Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:27

Il 28 giugno era iniziato a Doha il settimo incontro fra americani e talebani per discutere il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan. La discussione è però stata sospesa il 7 e l’8 luglio, quando ha avuto luogo una due giorni intra-afghana, sempre nella capitale qatariota, fra i rappresentanti delle istituzioni afghane e una delegazione di talebani. Sponsor dell’iniziativa sono stati proprio il piccolo Emirato e la Germania.

 

Come ricostruito da Giuliano Battiston, i delegati di Kabul e i rappresentanti dei talebani hanno trovato diversi punti d’accordo: l’istituzionalizzazione di un sistema islamico, la riforma dell’esercito, l’avvio di un processo di pace sostenibile e la richiesta di non interferenza da parte di Stati stranieri. Nel testo finale c’è stato anche spazio per parlare della riduzione delle vittime civili; una dichiarazione d’intenti che stride però con l’attacco nella capitale afghana di due settimane fa che ha causato più di 40 morti e 100 feriti.

 

Le reazioni sono state per la maggior parte positive. Lo Speciale Rappresentante per la Riconciliazione in Afghanistan del Dipartimento di Stato americano, Zalmay Khalilzad, ha definito gli incontri «molto produttivi» per raggiungere la pace. Il New York Times riporta anche le dichiarazioni del membro più anziano della delegazione talebana, che ha parlato di «atmosfera di amicizia» e di «visioni condivise», e del capo della Commissione governativa afghana per il servizio civile, che ha riconosciuto come l’incontro abbia aiutato a chiarire le posizioni di ciascun gruppo. Anche il Washington Post propone alcune visioni positive, come quella espressa su Twitter da Fawzia Koofi, una delle sei donne nella delegazione di Kabul. Il quotidiano americano riconosce altresì certe problematicità, come appunto la volontà dei talebani di istituire un sistema completamente assoggettato alla legge islamica.

 

L’emiro del Qatar in visita a Washington

 

I colloqui di Doha sul futuro dell’Afghanistan sono uno dei motivi che avvicina il Qatar agli Stati Uniti, dove all’inizio di questa settimana si è recato in visita l’emiro qatariota Tamim bin Hamad al-Thani. Secondo Kristian Coates Ulrichsen, l’interesse di Washington nel piccolo emirato e la crescente opposizione americana al blocco imposto da Arabia Saudita, Emirati, Bahrein ed Egitto nel 2017 sono anche legati al ruolo di facilitatore che il Qatar, insieme a Oman e Kuwait, potrebbe giocare fra Stati Uniti e Iran.

 

Come però riporta Voice of America, durante la visita non si è ufficialmente parlato di una possibile mediazione guidata dal Qatar. Il viaggio è stata invece l’occasione per rafforzare i legami strategici, soprattutto nell’ambito della difesa. Doha si è così impegnata ad acquistare aerei e sistemi anti-missilistici americani. La cooperazione fra i due Stati ha riguardato anche lo sviluppo congiunto di un impianto petrolchimico in Qatar e l’ampliamento della base militare americana di al-Udeid.

 

Ed è proprio su questa base che si concentra un articolo sponsorizzato dal Qatar e pubblicato su Politico. Dopo aver presentato brevemente il progetto avviato nel 1996 e costato 1 miliardo di $, l’articolo sottolinea come al-Udeid, che ospita 11.000 militari americani, rappresenti un asset chiave per gli Stati Uniti in Medio Oriente, dalla War on Terror all’invasione dell’Iraq fino agli sforzi antiterroristici nella Penisola Arabica. Non mancano ovviamente accuse e critiche più o meno velate all’Arabia Saudita, come quando si sottolinea che Washington non può fidarsi di chi blocca 40.000 cittadini statunitensi in Qatar, costringendoli a volare nello spazio aereo iraniano per poter tornare a casa.

 

Gli Emirati si riposizionano in Yemen

 

Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno annunciato un ricollocamento strategico delle proprie truppe di stanza nella città portuale di Hodeidah, a Sarwah e in altre aree yemenite. Come riporta il Guardian, alcuni ufficiali emiratini hanno giustificato la decisione come prova dell’impegno degli EAU nel processo di pace promosso dalle Nazioni Unite e iniziato a Stoccolma nello scorso dicembre. Il ricollocamento stride però con le dichiarazioni di fine 2018 degli Emirati, che sostenevano che la presa di Hodeidah, fino ad allora in mano agli houthi, avrebbe messo in difficoltà i ribelli.

 

Altri ufficiali emiratini hanno smentito le voci, riportate la settimana scorsa da Reuters, secondo le quali la scelta sarebbe legata alle crescenti tensioni fra Iran e Stati Uniti, in modo che Abu Dhabi possa avere a disposizioni più truppe qualora esplodesse un conflitto fra Washington e Teheran. Sono state anche smentite le indiscrezioni su una possibile spaccatura all’interno del fronte saudo-emiratino, che però, come già evidenziato per noi da Eleonora Ardemagni, aveva mostrato qualche incrinatura.

 

La mossa di Abu Dhabi riguarda però solo le forze regolari dell’esercito emiratino. Come sottolineato su La Croix, in Yemen sono ancora attivi circa 400 mercenari sudamericani e 400 soldati eritrei addestrati dagli Emirati. In più, parte del ricollocamento in atto è solo tattico e può essere sospeso in ogni momento. Proprio per questo il sito Al Araby sostiene che l’idea della fine del coinvolgimento emiratino in Yemen sia solo un’illusione. Il riposizionamento sarebbe invece frutto di pressioni esterne, come la decisione da parte del Regno Unito di sospendere la vendita di armi alla coalizione anti-houthi, e pressioni interne, provenienti in particolare da tre punti. In primo luogo vi è il Presidente riconosciuto dalla comunità internazionale 'Abd Rabbih Mansur Hadi, poiché gli Emirati sostengono le forze separatiste del Southern Transitional Council (STC) invise al governo ufficiale; in secondo luogo si trova la comunità di Socotra, come dimostrano le manifestazioni contro la progressiva penetrazione emiratina nell’arcipelago; infine vi è la regione di al-Mahra.

 

Ed è proprio sulla rilevanza della regione di al-Mahra che si concentra una dettagliata analisi del Sana’a Center for Strategic Studies. Dopo una prima parte dedicata alla storia, alla società e all’economia del governatorato che oggi si stima ospiti 650.000 persone, l’attenzione viene posta sul periodo 2011-2019. In particolare è interessante notare come le potenze regionali, soprattutto dopo il 2015, abbiano mostrato un certo interesse per la regione. I primi sono stati gli Emirati, che hanno cercato senza successo di aprire una filiale locale del STC nel 2017. Il fallimento del tentativo è coinciso con l’arrivo delle forze armate saudite nel mese di novembre del 2017, ufficialmente per combattere il traffico di armi. L’invio di un nuovo governatore gradito al Regno nel gennaio 2018, la diffusione di un Islam di matrice wahhabita e la creazione di milizie armate vicine a Riyadh e di basi militari nella primavera del 2018 hanno fatto preoccupare molto una parte della società, che ha così dato origine a un movimento di opposizione. Se da un lato questo ha minato il tessuto sociale locale, dall’altro il gruppo d’opposizione di natura tribale è stato in grado nel corso dell’ultimo anno di limitare fortemente le ingerenze saudite nel governatorato.

 

I missili francesi in mano ad Haftar

 

Il ritrovamento di qualche settimana fa di alcune armi americane e di svariati droni cinesi in mano alle milizie del Generale Khalifa Haftar aveva suscitato parecchio clamore. Gli armamenti erano stati rinvenuti dalle forze del Governo di Accordo Nazionale (GNA) a Gharyan, avamposto strategico da dove l’Esercito Nazionale libico (LNA) lanciava attacchi su Tripoli.

 

Dopo i primi sospetti circa un coinvolgimento degli Emirati, il Dipartimento di Stato americano ha avviato un’indagine per capire la provenienza dei quattro missili Javelin. Come messo in luce dal New York Times, secondo gli americani i Javelin appartengono a una batteria di 260 missili venduta dagli Stati Uniti alla Francia nel 2010. Fonti anonime francesi hanno confermato l’origine, ma hanno precisato che i missili non erano funzionanti e attendevano solo di essere distrutti. Se però gli armamenti non erano stati dati alle forze affiliate all’LNA – si chiede Emanuele Rossi per Formichecosa stavano facendo a Gharyan i francesi? L’Eliseo, che ha sempre mostrato una certa vicinanza ad Haftar pur essendo parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che invece appoggia al-Serraj, è stato messo in imbarazzo dalla scoperta. Gli Stati Uniti proibiscono infatti la vendita a terzi di armi americane e le Nazioni Unite hanno posto un embargo militare sulle forze di Haftar.

 

La notizia arriva a pochi giorni dall’attacco sul centro di detenzione di Tajoura; una tragedia che ha portato molti migranti ad abbandonare le strutture, come ricostruisce Voice of America. Inoltre, va registrata la dichiarazione delle Nazioni Unite di martedì, che denuncia il pesante bilancio delle vittime dell’offensiva di Haftar su Tripoli: da aprile a oggi sarebbero morte circa 1000 persone.

 

IN BREVE

 

Siria: come riporta il Guardian, in seguito all’annunciato ritiro delle truppe americane dalla Siria, Francia e Gran Bretagna sono pronti a rafforzare i propri contingenti inviando nuovi soldati. Si parla di un aumento del 10/15 %, ma i numeri ufficiali non ci sono ancora.

 

Pakistan: due ragazzi cristiani pakistani, Sunny Mushtaq e Noman Asghar, sono stati arrestati con l’accusa di blasfemia nella regione del Punjab.

 

Sri Lanka: in un intelbrief del Soufan Center è evidenziato lo sforzo del governo locale di ridurre la dipendenza di certe moschee da finanziamenti riconducibili a fondi sauditi volti alla promozione del wahhabismo.

 

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