Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:06

Da giovedì scorso il Libano è attraversato da proteste che non accennano a placarsi. La scintilla che ha innescato questa ondata è stato l’annuncio del governo di due nuove tasse: una tassa sulle telefonate, anche via WhatsApp, e un piano per aumentare l’IVA dall’11 al 15% entro il 2022. L’Independent sottolinea però come queste siano solo cause contingenti, che nascondono un malcontento più radicato e riconducibile ad aspetti di lungo corso. Fra questi ricordiamo l’alto debito pubblico, che ha limitato le spese statali, un tasso di disoccupazione al 25%, una massiccia emigrazione di giovani con un alto tasso di istruzione, un welfare carente e una concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Si stima infatti che l’1% della popolazione abbia accesso al 25% delle ricchezze libanesi. Particolarmente interessante è l’analisi di Synaps, che evidenzia come il governo sia spesso riuscito a mantenere il potere grazie alla mediazione delle municipalità. Dopo la guerra civile, l’élite politica, non sufficientemente forte per attuare politiche di coercizione o cooptazione, ha usato il controllo sul governo centrale per porre le municipalità di fronte a una scelta: allinearsi e ricevere fondi oppure restare indipendenti e, di fatto, soccombere. Questo ci aiuta a capire perché gli sfidanti al di fuori dell'establishment politico non sono riusciti a ottenere un largo consenso. Mancando i concorrenti, i partiti al potere sono anche riusciti a garantire alle sfere più alte un arricchimento personale.

 

L’importanza delle proteste è condensata dal Carnegie Middle East Center in quattro punti: numericamente sono le più rilevanti, insieme a quelle del 2005 in seguito all’omicidio di Rafiq al-Hariri, dal 1990 a oggi; sono spontanee; sono diffuse in tutto il Libano; infine, non sono confessionali. Come riporta Daniele Raineri sul Foglio, i sostenitori di Hezbollah sono infatti scesi in strada cercando di “confessionalizzare” le proteste, con scarsi risultati finora. Questo fatto testimonierebbe inoltre una «disillusione rabbiosa» verso l’Iran. Il leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, è però intervenuto a riguardo, da un lato prendendo le parti dei manifestanti, ma dall’altro affermando che una caduta del governo getterebbe il Paese in una pericolosa situazione di caos. Nasrallah ha dunque invitato i manifestanti ad accogliere favorevolmente le riforme promesse dal governo e ha ribadito l’intenzione di non coinvolgere il partito-milizia per prevenire la politicizzazione delle manifestazioni, nonostante alcuni esponenti di Hezbollah abbiano scatenato tafferugli nelle piazze, come riporta L’Orient Le Jour.

 

La portata delle manifestazioni ha già suscitato una reazione del governo che ha promesso – ma non ancora attuato – il taglio degli stipendi dei parlamentari, la costruzione di nuove centrali elettriche e la tassazione sui profitti bancari. Vanno anche registrate le dimissioni di quattro ministri.

 

I recenti eventi in Libano e Iraq – ma ancora prima quelli in Algeria e Sudan – hanno richiamato alla memoria i fatti delle cosiddette Primavere arabe. Eugenio Dacrema ha evidenziato per ISPI le somiglianze e le differenze delle attuali proteste coi moti del 2011, considerando anche le rinnovate strategie di piazze e regimi. Le manifestazioni di questi mesi hanno dimostrato una certa resilienza: le proteste durano da e per settimane, a differenza delle Primavere arabe. Inoltre, oggi è quasi totalmente assente il discorso islamista, che occupò la scena otto anni fa. Di simile invece va notata la convergenza fra domande socioeconomiche e rivendicazioni politiche. Infine, occorre registrare anche un mutamento dello scenario regionale, con la «diminuzione dell’influenza normativa e trasformativa delle potenze occidentali» e la crescita dell’influenza di Russia e Iran, Paesi interessati al mantenimento dello status quo.

 

Il paragone dei fatti iracheni e libanesi con le Primavere arabe è entrato anche nel dibattito pubblico regionale. Il sito saudita in lingua inglese Al-Arabiya si è concentrato infatti sulle questioni economiche, mettendo in secondo piano le richieste politiche. Anche il sito emiratino in lingua inglese The National ha dato maggior risalto alla componente economica, sottolineando inoltre come l’International Support Group for Lebanon – un organo dell’ufficio speciale dell’ONU per il Libano a cui appartengono fra gli altri l’Italia, la Cina, gli Stati Uniti, l’Unione europea e la Lega araba – abbia appoggiato il pacchetto di riforme promesso da Hariri. Di tutt’altro avviso il sito vicino al Qatar Middle East Eye, che rifiuta l’espressione “seconda Primavera araba” per parlare di “continuazione delle Primavere arabe”. In questo caso la dimensione politica è centrale: «a parte posti di lavoro, riso più economico, petrolio e pane, [i manifestanti chiedono] libertà, uguaglianza, opportunità e giustizia», nei confronti di quei regimi che hanno sempre reagito alle richieste con «un terrorismo di Stato». Il sito denuncia anche le posizioni di alcuni Stati europei come la Francia e la Germania. In particolare, viene evidenziato l’atteggiamento punitivo nei confronti di Erdogan e permissivo verso altri «despoti e assassini, come Abdal Fattah al-Sisi e Muhammad bin Salman».

 

Sulle proteste si sono espressi anche i patriarchi maronita e caldeo a Baghdad e Beirut, come ripreso dalla Stampa. Il patriarca caldeo Louis Sako ha espresso solidarietà per i manifestanti pacifici e per la loro presa di distanza dalla politicizzazione e dalla confessionalizzazione della politica, sottolineando «una svolta nel segno della cittadinanza condivisa e comune, proprio come affermato solennemente ad Abu Dhabi» nel Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Anche il patriarca maronita Béchara Raï si è detto favorevole a un «governo tecnico e qualificato, di servitori pubblici e non di potentati economico-confessionali», lodando le parole del Presidente libanese Michel Aoun.

 

Erdogan e Putin a colloquio sulla Siria

 

Il Presidente turco e quello russo si sono incontrati martedì a Sochi per parlare di Siria. Come riporta il Guardian, poche ore prima della riunione il Erdogan si era detto pronto a colpire più duramente le oltre mille truppe delle Syrian Democratic Forces (SDF) che non si erano ancora ritirate dalla fascia del nord est siriano. Il meeting, durato oltre cinque ore, ha prodotto un accordo composto da 10 punti. Nel testo, Ankara e Mosca si impegnano a preservare l’integrità territoriale siriana, «combattendo il terrorismo in tutte le sue forme» e «rimuovendo tutti i combattenti dell’YPG e le loro armi da Manbij e Tal Rifat». Il documento riconosce «lo status quo raggiunto con l’operazione Primavera di Pace» e vede negli accordi di Adana del 1998 la cornice entro cui dirigere le azioni future, segnando di fatto la vittoria per Erdogan, Assad e Putin, a svantaggio soprattutto curdo. Particolarmente rilevante è il quinto punto: le forze russe si impegnano a presidiare il confine turco-siriano collaborando con gli eserciti di Ankara, per controllare l’est e l’ovest della zona cuscinetto, e di Damasco, per facilitare il ritiro entro le 18 di martedì 29 ottobre delle forze curde dell’YPG.

 

Daniele Santoro su Limes si concentra invece sui limiti di questo accordo, soprattutto in ottica turca. Le truppe di Ankara sono infatti escluse dalle operazioni per sgomberare i miliziani del YPG, mentre Assad ottiene la grande vittoria di poter entrare nelle zone sotto controllo curdo. Strategicamente però l’accordo non è così negativo. Esso costringe ora i curdi a decidere se cercare riparo sotto l’ala protettrice del Cremlino o della Casa Bianca e apre alla possibilità della spartizione della Siria in aree di influenza del trio di Astana.

 

Come nota NPR, con questo accordo la Russia arriva di fatto a presidiare tutte quelle zone sotto la supervisione americana fino a poche settimane fa. Le truppe statunitensi però non si sono completamente ritirate dal teatro siriano. Da un lato, gran parte dei soldati si è spostato a est, entrando in territorio iracheno. Come riporta Reuters, però, gli alti ranghi dell’esercito iracheno hanno affermato che le forze americane hanno il permesso di entrare solo temporaneamente nella regione del Kurdistan iracheno. D’altra parte, il Segretario della difesa Mark Esper ha invece dichiarato che un contingente di 200 uomini si muoverà più a sud in Siria, in un’altra zona sotto controllo curdo, per mettere al sicuro i pozzi petroliferi.

 

In particolare, la mossa è volta a contrastare la possibile caduta dei pozzi in mano a miliziani dell’ISIS, riporta Al Jazeera. Tuttavia, secondo Colin Clarke (RAND Corporation), la mossa di Trump  rappresenta un viatico proprio per il ritorno del sedicente Stato Islamico, . A contribuire a questo ritorno sarebbero il mancato controllo del territorio da parte dei curdi, una generale destabilizzazione del nord est siriano, la fuga dalle prigioni di miliziani dell’ISIS e un’ideologia, quella jihadista, che si è più volte dimostrata resiliente e attraente. In più, nota Clarke, l’invio di ulteriori truppe americane in Arabia Saudita, fornirebbe ad alcuni gruppi jihadisti un elemento centrale della loro propaganda, ovvero la presenza di truppe straniere nei luoghi sacri dell’Islam.

 

La Cina contro gli uiguri (anche all’estero)

 

L’Economist ha dedicato un approfondimento ai musulmani uiguri fuggiti dalla Cina e alle minacce di ritorsione sui famigliari e parenti da parte delle autorità cinesi. In particolare, l’articolo tratta il caso di Radio Free Asia, una radio con sede negli Stati Uniti ma che trasmette nella lingua uigura e che è stata oscurata dal governo di Pechino. Fra le vittime principali delle politiche adottate dalla Cina nei confronti della popolazione uigura vi sono le donne, come ricostruito dal Washington Post. I cosiddetti campi di rieducazione non sarebbero altro che centri di detenzione, in cui le donne sono sistematicamente prese di mira. Secondo alcune testimonianze di ex detenute, violenze fisiche e psicologiche sarebbero all’ordine del giorno. Oltre a stupri e iniezioni di sostanze per sterilizzare le donne, le autorità cinesi hanno avviato un programma per sottrarre i figli alle coppie uigure.

 

Haaretz ha raccolto la testimonianza di Sayragul Sauytbay, un’ex detenuta che è riuscita a fuggire. I primi arresti, di notte e in segreto, sono avvenuti nel 2016, in seguito ad alcuni attentati da parte di un gruppo separatista uiguro. Sauytbay, interrogata più volte, è stata però arrestata solo nell’autunno del 2017 e portata in un centro di rieducazione, dove ha trascorso circa sei mesi, confinata in una cella di 16 metri quadrati insieme ad altre venti persone. I detenuti, che includevano bambini e anziani, venivano rasati e costretti a vestire un uniforme, cantare l’inno cinese e confessare i propri (presunti) crimini, scrivendoli e consegnandoli alle autorità. Il cibo era scarso e il venerdì i musulmani erano costretti a mangiare maiale. Le regole erano rigide e chiunque trasgrediva veniva portata nella “stanza nera”, dove era sottoposto a torture, violenze sessuali ed esperimenti medici. Al contrario, non era prevista alcuna forma di assistenza sanitaria. I prigionieri più resistenti al cosiddetto indottrinamento semplicemente scomparivano. Alla fine, Sayragul Sauytbay è stata rilasciata nel marzo 2018 e nei mesi successivi è riuscita a fuggire in Kazakistan, dove però ha trascorso nove mesi in carcere per essere entrata illegalmente nel Paese. Solo a inizio 2019 è riuscita a ottenere asilo politico in Svezia.

 

IN BREVE

 

Indonesia: come ricostruito dal Jakarta Post, il Presidente Joko Widodo ha nominato Prabowo Subianto, suo sfidante alle scorse elezioni, Ministro della Difesa.

 

Arabia Saudita: il Principe Faisal bin Farhan, la cui biografia è ricostruita dalla Saudi Press Agency, è stato nominato nuovo Ministro degli esteri del Regno saudita.

 

Sahel: Crux dedica un approfondimento alla situazione nel Sahel, dove negli ultimi quattro anni hanno avuto luogo circa 2200 attentati.

 

Israele: Benny Gantz è stato ufficialmente incaricato di dar vita a un nuovo governo, dopo il fallito tentativo di Benjamin Netanyahu.

 

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