Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:47

Almeno 14 persone sono state uccise all'interno di una chiesa protestante durante la celebrazione della messa domenicale nella città di Hantoukoura in Burkina Faso, al confine con il Mali. Secondo quanto riferito dalle forze di sicurezza, fra le vittime del commando armato che ha commesso l’attentato vi sarebbero diversi bambini e il pastore della chiesa. Di fronti ai sanguinosi ma non nuovi fatti, ricostruiti dalla BBC, il Presidente Roch Marc Christian Kabore ha parlato di «un attacco barbaro», anche se non è ancora certa l’identità dei responsabili.

 

Il Burkina Faso è infatti teatro di numerosi attentati islamisti contro i cristiani dal 2015. Nell’ultimo anno sono oltre 60 i fedeli vittime di attacchi di matrice jihadista. Monsignor Justin Kientega, vescovo di Ouahigouya, è arrivato a parlare di una vera e propria persecuzione. Contattato da Aiuto alla Chiesa che Soffre, Kientega ha dichiarato che «da mesi noi vescovi denunciamo quanto accade in Burkina Faso, ma nessuno ci ascolta. Evidentemente preferiscono tutelare i propri interessi. […] Il mondo deve guardare a quanto accade in Burkina Faso e le potenze occidentali devono fermare chi commette questi delitti, anziché vendere loro le armi che usano anche per uccidere i cristiani». Monsignor Kientega ha aggiunto anche che «il livello di insicurezza è senza precedenti» e limita fortemente l’azione della Chiesa.

 

L’impennata nelle violenze degli ultimi quattro anni e il bisogno di contrastare i gruppi radicali hanno così spinto lo Stato a investire pesantemente nel settore della difesa, come ricostruito dall’Independent e analizzato nel dettaglio dall’Africa Center. Nel 2018, il Burkina Faso è arrivato così a dedicare alle spese militari oltre l’8% del proprio PIL, pari a circa 300 milioni di dollari con un incremento del 52% rispetto all’anno precedente. Eppure, la militarizzazione della società non sembra aver posto un freno alla spirale discendente in cui è precipitato il Paese.

 

L’India di Modi contro i musulmani

 

Il governo indiano ha approvato mercoledì un progetto per modificare la legge che stabilisce i criteri per l’ottenimento della cittadinanza, noto con la sigla CAB e già proposto dal governo guidato da Narendra Modi nel 2016, ma allora non approvato in parlamento. Come scritto da Gulf News, l’attuale legge, introdotta per la prima volta nel 1958, prevede vari tipi di cittadinanza, tra cui quella per nascita, per registrazione, per discendenza e per naturalizzazione. In merito a quest’ultima tipologia, la legge consente agli immigrati residenti di ottenere la cittadinanza se risiedono nel Paese per più di undici anni. L'emendamento, che verrà vagliato dal parlamento la prossima settimana, propone di garantire la possibilità di richiedere la nazionalità a induisti, buddisti, sikh, cristiani, giainisti e parsi in fuga dalle persecuzioni, riducendo il tempo di residenza in India a sei anni. Ciò che appare subito evidente, come mette in mostra Reuters, è l’assenza dei musulmani dall’elenco; un’omissioneche ha fatto parlare molti attivisti di una legge esplicitamente anti-musulmana.

 

Questo fatto rappresenta però solo l’ultimo capitolo della crescente discriminazione nei confronti degli oltre 200 milioni di musulmani indiani. Il New Yorker ha dedicato un pregevole approfondimento alle tensioni fra musulmani e induisti nel Paese e all’ascesa di Narendra Modi, che ha contribuito a trasformare l’India da democrazia laica a nazione esclusivamente induista, tradendo di fatto «l’armonia islamo-induista che era centrale nella visione dei fondatori dell’India». Eppure, il germe dell’esclusivismo induista ha radici più profonde: già nel 1925, Keshav Baliram Hedgewar, un medico dell'India centrale, aveva fondato il Rashtriya Swayamsevak Sangh, un'organizzazione dedicata alla costruzione di un’India induista. E il partito di Modi, il Bharatiya Janata Party (BJP), può essere considerato a tutti gli effetti il suo erede.

 

L’articolo ripercorre i principali momenti di attrito fra le popolazioni musulmane e quelle induiste, dalla distruzione della moschea Babri di Ayodhya del 1992 agli scontri, durati oltre tre mesi e costati la vita a 2000 persone, nel governatorato di Gujarat nel 2002, quando Modi era a capo della regione. Al racconto degli eventi storici vengono affiancati gli episodi della vita di Rana Ayyub, giornalista indiana musulmana e voce critica di Modi, paradigmatici del crescente sentimento anti-musulmano nel subcontinente indiano.

 

La voce di Ayyub è una delle poche fuori dal coro a raccontare gli eventi degli ultimi mesi in Kashmir, anche a causa del blocco di internet imposto dal governo. A emergere dai suoi racconti è una realtà diversa da quella veicolata dalla stampa indiana: «i soldati stavano in piedi in ogni angolo della strada. Le mitragliatrici sorvegliavano gli incroci e i negozi erano chiusi. A parte la presenza militare, le vie erano deserte». Anche le scuole sono state chiuse. Da un’intervista ad alcuni ragazzi musulmani si scopre addirittura che «i soldati incitavano a lanciare sassi contro la moschea»: chi non obbedisce può essere trattenuto dalle forze dell’ordine fino a due anni, grazie alla legge antiterrorismo indiana.

 

L’Arabia Saudita si riavvicina al Qatar?

 

Martedì prossimo si terrà a Riyadh il 40esimo incontro del Consiglio supremo del Gulf Cooperation Council (GCC), il terzo da quando nell’estate del 2017 Arabia Saudita, Emirati e Bahrein – tre dei Paesi membri del GCC – hanno isolato insieme ad altri Stati il Qatar. L’incontro di quest’anno, che ha l’obiettivo di esaminare «gli sviluppi politici regionali e internazionali, nonché la situazione securitaria nella regione e i suoi effetti sulla sicurezza e la stabilità dei Paesi del GCC», potrebbe rappresentare un’occasione di riavvicinamento, dopo che Re Salman ha invitato personalmente l’emiro qatariota Tamim bin Hamad al-Thani al meeting.

 

Nonostante l’emiro non abbia ancora confermato la propria presenza, la notizia è stata subito ripresa da molti media, come l’emittente qatariota Al Jazeera e il sito allineato al Regno Al Arabiya. Benché sia opportuno notare come l’invito dell’anno scorso del Re saudita fosse rimasto inascoltato da al-Thani, che aveva preferito inviare una delegazione capeggiata dal Ministro di Stato degli affari esteri, l’evento di quest’anno si inscrive in un momento di maggiore distensione. Lo dimostra la partecipazione alla Coppa del Golfo di calcio, in corso in Qatar, dei Paesi che hanno imposto il blocco a Doha.

 

Secondo quanto sostenuto da Al-Monitor, alla base di una possibile composizione della frattura vi sarebbero motivazioni economiche più che ragioni politiche e securitarie, come invece messo in evidenza da Limes. Se il Qatar si è mostrato un attore resiliente e capace di sfruttare i propri rapporti con altre potenze, i Paesi che hanno voluto il blocco, e in particolare l’Arabia Saudita, hanno dovuto affrontare alcune sfide non indifferenti. Il crollo dei pezzi del greggio del 2016, l’ambiziosa Visione 2030 lanciata da Muhammad bin Salman, le guerre regionali (in particolare lo Yemen), l’enorme spesa militare e i costi per assicurarsi una certa influenza nei think tank e circoli di Washington hanno costretto Riyadh a ridurre gli stipendi pubblici e a introdurre un’imposta sul valore aggiunto del 5%. Le misure di austerità fiscale pongono in seria difficoltài regimi del Golfo, i cui cittadini sono abituati a generose misure di welfare in cambio della fedeltà politica.

 

Inoltre, anche l’offerta pubblica iniziale (IPO) di Aramco, la compagnia petrolifera di Stato valutata da Riyadh 2000 miliardi di dollari, non ha suscitato l’entusiasmo aspettato, nonostante fosse limitata per ora agli investitori regionali. Come ricostruito da France 24, l’IPO avrebbe anche suscitato un dibattito nella sfera religiosa: mentre il chierico Abdullah al-Mutlaq ha riconosciuto come lecita la quotazione di Aramco, il chierico dissidente Abdelaziz al-Fawzan ha l’operazione non in linea con i principi coranici.

 

Come già notato a inizio novembre da Cinzia Bianco, l’atteggiamento saudita sta cambiando, ee il Regno sta mettendo da parte la sua politica estera assertiva e la sua spregiudicatezza a livello regionale. Fra le iniziative avviate da Riyadh per migliorare la propria reputazione , il New York Times si concentra sugli eventi sportivi utilizzati con finalità di “sportwashing”, pensati cioè per “ripulire la propria immagine attraverso lo sport”. Incontri di wrestling femminile, la Saudi Cup dell’ippica, un torneo di golf femminile, un gran premio di Formula E e la finale della supercoppa italiana di calcio sono solo alcuni esempi di questi tentativi di mostrarsi sotto una nuova luce di fronte al pubblico internazionale.

 

Infine, come evidenziato da Haaretz, il Principe ereditario deve agire rapidamente ed efficacemente per stabilizzare la propria posizione sia agli occhi di Washington, che si sta lentamente disimpegnando dalla regione, sia in Medio Oriente. Intanto l’Oman si sta riproponendo fortemente come facilitatore diplomatico – come messo in luce dall’Independent e come testimoniato anche dalla visita a Teheran del Ministro degli esteri omanita Yusuf bin Alawi – egli Emirati hanno preso le distanze dagli eventi yemeniti. Ed è proprio lo Yemen, nota sempre il sito israeliano, a essere diventato il più importante test diplomatico per MBS, dopo l’accordo siglato a novembre fra il governo di Hadi e il Southern Transition Council.

 

Le proteste in Iran

 

L’ondata di proteste che sta scuotendo il Medio Oriente si manifesta allo stesso tempo con tratti peculiari ai singoli contesti e con caratteristiche trasversali ai vari Paesi. Fra queste vi è una crescente disillusione nei confronti dell’Iran, come sottolinea il sito War on the Rocks, che a sua volta è attraversato da significativi moti di rivolta.

 

Le proteste sono iniziate nella Repubblica Islamica il 15 novembre e non si sono ancora placate. Michael Safi, inviato del Guardian, ha ricostruito i primi giorni dei moti a Shiraz. Alla base delle proteste vi sarebbe il taglio dei sussidi sul carburante: di fronte alla notizia migliaia di iraniani hanno così preso d’assalto le stazioni di rifornimento nella notte fra venerdì e sabato. Nella mattina di sabato le proteste sono continuate, ma in modo pacifico, con le macchine che occupavano le strade principali di Shiraz. Safi racconta di video in cui si vedevano gli iraniani giocare a carte e portare fiori alle forze dell’ordine giunte sul posto. È però nel pomeriggio di sabato che avvengono di fronte al comando della polizia i primi scontri e sparatorie, in cui si registra la prima vittima. Ha inizio così un’escalation della violenza che porta i manifestanti ad attaccare nella giornata di domenica la casa del chierico della moschea di Sadra, a nord-ovest di Shiraz. Solo l’intervento degli elicotteri di Teheran e dei Basiji sul terreno è riuscito a frenare le animosità.

 

Questo momento di sollevazione popolare non ha però solo fatto emergere il malcontento della popolazione. Come evidenziato da Al-Monitor, le frange più radicali del panorama politico iraniano hanno infatti colto l’occasione per distanziarsi dal Presidente moderato Hassan Rouhani, giudicato responsabile del taglio dei sussidi. La mossa, funzionale alle elezioni del prossimo anno, non sembra però aver avuto successo fra i manifestanti, che hanno mostrato sfiducia verso l’intero sistema di potere. Questa diffidenza verso l’élite politica è una prima caratteristica che differenzia le proteste di oggi dal Movimento Verde del 2009. Infatti, chi scende in strada oggi in Iran non si riconosce in nessun leader: già The Atlantic aveva dedicato un approfondimento a questo tema.

 

Rispetto alle grandi manifestazioni del 2009 vanno notate altre tre principali differenze: il coinvolgimento della classe operaia, tradizionalmente allineata al regime; l’aumento delle violenze, che hanno causato la morte di 208 persone (nel 2009 erano stati 72) secondo quanto riporta Amnesty Internationa e l’arresto di oltre 7000 manifestanti; l’esclusione di politici dell’establishment, mentre dieci anni fa in prima linea si poteva trovare l’ex Primo ministro e candidato sconfitto nelle elezioni del 2008 Mir Hossein Mousavi. Messo agli arresti domiciliari, Mousavi è tornato però a parlare al sito Kaleme, ripreso in inglese da Associated Press. Nelle dichiarazioni di sabato scorso, Mousavi è arrivato a paragonare l’Ayatollah Ali Khamenei allo Shah Mohammed Reza Pahlavi e la repressione delle forze di sicurezza a quel “venerdì nero” del settembre del 1978 giudicato un punto di non ritorno nei moti contro la dinastia Pahlavi.

 

IN BREVE

 

Libia: Ekathimerini e Al-Monitor approfondiscono le conseguenze dell’accordo del 27 novembre fra Ankara e il governo libico di Serraj che stabilisce nuovi confini marittimi tra i due Stati.

 

Iraq: come riporta la BBC, il parlamento di Baghdad ha accettato le dimissioni del Premier Abdul Mahdi.

 

Libano: sono iniziate le consultazioni per formare un nuovo esecutivo. Come sottolinea Al Jazeera, il nome di Samir Khatib è in prima linea, ma ancora osteggiato dalle piazze.

 

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