Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:12

Circa 13.000 persone sono scese in strada a Parigi nella giornata di domenica per una manifestazione contro l’islamofobia. L’iniziativa, promossa dal giornale Libération e ricostruita dal sito 24heures, è nata in seguito alla sparatoria alla moschea di Bayonne di fine ottobre e in un clima caratterizzato da incessanti dibattiti sul ruolo della religione, e in particolare dell’Islam, nello spazio pubblico francese. Il tema, come sottolineato da Saphir News, ha assunto una certa rilevanza in molte società europee, soprattutto dopo che sono stati fermati in Italia e in Polonia due gruppi di estrema destra che progettavano di attaccare rispettivamente la moschea di Colle Val d’Elsa e la comunità musulmana di Varsavia.

 

La classe politica francese si è divisa sulla manifestazione. Come ricostruisce La Croix, Marine Le Pen ha affermato che chi è sceso in strada è «mano nella mano con gli islamisti». Jean-Luc Mélenchon ha invece aderito all’iniziativa, lodandone i valori. In particolare, le critiche toccano due punti, come evidenziato dal Deutsche Welle. Innanzitutto, la marcia è stata vista da alcuni come una minaccia nei confronti della laïcité, al punto che Marlène Schiappa, Segretario di Stato per le pari opportunità tra donne e uomini, ha parlato di «una protesta contro la laicità con la scusa di essere contro le discriminazioni». In secondo luogo, l’evento è stato promosso da alcuni gruppi, come il Collettivo contro l’Islamofobia in Francia, considerati molto vicini ai Fratelli musulmani. E a tal proposito, l’iniziativa è stata ampiamente lodata dal sito turco TRTWorld, che l’ha definita «una manifestazione per la pace [in cui] la comunità musulmana si è mostrata coraggiosa e unita in un ambiente tossico». Il sito ha anche sottolineato come gran parte della classe politica e dei media abbia tentato di screditare la manifestazione, attraverso «una nuova forma, tagliente e impenitente, di liberalizzazione di un discorso islamofobo».

 

La battaglia contro l’islamofobia è condivisa anche da Khaled Bentounes, presidente della confraternita sufi Alawiyya, intervistato su New Europe. Bentounes sottolinea però «la responsabilità dei musulmani europei di promuovere un Islam di apertura, coesione sociale e cittadinanza esemplare […] riscoprendo la ricchezza spirituale dell’Islam […] ed evitando le trappole del jihadismo». In particolare, dovrebbe essere la spiritualità sufi a guidare i musulmani «nell’educazione e nel risveglio della coscienza umana». Bentounes cita anche un hadith ripreso sia da al-Bukhari sia da Muslim che recita «nessuno di voi è credente se non desidera (ama) per suo fratello ciò che desidera (ama) per sé stesso»; e, aggiunge lo shaykh, per “fratello” si intende ogni discendente di Adamo.

 

Continuano le violenze in Siria

 

Nei pressi della città di Qamishli, Joseph Hanna Ibrahim, parroco armeno-cattolico, è stato ucciso mentre guidava la sua auto. Con lui si trovavano anche il padre del sacerdote, morto anch’egli, e un diacono, rimasto gravemente ferito. L’attacco è stato rivendicato dall’ISIS, ma la nunziatura apostolica di Damasco ha invitato alla cautela, perché è già capitato che il sedicente Stato Islamico rivendicasse attentati di cui non era responsabile. La Croix ha raccolto i pareri di diverse figure religiose su quanto accaduto. Monsignor Antranig Ayvazian, capo spirituale degli armeni cattolici dell’Alta Mesopotamia, ha dichiarato che «la nostra Chiesa ha perso due martiri, ma perdoniamo gli assassini». Monsignor Pascal Gollnisch, direttore generale de L’Œuvre d’Orient, ha invece parlato della responsabilità di tutti gli attori sul campo a proteggere i cristiani, «una domanda mai menzionata ma necessaria», considerando che metà della popolazione cristiana della regione è fuggita negli ultimi otto anni. Ad Aiuto alla Chiesa che Soffre ha invece parlato l’arcivescovo armeno-cattolico di Aleppo, Monsignor Boutros Marayati. Per l’arcivescovo, nonostante «la guerra in Siria non sia ancora finita […], stiamo cercando di ricostruire le chiese e le case dei cristiani». Marayati aggiunge inoltre che la zona di Deir ez-Zor è importante, perché «lì sono stati uccisi molti dei nostri martiri fuggiti dal genocidio del 1915. Oggi non vi è più nessun armeno-cattolico e sicuramente i turchi non vogliono che vi torniamo».

 

Il caos in Siria interessa tutto il nord del Paese. Come ricostruito nel Security Brief di Foreign Policy, a est dell’Eufrate la popolazione è stata costretta a lasciare le proprie abitazioni dopo le operazioni turche e accusa i proxies di Ankara di aver avviato una vera e propria pulizia etnica nei confronti dei curdi. Continuano invece gli scontri a Idlib, poche settimane dopo la visita di Bashar al-Assad, come dimostrano i bombardamenti russi sugli avamposti di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), e ad Aleppo, dove alcuni jihadisti hanno colpito le forze governative.

 

Il dossier siriano è reso infatti ancor più complesso dalla presenza sul terreno di gruppi jihadisti, nonostante la fine territoriale del sedicente Stato Islamico. Come evidenziato da International Policy Digest, sono tre i fattori che destano una certa preoccupazione. In primo luogo, la tattica di colpire i leader delle organizzazioni terroristiche – come successo con Abu Bakr al-Baghdadi – non mina le motivazioni degli aderenti a questi gruppi. In secondo luogo, la retorica impiegata dal Presidente Trump nell’annunciare la morte dello pseudo-califfo rischia di sortire l’effetto opposto alla demitizzazione a cui ambiva. Infine, la destabilizzazione del nord-est siriano rappresenta un terreno fertile per i jihadisti, al punto che il Capo di Stato maggiore americano Mark Milley ha dichiarato che gli oltre 600 militari nell’area servono principalmente per svolgere funzioni di antiterrorismo.

 

Bisogna inoltre fare i conti con un quarto elemento, ovvero i foreign fighters. La Turchia ha infatti iniziato a rimpatriare alcuni jihadisti stranieri catturati durante l’offensiva contro i curdi siriani. Secondo quanto riportato dal New York Times, il portavoce del Ministero dell’interno turco ha dichiarato che sono già state avviate le procedure di rimpatrio per undici francesi, sette tedeschi, un danese, un irlandese e un cittadino americano. Proprio al tema della gestione dei combattenti stranieri è anche dedicato un approfondimento dello European Council on Foreign Relations. Secondo il centro di ricerca, la difficoltà primaria risiede nell’ambiguità della situazione: i foreign fighters sono «prigionieri in un limbo creato dalle interazioni fra due entità non statali», ovvero il Califfato a cui si dichiarano affiliati e le Syrian Democratic Forces che li hanno combattuti e presi in custodia, almeno fino all’avvio dell’operazione Peace Spring. Finore, gli Stati europei hanno sostanzialmente adottato tre approcci nei loro confronti: la revoca della cittadinanza, il procedimento giudiziario in Europa e il rimpatrio dei bambini figli di jihadisti. Nell’articolo sono anche approfonditi due orientamenti presi in considerazione dai Paesi membri dell’Unione ma mai veramente applicati: l’avvio di processi in Iraq e in Siria – ciò che non è privo di problemi dal punto di vista giudiziario e umanitario –e l’istituzione di un tribunale penale internazionale.

 

Di fronte all’intricata questione siriana, sorgono dubbi circa una risoluzione nel breve periodo. Foreign Policy dedica così un approfondimento ai quattro incontri di Ginevra e alla recente formazione di un Comitato costituzionale, utile solo se iscritto in un processo politico di più ampio respiro. I problemi risiedono però principalmente nella composizione del Comitato e nella posizione di forza da cui si trova a negoziare Assad.

 

Cosa (non) è cambiato in Algeria

 

In Algeria le proteste sono ormai giunte al nono mese, il settimo dopo le dimissioni di Bouteflika. Se da un lato la durata delle proteste testimonia l’effettiva volontà di cambiamento del popolo algerino, dall’altra la mancata transizione democratica potrebbe portare a una certa frustrazione dei manifestanti. Il Washington Post ha condotto una ricerca da aprile a oggi attraverso Facebook – dunque con tutti i limiti metodologici del caso – per valutare quanto gli algerini, manifestanti e non, condividano ancora gli obiettivi perseguiti e le tattiche impiegate negli ultimi mesi. Per quanto riguarda l’obiettivo di scardinare il sistema politico esistente, si nota un incremento di coloro che vogliono un cambiamento, sia fra chi ha manifestato (dal 78% di aprile all’89% di ottobre) che fra chi non è sceso in strada (dal 64% di aprile al 74% di ottobre). D’altra parte, il sostegno alle manifestazioni è sceso sia fra chi vi ha partecipato (dal 94% di aprile all’80% di ottobre) che fra chi si è astenuto (dal 67% di aprile al 58% di ottobre).

 

Secondo il sito americano, questa adesione agli obiettivi da perseguire, accompagnata da una disillusione rispetto alle tattiche utilizzate, è principalmente legata a due fattori. In primo luogo, dopo le prime concessioni, il sistema politico algerino ha disegnato una road map che prevede elezioni a dicembre, con candidati che fanno parte dello stesso establishment così duramente criticato durante le proteste. In secondo luogo, come anche evidenziato da Human Rights Watch, da settembre si è assistito a un aumento considerevole degli arresti da parte delle forze dell’ordine. Inoltre, nell’ultimo mese è aumentata la pressione statale nei confronti delle comunità cristiane locali, con diverse chiese protestanti chiuse e alcuni fedeli accusati di volere convertire i musulmani, come già ricostruito a fine ottobre da France24.

 

Amr Moussa immagina il Medio Oriente fra 5 anni

 

Amr Moussa, Ministro degli esteri egiziano (1991-2001) e Segretario generale della Lega araba (2001-2011), ha raccontato ad Al-Monitor i cambiamenti che secondo lui in cinque anni renderanno irriconoscibile il Medio Oriente. Moussa inizia a parlare di Egitto e riconosce come le riforme economiche avviate dal Paese non avranno effetti se non verranno affiancate da interventi del campo educativo. Allo stesso tempo, questi progetti possono prendere il via solo qualora la stabilità e la sicurezza siano garantiti.

 

Nella seconda parte dell’intervista, Moussa si concentra sul resto della regione, e in primo luogo sulla Libia. Anche in questo caso la priorità è la sicurezza, unica via per arrivare in un secondo momento a una risoluzione politica del conflitto. Un secondo dossier è quello delle cosiddette Primavere Arabe, che proseguono a fasi alterne – come in Sudan, Algeria, Libano e Iraq – ma che sono destinate a ridisegnare il Medio Oriente nei prossimi anni. Moussa si focalizza poi sull’Iraq, riconoscendo come i problemi dell’era Saddam siano stati esasperati dall’intervento americano del 2003 e dalle politiche confessionali messe in atto successivamente. Infine, l’ex Segretario della Lega araba sottolinea la necessità di un nuovo approccio americano alla regione, che si concentri primariamente sul commercio e metta in secondo piano la vendita di armi.

 

IN BREVE

 

Stati Uniti: Foreign Policy ricostruisce l’incontro fra Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan, con particolare attenzione alla situazione in Siria e all’acquisto da parte di Ankara del sistema antimissilistico russo S-400.

 

Israele e Palestina: Al Jazeera ha tenuto traccia dei recenti eventi fra Israele e Gaza, dal raid che ha provocato la morte di Bahaa Abu al-Ata, leader del Movimento per il Jihad Islamico in Palestina, al temporaneo cessate il fuoco.

 

Turchia: il Guardian racconta gli ultimi momenti di James Le Mesurier, uno dei fondatori dell'organizzazione umanitaria siriana "Caschi bianchi", trovato morto a Istanbul.

 

Kuwait: l’emiro del Kuwait ha accettato le dimissioni rassegnate dal Premier Jaber al-Sabah.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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