Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:20

Il 13 giugno due petroliere sono state colpite al largo del Golfo dell’Oman. Alle 6.12 la Kokuka Courageous, petroliera giapponese, battente bandiera panamense, salpata da Jubail (Arabia Saudita) alle 23:26 dell’8 giugno e diretta a Singapore, ha lanciato l’allarme per uno squarcio sul fianco, appena al di sopra della linea di galleggiamento, inizialmente ricondotto a delle piccole cariche esplosive poste sullo scafo. Questa ricostruzione degli eventi è però stata messa in discussione da Yutaka Katada, presidente della compagnia Kokuga Sangyo, che ha invece parlato di un oggetto volante che ha colpito la nave. Sempre secondo l’armatore giapponese, l’equipaggio avrebbe anche visto una nave militare iraniana vicino all’imbarcazione.

 

Alle 7.00 di giovedì 13 la Front Altair, petroliera norvegese, battente bandiera delle Isole di Marshall, salpata da Ar Ruways (EAU) alle 21.39 del 9 giugno e diretta a Kaohsiung (Taiwan), ha confermato di essere stata colpita, probabilmente da un siluro. Secondo Foreign Policy, i 21 membri dell’equipaggio della Kokuka Courageous sono stati messi in salvo dal cacciatorpediniere americano USS Bainbridge e i 23 marinai della Front Altair sono stati soccorsi da navi iraniane. Secondo i media vicini a Teheran, invece, tutti le 44 persone a bordo sono state soccorse dalla flotta iraniana e portati nel porto di Bandar-e-Jask.

 

L’attacco, a un mese di distanza da quello contro quattro petroliere al largo di Fujairah, ha fatto aumentare i prezzi del greggio fino al 4,45% e ha portato l’International Association of Independent Tanker Owners ad avvisare circa i rischi di una possibile escalation militare, sottolineando come «il 30% del petrolio passa da queste acque. Se diventano insicure, il rifornimento ai Paesi occidentali è in pericolo».

 

Gli Stati Uniti hanno fin da subito puntato il dito contro l’Iran. Il Segretario di Stato Mike Pompeo ha rilasciato una dichiarazione in cui incolpa esplicitamente l’Iran. Pompeo non ha fornito prove, ma ha parlato di informazioni non meglio specificate raccolte dall’intelligence. A supporto di questa tesi, lo USCENTCOM ha diffuso un video in bianco e nero di una piccola imbarcazione, indicata come iraniana, che rimuoverebbe dell’esplosivo non detonato dalla Kokuka Courageous. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo anche la delegazione americana alle Nazioni Unite che, dopo una riunione nel pomeriggio di giovedì, ha confermato la linea di Pompeo e ha invitato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a tenersi pronto per intervenire sulla questione. Infine, nella giornata di venerdì, anche il Presidente Donald Trump, intervistato da Fox News, ha identificato nell’Iran il responsabile degli attacchi.

 

Altre voci dagli Stati Uniti si sono mostrate più prudenti, anche alla luce del fatto che manchino prove schiaccianti contro Teheran. Un gruppo di senatori, guidati dal democratico Ro Khanna, ha sottolineato come una guerra con l’Iran rappresenterebbe «un errore strategico imperdonabile e incostituzionale», poiché una dichiarazione di guerra necessiterebbe l’autorizzazione del Congresso.

 

Come era facile immaginare, l’Iran si è subito distanziato da quanto accaduto. Lo speaker del Parlamento, Ali Larijani, ha parlato di ostilità costante e inattendibilità da parte degli Stati Uniti. Il Ministro degli Esteri Javad Zarif ha suggerito la possibilità che dietro l’attacco vi siano i nemici dell’Iran che vogliono aumentare le tensioni, ribadendo di conseguenza la necessità di un dialogo regionale. Zarif nota inoltre come le petroliere, entrambe legate al Giappone, siano state colpite proprio mentre il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe era a Teheran per mediare fra Stati Uniti e Iran. La conclusione logica, secondo Zarif, è che un attacco alle imbarcazioni è nell’interesse di chi non intende giungere ad alcun accordo.

 

Gli analisti hanno avanzato diverse ipotesi di quanto accaduto. Per Mohammad Marandi, intervistato da TRT World, l’attacco potrebbe essere una risposta alle brutalità commesse in Yemen da Arabia Saudita ed Emirati. Sempre Marandi, insieme a Giorgio Cafiero, nota come non sia da escludere l’ipotesi di un’operazione false flag ordita dalle monarchie del Golfo per incolpare l’Iran e aumentare così la pressione esercitata dagli Stati Uniti.

 

Bloomberg evidenzia come non si può ancora escludere nulla. Da un lato l’Iran, soffocato dalle sanzioni, dimostrerebbe con questi attacchi di poter influenzare il commercio mondiale di petrolio. Non si vedevano così tanti attacchi a navi commerciali nelle acque dello Stretto di Hormuz dal 2005. Ma quando si pensa ad attacchi alle petroliere, non si può non ricordare la cosiddetta Tanker War degli anni ’80, ricostruita in questo articolo del The New Yorker. Nonostante le differenze, ora come allora gli Stati Uniti sarebbero quasi obbligati a intervenire con la propria marina per difendere i propri interessi e le navi commerciali di passaggio, che come nel 1987 durante l’Operazione Earnest Will dovrebbero prima esporre la bandiera americana per beneficiare della protezione statunitense. Un’operazione del genere costerebbe molto a Washington in termini economici, senza considerare l’impatto che avrebbe sulla regione un reingaggio degli Stati Uniti di questo tipo. D’altra parte, incolpare l’Iran dell’attacco permetterebbe ai nemici di Teheran di passare da una guerra economica a una guerra militare, mettendo così in ginocchio la Repubblica Islamica.

 

 

Fermento in Marocco

 

Dopo i moti che hanno investito il Sudan e le proteste che si sono levate in Algeria, anche il Marocco sta attraversando una fase turbolenta. Le manifestazioni di fine aprile contro l’imprigionamento di alcuni esponenti del Movimento Rif – un movimento popolare nato a cavallo del 2016 e del 2017 in seguito alla morte di Mohcine Fikri, un pescatore ucciso dalle autorità locali dopo che gli erano stati sequestrati alcuni strumenti di lavoro – sono solo la punta dell’iceberg di quanto sta accadendo in Marocco. In questa settimana, per esempio, sono stati gli insegnanti a manifestare contro la riforma dell’educazione, che priverebbe loro dello status di dipendenti pubblici. Il nuovo contratto porrebbe gli insegnanti alle dipendenze delle amministrazioni regionali, limitandone così la mobilità. Come ricostruito dal World Politics Review, lo Stato, che aveva inizialmente reagito col pugno di ferro, ha ammorbidito la propria posizione, anche alla luce di quanto sta succedendo in Algeria. La monarchia non ha comunque cambiato posizione per quanto riguarda lo status di dipendente pubblico, irritando ulteriormente i manifestanti.

 

Come evidenziato da Middle East Eye, la peculiarità del sistema marocchino, la crisi socioeconomica, l’indebolimento del partito islamista di governo – il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo – e l’uso strumentale dell’apparato di sicurezza da parte della monarchia hanno preparato il terreno per un diffuso malcontento popolare.

 

Sono però tre i fattori che hanno scatenato le ultime dimostrazioni della popolazione: il ritiro di alcuni attori di mediazione, come le ONG e i sindacati; la ricomparsa di conflitti identitari e la repressione violenta da parte della polizia.

 

 

I foreign fighters dell’ISIS tornano in Francia e Stati Uniti

 

Ora che il sedicente Stato Islamico è stato sconfitto territorialmente, molti stranieri arruolati nell’ISIS cercano di tornare in patria, causando non pochi problemi ai governi dei Paesi d’origine. Secondo quanto scrive Jytte Klausen su Foreign Affairs, migliaia di miliziani jihadisti stranieri sono ora in mano alle forze curdo-siriane, in attesa di scoprire il loro destino.

 

Gli Stati Uniti hanno più volte messo pressione all’Europa affinché riaccogliesse e processasse i propri foreign fighters. Eppure gli Stati europei si sono trovati in difficoltà per tre motivi: in alcuni Paesi, come in Svezia fino al 2016, non era reato combattere per gruppi armati stranieri all’estero; è difficile raccogliere prove di quanto effettivamente compiuto da una singola persona; infine, la maggioranza dei Paesi europei non ammette una custodia cautelare preventiva superiore alle due settimane.

 

Una prima alternativa pensata dai governi europei è stata la delocalizzazione dei processi: chi commette reati in Siria o Iraq, va giudicato da corti siriane o irachene. Ma questa opzione si scontra con le leggi europee che vietano l’estradizione in Paesi in cui è in vigore la pena di morte o in cui non sono rispettati certi standard nelle prigioni. Un esempio in questo senso è rappresentato dalla condanna a morte di 11 cittadini francesi da un tribunale di Baghdad.

 

Una seconda soluzione è rappresentata dalla creazione di una corte internazionale, come successo per l’ex Jugoslavia. In questo caso però il rischio è di un procedimento farraginoso e senza fine.

 

Una terza ipotesi è la revoca dei passaporti, che risponderebbe a una duplice logica per gli Stati: vendetta contro chi aveva rinnegato la propria nazionalità per aderire all’autoproclamato Califfato e riduzione del carico di controllo da parte degli Stati su questi soggetti qualora ritornassero in patria. Quest’ultima ipotesi crea però tre problemi: gli Stati occidentali riconoscono la cittadinanza come un diritto inalienabile, la misura non porta nessuna forma di giustizia e infine non fa nulla per i bambini nati all’estero da combattenti dell’ISIS.

 

Proprio su quest’ultimo punto vanno però registrati alcuni progressi. Come ricostruito dal Soufan Center, gli Stati Uniti hanno rimpatriato la scorsa settimana due donne e sei bambini. Il Dipartimento di Giustizia ha adottato un protocollo alternativo per la gestione dei foreign fighters di ritorno: raccogliere prove rapidamente per poi indire il processo non appena i presunti miliziani vengono rimpatriati. Se da un lato questo è possibile visto il numero contenuto di combattenti di origine statunitense, dall’altro questo modus operandi rischia di contrapporre gli interessi di sicurezza nazionale a certi diritti individuali.

 

Allo stesso modo, la Francia si è attivata per riportare in patria 12 orfani di miliziani. Insieme ai bambini francesi, due orfani olandesi sono stati rimpatriati, dopo essere stati per mesi in custodia alle forze curde ad Ain Issa. Diversamente da Washington, l’Eliseo si è però opposto al ritorno delle donne.

 

Come ricostruisce il Guardian, al momento il Kazakistan, l’Uzbekistan e il Kosovo sono i Paesi che hanno accolto più combattenti jihadisti, seguiti da Norvegia, Russia e Sudan. Nell’attesa che i Paesi trovino una soluzione, la situazione nelle prigioni e nei campi profughi, soprattutto quello siriano di al-Hol, sta peggiorando rapidamente.

 

 

Arabia Saudita fra quadri e armi

 

Il 15 novembre 2017 il Salvator Mundi veniva battuto all’asta da Christie’s a New York per oltre 450 milioni di dollari, prezzo record per un’opera d’arte. Il quadro, per alcuni opera di Leonardo da Vinci, per altri prodotto della bottega vinciana, è stato acquistato dal principe saudita Bader Bin Abdullah, intermediario del Principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman. Il Salvator Mundi avrebbe dovuto essere un regalo per il Principe emiratino Mohammad Bin Zayed, che ne avrebbe fatto il pezzo forte del Louvre di Abu Dhabi. La presentazione dell’opera, in programma per settembre e poi per dicembre 2018, è stata a lungo rimandata, fino a che, nel gennaio di quest’anno, si erano completamente perse le tracce del quadro più costoso di sempre.

 

Nuove indiscrezioni arrivano però da Kenny Schachter, autore per Art Net News. Secondo alcune fonti anonime, il Salvator Mundi sarebbe sullo yacht Serene, l’imbarcazione privata da 500 milioni $ di MBS. L’opera dovrebbe restare a bordo fino a quando il progetto Al-Ula, lanciato dal Principe ereditario saudita nel febbraio 2019, sarà completato. Il piano prevede la costruzione di un resort firmato da Jean Nouvel e di una riserva naturale per la ripopolazione del leopardo arabo, a cui sono già stati destinati 20 milioni $. Il progetto mira a competere con i già quotati Louvre di Abu Dhabi e il Museo Nazionale di Doha, entrambi progettati dall’archistar francese. Questa tendenza mette in luce così come la competizione fra gli Stati del Golfo non si giochi solo sul piano militare – come le dispute in Yemen o in Sudan fra Emirati e Arabia Saudita – o sul piano del protagonismo regionale – come il blocco ai danni del Qatar orchestrato da Riyadh e Abu Dhabi.

 

Inoltre, un’iniziativa di tal genere si inscrive appieno nella Vision2030 lanciata da MBS, che aspira a ridurre la dipendenza del Regno dagli idrocarburi e a diversificare l’economia. Una ricerca condotta da Mark Thompson e Neil Quilliam, che verrà pubblicata sotto forma di libro a ottobre, evidenzia alcuni limiti della visione saudita. In un’anticipazione pubblicata su Chatham House, gli autori mettono in luce come la maggioranza dei giovani sauditi, soprattutto quelli che studiano materie classiche, preferiscano un impiego nel settore pubblico. Lo Stato saudita, grazie agli ingenti ricavi del petrolio, è stato in grado di costruire un enorme apparato statale, in grado di assorbire quasi tutta la forza lavoro del Regno. Diversificare significa infatti consentire a privati di affacciarsi sul mercato saudita, creando un ambiente più competitivo, ma anche più incerto.

 

In questa settimana dovrebbero andare in porto 22 accordi dal valore di 8 miliardi $ per trasferire armi americane in Arabia Saudita. Come sottolineato sul Washington Post, un gruppo di senatori democratici, insieme a quattro repubblicani, presenterà 22 mozioni per bloccare l’accordo. In particolare, i critici si oppongono al fatto che la vendita è giustificata «per motivi emergenziali», una mossa impiegata dall’amministrazione Trump per aggirare un possibile veto da parte del Congresso.

 

Qualora le risoluzioni per bloccare la vendita dovessero fallire, il repubblicano Todd Young e il democratico Chris Murphy hanno pensato a una soluzione diversa. Il trasferimento di armi potrebbe essere fermato richiedendo un resoconto circa la situazione dei diritti umani, un ambito in cui l’Arabia Saudita non eccelle, come sottolineato da Human Rights Watch.

 

Dopo le 37 esecuzioni eseguite a fine aprile e le 3 annunciate per le prossime settimane, a far discutere è ora la possibile condanna a morte del diciottenne Murtaja Qureiris. Il giovane è accusato di aver partecipato a moti anti-governativi nel 2010, quando aveva 10 anni, e a scontri contro le forze di sicurezza durante i funerali del fratello nel 2011. La CNN ha riportato per prima la notizia, svelando che il procuratore generale di Riyadh avrebbe già chiesto la pena capitale. Secondo l’accusa, Qureiris ha in sé «il germe della rivolta», e per questo andrebbe giustiziato, nonostante non abbia ucciso nessuno.

 

 

IN BREVE

 

- Yemen: secondo un report di Save the Children ripreso dal Guardian, 85.000 bambini sono morti di fame dal 2015.

 

- Siria: decine di chilometri quadrati di campi coltivati sono stati dati alle fiamme. Si sospettano affiliati dell’ISIS.

 

- Sudan: dopo la brutale repressione dei militari, i negoziati per la creazione di un governo di transizione dovrebbero riprendere con la fine degli scioperi dei manifestanti. Lo riporta la BBC.

 

- Algeria: l’ex premier Ahmed Ouyahia, dimessosi l’11 marzo, è in carcere per sospetta corruzione.

 

- Cina: come riporta Foreign Policy, la visita nello Xinjiang da parte di un inviato russo delle Nazioni Unite esperto di antiterrorismo ha suscitato preoccupazione da parte degli attivisti dei diritti umani, che temono che questo viaggio possa essere usato come propaganda per colpire ancora più duramente i musulmani uiguri della regione.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis