirituale di diversi movimenti nonviolenti, in particolare a Darayya, nella periferia damascena, che divenne uno dei principali focolari del pacifismo militante[2].

 

Il metodo del primo figlio di Adamo

 

La storia di Jawdat Said ha inizio il 9 febbraio del 1931, a Beer Ajam, un piccolo villaggio del Golan siriano a maggioranza circassa. La pluralità culturale, sociale e religiosa che caratterizza la Siria ha una profonda influenza sulle idee di giustizia sociale e rispetto della diversità che sviluppa l’autore. Nella sua formazione, fondamentale è il trasferimento al Cairo, nel 1946, e gli studi alla moschea-università di al-Azhar, il più importante centro d’insegnamento del mondo musulmano sunnita. Al Cairo ha inizio l’elaborazione teorica del suo pensiero. Nella capitale egiziana, il pensatore siriano ha modo di avvicinarsi all’organizzazione dei Fratelli Musulmani, collocandosi in posizione critica rispetto a chi, all’interno del movimento, è favorevole all’uso della violenza. Il suo primo libro, Madhhab Ibn Ādam al-Awwal. Mushkilat al-ʻunf fī al-ʻamal al-islāmī (“La Dottrina del primo figlio di Adamo: il problema della violenza nell’azione islamica”), pubblicato in Siria nel 1966, nasce in risposta agli scritti di Sayyid Qutb, uno dei principali teorici dell’islamismo radicale, secondo il quale il Corano legittima l’impiego della violenza in nome di Dio[3].

 

Al modello che usa la violenza per imporre le proprie idee, Said contrappone quello coranico, giocando sul duplice significato della parola Āya, «segno/versetto» e portando a dimostrazione della propria tesi sia i segni che scorge nel mondo sia quelli rivelati dal Libro Sacro musulmano. È infatti a partire dagli eventi a cui assiste che il teorico siriano dà avvio alla sua riflessione nonviolenta. Ed è l’analisi degli avvenimenti storici passati che rafforza tale riflessione. Le conferme arrivano da uno studio approfondito del testo coranico, da non intendersi in senso letteralista: i versetti devono essere interpretati alla luce del Corano stesso e dell’evoluzione storica, perché «il giusto approccio è vedere la Storia e il testo rivelato come compagni inseparabili»[4]. L’una sostiene l’altro.

 

«Qual è il senso della bomba atomica, – scrive l’autore siriano – qual è il senso della caduta dell’Unione sovietica, che possedeva tante bombe atomiche da permetterle di distruggere il mondo trenta volte? E qual è il senso della rinascita del Giappone senza bomba atomica?»[5]. Secondo Said, questi eventi sono tutti segni da interpretare, così come lo è la successiva creazione dell’Unione Europea su basi pacifiche, in contrasto con il tentativo di occupazione violenta da parte di Hitler, peraltro fallito. L’UE ha dimostrato, afferma l’autore siriano, che può esistere un modo alternativo per raggiungere degli obiettivi politici, salvaguardando gli interessi di tutti: il metodo del primo figlio di Adamo, cioè di colui che decide di non rispondere al male con il male. La sua storia è contenuta nella sura al-Māʼida (5), dal versetto 27 al 32. Quando, di fronte alle offerte di sacrificio di Caino e Abele, Dio rifiuta quella dell’uno e accetta l’altra, l’invidia porta il primo a minacciare di morte il fratello. Quest’ultimo si rifiuta di rispondere alla violenza, dichiarando: «E certo se tu stenderai la tua mano contro di me per uccidermi, io non stenderò la mia mano su di te per ucciderti, perché temo Iddio, il Signor del Creato!» (Cor. 5,28).

 

La nonviolenza è, infatti, per l'autore il modo più efficace per rendere manifesta la giustezza della richiesta

 

In queste righe, secondo Jawdat Said, il Corano pone l’uomo davanti a una scelta esistenziale tra due possibili vie: la violenza di Caino o la nonviolenza di Abele. L’accento è sulla responsabilità individuale: «non c’è esitazione o dubbio nella posizione di Abele. Lui è determinato e vuole affrontare le conseguenze»[6]. L’intellettuale siriano fa di questi versetti la base di una teologia musulmana della nonviolenza, di cui Abele diventa il primo «martire» (dal greco «testimone»)[7]. Egli rifiuta il male in modo categorico, evitando così la confusione tra vittima e carnefice a cui potrebbe condurre il rispondere alla violenza con la violenza. L’omicidio appare in tutta la sua illegittimità e aberrazione. È come, scrive Said, se Abele dicesse al fratello: «Mi puoi uccidere ma non mi puoi trasformare in un assassino. […] Non farò della mia morte un assassinio legittimo»[8]. È in virtù di questo principio che l’intellettuale siriano, durante la rivoluzione siriana, insisteva affinché questa mantenesse il suo carattere pacifico. La nonviolenza è, infatti, per l'autore il modo più efficace per rendere manifesta la giustezza della richiesta. Proprio nella sua amata Siria, invece, si è avverata la confusione tra vittime e carnefici da lui predetta, quella confusione che lascia spazio a mistificazioni e manipolazioni. Di nuovo la storia conferma la teoria.

 

La guerra difensiva per la libertà

 

Se nella sua elaborazione teorica Said fa appello al Corano e alla Sunna, che dire allora di quei passaggi che incitano alla violenza? Come interpretare il fatto che lo stesso Muhammad ha combattuto nella sua vita? Il teologo del Golan si rifà a un’interpretazione storica della guerra nell’Islam. Egli, infatti, sottolinea come il profeta dell’Islam abbia iniziato a fare uso della violenza solo dopo il suo trasferimento dalla Mecca a Medina nel 622. E lo fa, scrive Said, in quanto capo politico, non come profeta. Nel primo periodo meccano, invece, l’autore racconta che Muhammad rifiutò il comando e cercò di diffondere le sue idee con la forza della persuasione. Egli vietò inoltre l’autodifesa, piuttosto spronando i suoi seguaci alla pazienza verso le persecuzioni subite. È la fase che Said definisce «dell’edificazione dell’uomo». A Medina invece venne fondato il primo Stato islamico, che seguiva gli insegnamenti del Corano e includeva anche i membri di altre religioni, secondo uno specifico accordo. È in questo momento che cominciano a essere rivelati i primi versetti riguardanti la guerra: i musulmani vennero autorizzati a usare la forza per difendersi dalle oppressioni. In particolare veniva dato «permesso di combattere a coloro che combattono perché sono stato oggetto di tirannia», vale a dire «coloro che sono stati cacciati dalla loro patria ingiustamente, soltanto perché dicevano: “Il Signore nostro è Dio!”» (Cor. 22,39-40). Siamo nella fase «dell’edificazione dello Stato». Secondo l’autore, la guerra è quindi legata a un’entità statale, l’unica in grado di invocarla[9], e il suo scopo è la liberazione dell’uomo da qualsiasi costrizione, soprattutto in termini di credo: il versetto afferma chiaramente che si tratta di un diritto concesso a chi è perseguitato per aver detto «il Signore è nostro Dio», quindi per aver proclamato la propria fede.[10] Non viene però specificato di quale fede si tratti, perché il Corano non dice che questa costrizione riguarda solo i musulmani. Secondo Said, al contrario i versetti coranici si riferiscono a tutti, di qualunque credo e cultura. Il rifiuto della costrizione, rafforzato dal versetto coranico «la ikrāha fī al-dīn» (“non c’è costrizione nella religione”, Cor. 2,256), porta a negare la necessità di uccidere l’apostata. A parere di Said, infatti, il versetto in questione è chiaro al riguardo e sostenuto da altri passaggi del Corano, in cui non si ordina di uccidere chi abbandona la propria fede, ma piuttosto si afferma: «chi vuole credere creda, e chi non vuole credere non creda» (Cor. 18,29). Il pensiero del teologo continuerà ad evolversi, fino ad arrivare ad una nonviolenza radicale e alla concezione della guerra come inutile anche in ottica difensiva.

 

La causa della violenza è l’ignoranza

 

Ma perché nel corso del tempo è prevalso il metodo di Caino? Said ci dice che alla base di questa violenza c’è l’ignoranza dell’uomo verso le leggi del cambiamento. Le persone, infatti, cambiano le proprie idee e prospettive solo quando si portano loro delle prove a fondamento di una determinata teoria: «con la persuasione l’uomo ti dà il suo spirito e i suoi beni, con la costrizione non ti dà altro che bugie, ipocrisia e inganno»[11]. Ecco perché per Said la violenza diventa inutile. Se l’uomo la usa, afferma, è solo perché non è consapevole di questa inutilità ed è incapace di far valere le proprie ragioni con la sola forza della dialettica. Alla base di quest’incomprensione c’è anche la mancanza di fiducia nel potenziale delle proprie idee e, allo stesso tempo, il non rispetto della diversità dell’altro. La forza appare allora come la via più semplice, ma diventa una sconfitta ideologica che non conduce ai risultati desiderati.

 

Tuttavia, l’uomo ha la possibilità di evolvere e combattere l’ignoranza. Quest’ultima ha, infatti, per l’autore, la forma di un virus responsabile della malattia della violenza[12]. Il paragone è con l’epoca delle grandi epidemie, la cui rapida diffusione dipendeva dall’ignoranza delle loro cause. In entrambi i casi l’antidoto esiste ed è la conoscenza. L’uomo ha infatti una forte propensione all’apprendimento. Di questa potenzialità conoscitiva parla lo stesso Corano, identificandola con la facoltà umana di nominare le cose. Una facoltà che non hanno nemmeno gli angeli (Cor. 2,31-33). Questa abilità permette all’uomo di arrivare alla conoscenza delle cose, in particolare del bene e del male, di nominarli e di essere cosciente delle conseguenze delle sue azioni. È in questo modo che l’uomo diventa capace di correggere i propri errori, abbandonando la legge della giungla e andando verso la sapienza di Dio. Come in passato le scoperte scientifiche hanno permesso di porre un argine all’espansione della peste, allo stesso modo, scrive Said, l’uomo saprà trovare la cura per la malattia della violenza. Ma per farlo dovrà tornare alla fonte della conoscenza, i testi sacri, in modo da poter compiere il bene e rifiutare il male.

 

La violenza di Caino nasce infatti dall’incapacità di assumersi la responsabilità dei propri errori

 

L’uomo ha, dunque, per l’intellettuale siriano, una grande responsabilità nel contribuire al cambiamento. Ma questo parte innanzitutto dall’individuo: il cambiamento per eccellenza è quello interiore. È la via della guarigione del cuore dalla violenza, intesa anche come violenza nei pensieri e nelle parole. Prima di concentrarsi sugli errori dell’altro, insiste Said, è fondamentale analizzare i propri. La violenza di Caino nasce infatti dall’incapacità di assumersi la responsabilità dei propri errori. Piuttosto che riflettere sul perché la sua offerta non sia stata accettata, preferisce incolpare il fratello, sfogando la sua rabbia su di lui:

 

La tua certezza di essere nel giusto e che gli altri sono nell’errore non basta perché avvenga il cambiamento, poiché è necessario che in te si realizzi un’altra certezza, ossia che chi erra ha il diritto di vivere nel suo errore e può cambiare solo se il cambiamento è soggettivo e se tu cambi quel che hai nel cuore convincendoti che lui ha il diritto a restare com’è[13].

 

Capire che è possibile convivere con l’errore, afferma Said, è liberante. È capire che se non do all’idea dell’altro, per quanto sbagliata possa essere, il diritto di vivere, nemmeno io avrò questo diritto. È anche la consapevolezza che l’errore non si corregge con la violenza, ma mostrando ciò che è buono, vivendo innanzitutto i principi che si proclamano in prima persona e lasciando che l’errore muoia di morte naturale. Non è uccidendo il malato che lo salverai.

 

Said si spinge oltre, affermando che il cambiamento è possibile solo se si riesce ad amare la diversità. Aprendo la propria interiorità all’amore si avrà infatti la possibilità di diffonderlo e produrre un reale cambiamento, perché «tu non risolverai il problema se non amerai colui che diverge da te»[14]. Com’è possibile arrivare a tanto? Per Said si tratta di separare la malattia dal malato, l’errore da chi lo compie: «una persona con idee malate non è una persona malata?»[15]. Le malattie dell’anima vanno quindi considerate come le malattie fisiche e quando una persona ha una malattia fisica, ci ricorda Said, continuiamo ad amarla mentre odiamo e combattiamo la sua malattia: «una persona malata di ignoranza e odio ha anche un terribile bisogno di amore e conoscenza, perché la conoscenza è amore e l’amore è conoscenza»[16]. È in questa separazione tra malato e malattia che egli arriva, citando anche il Vangelo (Mt 5,44) al concetto di amore al nemico, che ci eleva a un livello più alto: «Ché non sono cosa eguale il bene e il male, ma tu respingi il male nel modo migliore e vedrai allora che colui che era a te nemico, ti sarà caldo amico» (Cor. 41,34). È dunque attraverso il bene e l’amore donati al mondo che si ha l’occasione di trasformarlo, rendendo il nemico un amico intimo.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

[1] Si tratta di un termine coniato dallo stesso Bennabi che indica la permeabilità di una nazione al colonialismo.

[2] Jean-Pierre Filiu, Le nouveau Moyen-Orient. Les peuples à l'heure de la Révolution syrienne, Fayard, 2013, p. 130, 150.

[3] Jean-Marie Muller, Désarmer les Dieux. Le christianisme et l'islam face à la non-violence, Les Éditions du Relié, Gordes 2009, p. 562.

[4] Jawdat Said, The major stages in the intellectual progress, in «Interview with Current Islamic Issues», 2009, [consultato il 03/09/2018], https://www.jawdatsaid.net/en/index.php/1:_The_major_stages_in_the_intellectual_progress

[5] Id., Vie islamiche alla non violenza, Edizioni Zikkaron, Marzabotto 2017, p. 56

[6] Id., The return to the covenant of the prophets, in «Law, religion and the prophetic method of social change», 2009, [consultato il 24/08/2018],  https://www.jawdatsaid.net/en/index.php/THE_RETURN_TO_THE_COVENANT_OF_THE_PROPHETS

[7] Muller, Désarmer les Dieux, p. 563.

[8] Said, Prophetic Disobedience, in «Law, religion and the prophetic method of social change», 2009, [consultato il 24/08/2018], https://www.jawdatsaid.net/en/index.php/Prophetic_Disobedience

[9] Said, Vie islamiche alla non violenza, p. 22.

[10] Ivi, p. xxix-xxxiii.

[11] Ivi, p. 68.

[12] Muller, Désarmer les Dieux, p. 566.

[13] Said, Vie islamiche alla non violenza, p. 47.

[14] Ibidem.

[15] Said, Prophetic Disobedience.

[16] Ibidem.

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