Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:34

In Siria il campo di al-Hawl è oggi la casa di circa 70.000 persone, 20.000 donne e 50.000 bambini, mogli e figli di combattenti del sedicente Stato Islamico. Stipati in poco più di 10.000 tende, al-Hawl sembra «più una prigione che un campo profughi, dove il tema della sicurezza è più importante degli aiuti umanitari», dice Vivian Yee al New York Times. Eppure, nonostante il sovraffollamento, le scarse condizioni igieniche e le difficili condizioni di vita, nessuno è libero di andarsene: gli iracheni temono processi sommari in patria, i siriani non sanno dove andare e i 10.000 stranieri non vengono riaccolti dai Paesi di origine, eccezion fatta per Kazakhistan, Uzbekistan e Tagikistan.

 

Per quanto da sempre difficile, la situazione all’interno del campo è peggiorata dopo la battaglia di Baghuz e la sconfitta territoriale dell’ISIS. Al-Hawl è infatti stato ribattezzato Jabal Baghuz (“Monte Baghuz”) e l’area è da quasi subito sembrata essere una potenziale fucina di nuovi jihadisti. Come scrive Bethan McKernan sul Guardian, i 400 membri delle Forze Democratiche Siriane (SDF), per lo più curdi, faticano a controllare le dinamiche interne e a garantire la sicurezza. Il mese scorso una guardia delle SDF è stata uccisa e si sono registrati molti episodi di violenza: sassi e coltelli le armi più utilizzate. Ma ad al-Hawl non sono rari i casi di stupro, tortura e addirittura traffico di organi.

 

Nel campo un gruppo di donne, in particolare tunisine, somali e centrasiatiche, stanno ricostruendo la struttura e reimponendo le leggi dell’ISIS all’interno di al-Hawl. Il Washington Post ha dedicato un approfondimento sul tema, sottolineando come le donne non solo hanno rinstaurato un sistema di controllo e punizioni simili a quelli del Califfato, ma hanno anche iniziato a educare i propri figli secondo i dettami dell’ISIS. Come riportato da un cooperante di Save the Children, «i maschi sono molto aggressivi e le bambine sono state costrette a sposarsi presto e hanno subito violenze».

 

La guerra in Siria e il rischio di una nuova ondata migratoria

 

Sempre in Siria, ma nel nord ovest del Paese, si combatte invece un’altra battaglia, quella fra l’ultima sacca di resistenza al regime e le forze di Assad supportate dalla Russia. Secondo Michelle Bachelet, Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, gli attacchi aerei e di terra condotti da Assad e dai suoi alleati hanno ucciso 1.089 civili negli ultimi quattro mesi, solo considerando le province di Idlib e Hama. Come riportato su Al Jazeera, a preoccupare non è solo il bilancio delle vittime. Si stima che oltre 87 edifici scolastici siano stati distrutti da aprile e che più della metà dei bambini non ha accesso a nessuna scuola.

 

Il cessate il fuoco unilaterale promosso dalla Russia nella giornata di sabato ha avuto solo effetti limitati. Se i jet di Mosca hanno effettivamente sospeso i bombardamenti, le truppe governative hanno continuato gli attacchi via terra – otto fra ribelli e soldati sono morti martedì – e l’aviazione russa ha ripreso i voli di ricognizione nella giornata di mercoledì, secondo quanto riportato dal Syrian Observatory for Human Rights.

 

Per quanto una normalizzazione della Siria appaia ancora lontana, l’Economist ha cercato di approfondire cosa comporterebbe la probabile vittoria di Assad, che non coinciderebbe affatto con la pacificazione del Paese. Le problematiche si assesterebbero su quattro piani. Dal punto di vista religioso, le politiche confessionali di Hafez prima e Bashar dopo hanno creato malcontento nella popolazione sunnita, che conta ancora milioni di persone in Siria. Dal punto di vista economico, la Siria è in una condizione peggiore rispetto al 2011, con un PIL diminuito del 65% e costi per la ricostruzione stimati in 400 miliardi di dollari. C’è poi da considerare l’aspetto securitario, con Bashar al-Assad che ha costruito un radicato e diffuso sistema di controllo e che non si è mai fatto scrupoli a usare la violenza come deterrente contro ogni possibile oppositore. Infine, non va sottostimato il debito che la Siria ha nei confronti di Russia e Iran. 

 

Di fronte all’escalation degli ultimi mesi, anche Erdogan, sostenitore della causa ribelle, ha denunciato gli attacchi di Damasco e Mosca, promettendo di trattare la questione all’incontro con Russia e Iran che si terrà ad Ankara il 16 settembre.

 

Ciò che però preoccupa particolarmente Ankara è una nuova possibile ondata di rifugiati, qualora dovesse cadere la resistenza di Idlib. La Turchia infatti ospita già ora circa 3.5 milioni di rifugiati siriani e ha adottato misure severe per regolamentare l’immigrazione: solo ad agosto è stato negato l’ingresso a quasi 9.000 siriani. Come riporta la BBC, Erdogan ha apertamente richiesto all’Europa “supporto logistico” per gestire la possibile crisi, minacciando di «dover aprire i cancelli» qualora ciò non avvenisse. Già in passato l’Unione aveva concesso aiuti alla Turchia per circa 6 miliardi di euro affinché non lasciasse partire i migranti verso l’Europa.

 

E infatti la paura di un incremento incontrollato di rifugiati è condivisa anche dall’Europa, come viene analizzato in questo articolo di Foreign Policy. In particolare, viene posta l’attenzione sulla politica estera adottata dall’amministrazione Obama, che ha dapprima denunciato gli attacchi chimici di Assad senza però intervenire e che ha poi accettato «la narrazione del regime secondo cui la sua esistenza era fondamentale per limitare i jihadisti». Il regime siriano ha così potuto agire contro i ribelli, senza principali ostacoli e con l’aiuto di potenze straniere. L’articolo arriva così alla solo apparentemente paradossale conclusione che «per evitare l’indifferenza europea su quanto sta accadendo a Idlib, i siriani devono usare l’unica arma in loro possesso, ovvero minacciare che potrebbero muoversi verso l’Europa».

 

Un ritratto del potere in Turchia

 

Alla figura di Recep Tayyip Erdogan è anche dedicato un articolo sull’ultimo numero di Foreign Affairs. L’approfondimento sull’ascesa e sul governo del “mutaforma islamista” inizia con la ricostruzione della vita del giovane Erdogan, da semplice affiliato al Partito di Salvezza Nazionale di Necmettin Erbakan negli anni ’70 a personalità di spicco fra gli islamisti negli anni ’80, dove è stato abile ad avvicinarsi alla confraternita sufi della Naqshbandiyya. La svolta è però negli anni ’90, quando diventa sindaco di Istanbul per il Partito del Welfare, anche grazie a un’accorta strategia che univa un certo pragmatismo alla piena adesione all’Islam, ben rappresentata dalla sua dichiarazione «sono l’imam di Istanbul».

 

I tentativi di militari e laici di mettere fuori combattimento Erdogan alla fine degli anni ’90 non solo non hanno prodotto il risultato sperato, ma hanno anche rafforzato l’attuale Presidente, che ha tratto beneficio dall’immagine di perseguitato vulnerabile e meritevole di essere difeso.

 

La vittoria di Erdogan e del suo Partito di Giustizia e Sviluppo (AKP) alle elezioni presidenziali del 2002 hanno però rappresentato una svolta nella politica interna turca. Il timore di un possibile colpo di mano ad opera dei militari ha spinto Erdogan a ridimensionare il ruolo dell’esercito e soprattutto del Capo dello stato maggiore. L’opera di rinnovamento dell’apparato statale era però solo agli inizi. Nei primi dieci anni del 2000, la scarsità di personale altamente qualificato nelle file del neonato AKP ha infatti costretto il Presidente a esternalizzare parecchie funzioni statali, in particolare ad affiliati al movimento di Fetullah Gulen. Ma queste operazioni di outsourcing hanno il loro prezzo: oltre al rischio per Erdogan di perdere il controllo, molti esclusi dal nuovo assetto burocratico statale iniziavano a manifestare il loro malcontento. Per riaffermare il proprio potere a Erdogan restava una via: escludere i gulenisti dalla macchina dello Stato.

 

Una sezione successiva dell’articolo tratta invece la politica estera, evidenziando due fasi. In un primo momento, la Turchia si è impegnata a entrare nell’Unione europea e si è mostrata un affidabile membro della NATO. La nomina a Ministro degli esteri nel 2009 di Ahmet Davotoglu ha però simboleggiato la fine del sogno di una Turchia europea. La dottrina Davotoglu ha infatti convinto definitivamente Erdogan a presentarsi come leader del mondo musulmano, spingendo inoltre la Turchia verso Russia e Cina.

 

Il fallimento dell’esperienza islamista in Egitto, il rafforzamento del fronte curdo, le proteste di Gezi Park e l’inattesa vicinanza di Davotoglu – nel frattempo diventato Primo ministro – a certi leader europei hanno rischiato di minare le ambizioni presidenziali. Ciò che però poteva assestare il definitivo colpo di grazia a Erdogan, ovvero il tentato golpe del 2016, ha invece rappresentato l’occasione per accentrare ulteriormente il potere nelle proprie mani. Ne è un esempio il referendum costituzionale che ha trasformato la Turchia in una repubblica presidenziale.

 

Nonostante dunque la presidenza Erdogan non pare essere prossima a una fine, è rilevante prestare attenzione ad alcuni segnali che il «monologo propagandistico dell’AKP tende a nascondere anziché affrontare». Dal punto di vista politico, Erdogan deve ancora confrontarsi con alcuni islamisti disillusi dal progetto presidenziale. Ancora più allarmante è però la questione economica, con la lira che ha perso il 28% del suo valore in un anno e con un’inflazione del 30%.

 

Gli scontri a nord e a sud in Yemen

 

Si complica ulteriormente la situazione in Yemen. Come analizzato da Mathilde Blayo su La Croix, il già debole governo riconosciuto di Abd Rabbo Mansour Hadi è stato messo in difficoltà dall’avanzata del Southern Transitional Council (STC), un’organizzazione politica secessionista attiva nel sud del Paese. Spalleggiato dagli Emirati, il STC è stato in grado di prendere Aden, capitale provvisoria del Paese, e parte delle province di Abyan e Chabwa. Grazie all’aiuto dell’Arabia Saudita, a fine agosto le forze governative hanno riguadagnato terreno fino ad Aden, prima che ricadesse di nuovo nelle mani dei separatisti. Anche in questo caso è stato decisivo il supporto aereo emiratino, che è intervenuto per contrastare quelle che sono state definite “milizie terroriste”. Il panorama degli attori attivi a sud si è arricchito maggiormente questa settimana, come mette in luce Middle East Monitor. Nella giornata di martedì è stato fondato il Southern National Salvation Council (SNSC), un’altra organizzazione secessionista attiva però nella provincia orientale di Mahrah.

 

Nel frattempo, a nord gli houthi mantengono il controllo sulle principali città. La situazione però è tutt’altro che cristallizzata. Come nota François Frison-Roche, ricercatore del CNRS, «le forze presenti non sono organizzate come eserciti regolari, (…) ma cambiano costantemente le loro alleanze». Mentre gli houthi hanno colpito nelle scorse settimane almeno due impianti petroliferi sauditi, Riyadh ha bombardato una prigione controllata dai ribelli del nord, uccidendo almeno 100 persone.

 

Alla luce di questi nuovi sviluppi, si iniziano a intravedere crepe nell’alleanza saudo-emiratina. In realtà, è bene ricordare che già in passato si erano registrate alcune divergenze sul dossier yemenita. Come ricostruito su Reuters, la priorità per Riyadh è contrastare gli houthi, sia per la prossimità territoriale sia per la vicinanza dei ribelli con Teheran. D’altra parte, gli Emirati sono più interessati a limitare il partito Islah, espressione locale dei Fratelli musulmani e attualmente a sostegno del debole governo Hadi.

 

La situazione in Yemen ha anche risvolti globali, come evidenziato da The New Arab. Mentre Riyadh è il principale sponsor del governo riconosciuto dall’ONU e può beneficiare di un certo allineamento con Washington, Abu Dhabi, grazie al supporto per il STC, sembra avvicinarsi a Mosca. La Russia infatti, pur non schierandosi apertamente a favore del STC, trarrebbe vantaggio da una divisione dello Yemen, anche grazie agli storici rapporti con il sud del Paese. Al contrario, Arabia Saudita e Stati Uniti hanno da sempre avversato una divisione dello Yemen.

 

IN BREVE

 

Marocco: North Africa Post riporta che l’agenzia antiterroristica BCIJ ha arrestato cinque persone pronte ad affiliarsi all’ISIS.

 

Egitto: Abdullah Morsi, figlio venticinquenne dell’ex presidente Mohammad Morsi, è deceduto in un ospedale del Cairo per un presunto attacco cardiaco.

 

Afghanistan: Associated Press riporta la notizia di un attacco a Kabul rivendicato dai talebani.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oasiscenter
Abbiamo bisogno di te

Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.

Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!

sostienici