Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:58

Le rivolte in Sudan

 

Le proteste in Sudan, iniziate ad Atbara nel dicembre dello scorso anno e rapidamente diffusesi in tutto il Paese fino a raggiungere Khartoum il 6 aprile, hanno portato alla deposizione di Omar al-Bashir, al potere dal 1989. A capo delle manifestazioni, vi sono numerosi gruppi eterogenei, come l’alleanza partitica Sudan Call, la coalizione di partiti, sindacati e associazioni National Front for Change e il collettivo di ordini professionali Sudanese Professionals Association (SPA).

 

A sostituire al-Bashir, ma solo per un giorno, è stato il Ministro della Difesa Awad Mohamed Ahmed Ibn Auf, che si è affrettato a dichiarare lo stato di emergenza e a istituire un consiglio militare alla guida del Paese per i prossimi due anni. Il 12 aprile Auf, profondamente legato alla figura di al-Bashir, ha lasciato posto al capo dell’esercito Abdel-Fattah Burhan, più vicino alle truppe e maggiormente in sintonia con i manifestanti.

 

Il 13 aprile è stato così il giorno dell’incontro fra militari e rappresentanti dei manifestanti, ricostruito dall’Economist. Oltre alla promessa della rimozione di tutte le leggi repressive e alla riassicurazione circa il passaggio ad un’amministrazione civile, il consiglio dei militari ha proceduto con la rimozione del capo dell’intelligence (ed ex collaboratore della CIA) Salah Abdallah Gosh, con la cancellazione del coprifuoco, con il rilascio dei prigionieri politici e con il sequestro dei beni e l’arresto di numerosi membri del partito dell’ex-presidente, il National Congress Party.

 

Come analizzato su Foreign Policy, l’allontanamento di al-Bashir non rappresenta però la fine di tutti i mali per il popolo sudanese. Le proteste, suscitate da un malcontento di natura economico-sociale (inflazione alle stelle, diminuzione del potere d’acquisto, deterioramento della società civile, frammentazione del tessuto sociale aggravata dalle questioni del Darfur e del Sud Sudan…), hanno radici più profonde, di natura politica e strutturale. La cooptazione delle élite, la marginalizzazione politica delle zone periferiche e la strategia di divide et impera di al-Bashir hanno minato la costruzione di un’identità nazionale inclusiva, fondamentale in un Paese estremamente eterogeneo dal punto di vista religioso, etnico e linguistico.

 

Il tema dell’inclusione è identificato anche da Al Jazeera come motore alla base della mobilitazione popolare e non violenta. Ne è un esempio questo tweet dall’account ufficiale di SPA che parla di «mettere Cristo al centro della rivoluzione» e che cita le Beatitudini («Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»). La creazione di un sistema inclusivo, che non può prescindere comunque da un’alleanza coi militari e dall’istituzione di politiche di trasparenza, è dunque il primo passo per la realizzazione di un sistema maggiormente democratico.

 

A incidere sul futuro del Sudan non saranno però solo i militari e la società civile, ma anche gli attori internazionali. Giorgio Cafiero su LobeLog ricostruisce infatti il ruolo che rivestiranno Egitto, Emirati e Arabia Saudita, tre Paesi che fanno della stabilità regionale e della prevenzione di una Primavera Araba 2.0 due dei loro obiettivi chiave. Un terzo elemento che porta Riyadh, Abu Dhabi e Il Cairo a interessarsi al Sudan è rappresentato dalla vicinanza di Omar al-Bashir ai Fratelli Musulmani e a Paesi come la Turchia, che ha una base militare sull’isola sudanese di Suakin, e il Qatar, con cui Khartoum ha deciso di intrattenere buoni rapporti anche dopo la crisi diplomatica all’interno del Gulf Cooperation Council del 2017. Infine va ricordata la strategica alleanza fra Sudan e Arabia Saudita in Yemen contro i ribelli houthi; un’alleanza che si è spinta fino al reclutamento di bambini soldato sudanesi, come già evidenziava il New York Times a dicembre e come è stato recentemente denunciato dalla qatariota Al Jazeera.

 

Anche la Russia, come riportato da Limes, guarda con attenzione al Sudan, importante acquirente di armi (1 miliardo di dollari negli ultimi vent’anni) e vicino diplomaticamente al Cremlino. Va inoltre ricordata la presenza di istruttori militari russi a Khartoum e il presunto coinvolgimento – smentito da Mosca – di mercenari del gruppo Wagner per sedare le rivolte.

 

 

Le elezioni in Indonesia

 

Se la ricerca di un’identità nazionale inclusiva e la domanda di democrazia fondata su valori liberali trasversali ispirano i moti sudanesi, i candidati alle elezioni in Indonesia impiegano invece una strategia diversa per accedere al potere, ovvero il ricorso a una politica identitaria incentrata sull’Islam.

 

Il 17 aprile oltre 190 milioni di indonesiani sono stati chiamati alle urne per le elezioni presidenziali, parlamentari e regionali. I numeri sono impressionanti: 20.500 seggi in palio, 245.000 candidati, 20 partiti politici e 809.500 sezioni elettorali. Evidenti sono però i problemi logistici: l’Indonesia è composta da oltre 17.000 isole, molte delle quali isolate e scarsamente abitate. Come evidenzia la BBC, l’estensione territoriale comporta anche una grande eterogeneità all’interno del Paese; una pluralità etnica, linguistica e religiosa tutelata dalla Costituzione e prevista dai principi fondativi dello Stato, chiamati Pancasila.

 

La sfida più rilevante è quella per la Presidenza, che vede contrapposti l’attuale Presidente Joko “Jokowi” Widodo del Partito Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P) e il generale Prabowo Subianto del Partito del Movimento della Grande Indonesia (GerIndRa). Benché i risultati ufficiali siano attesi per maggio, il Presidente Widodo sarebbe in testa con circa il 54% dei voti. Lo scarto inferiore alle attese fa però ancora ben sperare l’avversario, che proprio nella giornata di giovedì ha dichiarato di sentirsi il Presidente di tutti gli indonesiani.

 

Nonostante Widodo fosse salito al potere nel 2014 grazie alle promesse di riforme e a una retorica inclusiva, negli ultimi anni è cambiato l’atteggiamento del Presidente, che ha assunto posizioni più in linea con l’Islam conservatore, al punto che Alexander Arifianto nota sul Washington Post che «l’Islam sarà un elemento centrale nel futuro prossimo per la politica indonesiana».

 

Un primo indizio di questo riposizionamento lo si èavuto nel 2017, quando l’ex governatore di Jakarta Basuki “Ahok” Purnama, un cristiano di etnia cinese vicino a Jokowi, è stato arrestato e condannato a 20 mesi di prigione per blasfemia, senza che il Presidente lo difendesse pubblicamente. Un secondo segnale è stato la scelta di Maruf ‘Amin come suo vice per la campagna di quest’anno. ‘Amin, presidente del Consiglio Indonesiano degli Ulema (MUI), ha ottenuto una certa notorietà per aver vietato l’ingresso nel MUI a organizzazioni sciite (Ahlul Bait Indonesia) e ahmadi (Jemaat Ahmadiyyah Indonesia), per aver promulgato numerose fatwe contro la comunità LGBT e per aver impiegato spesso una retorica radicale ai danni delle minoranze non sunnite. Infine, l’ossessione per una politica identitaria di natura islamica è stata alimentata dalla volontà di erodere il bacino elettorale di Subianto, tradizionalmente nazionalista e conservatore in ambito religioso.

 

Sebbene l’Islam sia arrivato in Indonesia nel XVI secolo e abbia da subito risentito delle influenze induiste e buddiste, gli ultimi 40 anni hanno segnato una profonda trasformazione della religione islamica nel Paese. Come analizzato dal New York Times, i petroldollari sauditi hanno ridisegnato il panorama, introducendo una lettura più conservatrice dell’Islam di ispirazione wahhabita. Ne è un esempio l’Istituto per lo Studio dell’Islam e dell’Arabo (Lipia), a cui fa però da contraltare la Nahdlatul Ulama, un’organizzazione che propone un Islam tradizionale, basato sugli insegnamenti di ulema mediorientali e indonesiani, e che abbraccia le tradizioni pre-islamiche e il sufismo.

Leader Nahdlatul Ulama Indonesia 800x600.JPG

Leader della Nahdlatul Ulama all'ingresso del quartiere generale di Giakarta [© Oasis]

 

Di fronte alla crescente importanza attribuita all’Islam nella sfera pubblica, in quella che è stata definita «l’età della politica identitaria», altre minoranze si trovano a dover far conto con tale questione. Una di queste è rappresentata dagli abitanti della Papua Occidentale, regione autonoma dell’Indonesia, e più in particolare dal Movimento Papua Libera (OPM), che combatte per l’indipendenza della regione.

 

Di particolare interesse è inoltre la posizione dei cristiani, che rappresentano il 13% della popolazione (il 5% è cattolico). Come si legge su Vatican News, l’Arcivescovo di Giacarta Ignatius Suharyo ha invocato la necessità di «un’amministrazione onesta e trasparente che porti beneficio a tutti i cittadini […] In Indonesia, la buona politica è spesso messa in ombra dalla corruzione». Di fronte alla crescente polarizzazione dell’arena politico, Suharyo ha ricordato il ruolo dei cristiani, in particolare del gesuita olandese Franciscus van Lith, nel costruire la nazione indonesiana. 

 

 

Nuove alleanze per l'Iraq

 

Il ricorso a una politica incentrata sull’appartenenza a uno specifico credo non è però utilizzato esclusivamente in Indonesia. Un altro esempio è rappresentato dall’Iraq, e in particolar modo dal partito islamico sciita Da’wa, che ha prodotto tre primi ministri dal 2005 a oggi.

 

La caduta di Saddam e la successiva guerra civile hanno contribuito a frammentare la società da un punto di vista confessionale. I gruppi politici sciiti, soprattutto Da’wa, hanno così capitalizzato l’appartenenza religiosa dopo anni di vessazioni. Come ricostruito dal Carnegie Middle East Center, la politica identitaria è stata però presto contaminata da un certo pragmatismo, come dimostrano le alleanze con partiti nazionalisti e l’affermazione di un sistema di patronato per garantire l’accesso al potere. Di conseguenza, si legge nell’articolo, «il partito Da’wa non è morto, ma sta morendo».

 

Un segnale lo si può ad esempio cogliere dalle recenti aperture del Presidente Barham Salih e del Primo Ministro Adil Abdul-Mahdi nei confronti di Egitto e Arabia Saudita, come evidenziato dal sito curdo Rudaw. Dopo la visita di Salih al Cairo e l’annunciata riapertura del consolato saudita a Baghdad, il Premier ha visitato Riyadh. Il viaggio, come riporta Al Jazeera, è stata l’occasione per firmare 13 accordi in ambito energetico, commerciale ed economico. La posizione dell’Iraq è a questo punto molto complessa, perché l’avvicinamento alle monarchie del Golfo non significa – almeno per ora – un allontanamento da Teheran, che può ancora contare su decine di milizie armate nel Paese e su legami diplomatici ed economici consolidatisi nel tempo.

 

 

La situazione in Libia

 

Continua in questi giorni l’offensiva di Khalifa Haftar contro la Tripoli di Fayez al-Sarraj, un’avanzata che secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute ha già causato 174 morti e che è culminata questa settimana con il lancio di missili Grad sul quartiere Abu Slim di Tripoli da parte di Haftar.

 

Come ricostruito da Arturo Varvelli per ISPI, l’uomo forte della Cirenaica non può permettersi un bagno di sangue e non dispone della forza necessaria per lanciare un assalto definitivo a Tripoli, anche se è probabile che ci saranno nuovi tentativi prima di un’eventuale negoziazione. Haftar può infatti contare sul supporto di Egitto, Emirati e Arabia Saudita, come riporta il Guardian, ma anche di Russia e Francia.

 

Ed è proprio Parigi a giocare un ruolo chiave in Libia. Nonostante il sito Libyan Observer abbia denunciato la presenza di consiglieri militari francesi, Daniele Raineri sul Foglio ha sollevato dubbi sulla veridicità della notizia, anche se non può essere esclusa qualche forma di coinvolgimento francese al fianco di Haftar.

 

Gli interessi transalpini in Libia possono essere ricondotti a due aspetti, come si legge su Politico. In primo luogo, vi è un desiderio di limitare i gruppi islamisti vicini ad al-Sarraj. In secondo luogo, c’è la volontà di controllare le rotte migratorie, con particolare attenzione al Fezzan, descritto da Limes come «la chiave di tutte le rotte sahariane che portano […] all’intera Africa francofona e alle sue risorse, uranio compreso».

 

Il tema delle migrazioni è rilevante però anche per il nostro Paese, che in Libia sostiene l’iniziativa di governo sponsorizzata dall’ONU e appoggiata da Turchia e Qatar. In una video-intervista al Corriere, al-Sarraj ha parlato della situazione libica, dirigendo un accorato appello all’Italia e all’Europa. Il motivo principale sarebbe il possibile arrivo di 800.000 migranti, fra cui molti terroristi. I numeri però sono decisamente enfatizzati, come mostra Stefano Torelli in questi tweet. In Libia ci sarebbero infatti 675.000 migranti. Oltre a considerare che la Libia è anche un Paese di arrivo e che non tutti hanno intenzione di venire in Italia, va segnalato che il numero massimo di sbarchi mensili è stato di 25.000 persone, registrato nell’estate 2016 e molto al di sotto dei numeri presentati da al-Sarraj.

 

 

IN BREVE

 

Yemen: come riporta in esclusiva Disclose, gli armamenti francesi venduti a Emirati e Arabia Saudita sarebbero usati in Yemen, anche contro i civili.

 

Afghanistan: secondo VOA News, i colloqui fra americani e talebani in Qatar in programma per la fine del mese non sono in pericolo, nonostante gli scontri fra forze di sicurezza e talebani.

 

Egitto: il Parlamento del Cairo ha dato il via libera alla riforma costituzionale che permetterebbe ad al-Sisi di rimanere al potere per altri due mandati, ovvero fino al 2030.

 

Turchia: il Ministro della Difesa turco Hulusi Akar ha incontrato a sorpresa nella giornata di martedì il capo del Pentagono Patrick Shanahan in seguito alla decisione di Ankara di acquistare dalla Russia il sistema anti-missilistico S-400.

 

Turchia: la Turchia cerca vie alternative per aggirare le sanzioni americane imposte all’Iran e continuare a intrattenere relazioni commerciali con la Repubblica islamica.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.