Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:53

Il Syrian Network for Human Rights ha pubblicato un report in cui raccoglie e analizza gli attacchi contro i luoghi di culto cristiani in Siria dal marzo 2011 al settembre 2019. Gli attacchi documentati sono 124, hanno colpito almeno 76 chiese e si collocano per la maggior parte nella primavera del 2015. Di questi, 75 sono stati lanciati dal regime, 33 dai ribelli, 10 dal sedicente Stato Islamico, due da Hayat Tahrir al-Sham e quattro da altri attori. I danni maggiori sono stati causati dalle forze fedeli a Bashar al-Assad, che hanno potuto impiegare missili e bombe a grappolo.

 

Le responsabilità maggiori ricadono dunque sul governo di Damasco, come anche evidenziato da Middle East Monitor. Il tentativo di Assad di presentarsi come equilibratore della politica siriana e come garante dei diritti delle minoranze, fra cui anche quella cristiana, fa parte della propaganda del regime. Come nota Ayman Abdel Nour, cofondatore di Syrian Christians for Peace, «Assad ha usato i cristiani per consolidare il proprio potere e rafforzarsi». In realtà, mette in luce il Washington Examiner, le forze governative non hanno mai colpito direttamente le chiese in quanto luoghi di culto cristiani. Gli attacchi sono infatti stati condotti dopo aver permesso a ribelli o jihadisti di avvicinarsi o occupare tali luoghi, in modo da potersi comunque presentare come «protettore dei cristiani».

 

La realtà cristiana in Siria non è però solo minacciata dal regime o da gruppi jihadisti. CBN News riporta infatti le preoccupazioni delle comunità cristiane nel nord ovest del Paese nei confronti della Turchia. A fine settembre è infatti scaduto l’ultimatum per la creazione di una zona cuscinetto di quasi 500 chilometri al confine turco-siriano. La mancata formazione di questa buffer zone potrebbe avere come conseguenza un attacco turco, di cui curdi e cristiani rischierebbero di pagarne le conseguenze.

 

Non sono però solo la popolazione cristiana e i luoghi di culto ad aver risentito del conflitto. Anche l’economia siriana sta infatti vivendo una fase di profonda riconfigurazione, come messo in luce da questa analisi di Synaps. Buona parte della forza lavoro di Homs, Aleppo e Idlib si è trasferita lungo la costa a Latakia e Tartous, a discapito dei lavoratori locali, soprattutto alawiti. Hama è diventato il centro gravitazionale dell’apparato amministrativo siriano e de facto la capitale di tre province. Qui, al contrario di quanto successo a Latakia e Tartous, sono state le comunità sunnite attive nel commercio a risentirne.

 

In questo processo, lo Stato siriano è quasi del tutto assente e interviene nella sfera economica con due obiettivi principali: estrarre profitto, soprattutto privatizzando alcuni servizi, e riaffermare il controllo in alcune aree. Questa duplice tendenza di ritiro e interferenza si manifesta particolarmente nelle attività di import-export.

 

Arabia Saudita: un focus su MBS

 

A un anno dalla morte di Jamal Khashoggi, molti media americani si concentrano sull’Arabia Saudita e più nel dettaglio sul Principe ereditario Muhammad Bin Salman. La PBS, per esempio, ha rilasciato un documentario di quasi due ore sull’ascesa al potere del Principe, raccogliendo le voci di diversi studiosi e attivisti. La CBS ha invece trasmesso una breve intervista a MBS, che si concentra su due tematiche principali. Innanzitutto, viene discusso l’affaire Khashoggi, sul quale MBS si assume la piena responsabilità, pur negando di aver dato l’ordine. L’omicidio, nota Madawi al-Rasheed, voce critica nei confronti di Riyadh, segna un cambio di paradigma nelle strategie governative saudite. È un chiaro messaggio che la politica definita dall’autrice «del bastone e della carota» è stata sostituita da una strategia di repressione su larga scala contro ogni possibile voce critica. Il Principe ribadisce più volte la gravità di quello che lui definisce incidente, ma ci tiene a precisare che i rapporti con gli Stati Uniti vanno ben oltre la morte di Khashoggi. E proprio sui rapporti con la Casa Bianca si innesta la seconda tematica, ovvero l’Iran.

 

I rapporti fra il Regno e la Repubblica Islamica in realtà hanno attraversato diverse fasi, come ricostruito da The Atlantic. Da “amichevoli rivali” e pilastri della politica estera americana in Medio Oriente prima del 1979, i due Paesi sono diventati acerrimi nemici dopo la Rivoluzione islamica e durante la guerra Iran-Iraq. Negli anni ’90 si è assistito a una distensione, dati i buoni rapporti fra i moderati Rafsanjani e Khatami e il re Abdullah Bin Abdulaziz. Se l’invasione americana dell’Iraq e le ingerenze iraniane nel Paese hanno reso i rapporti di nuovo tesi, l’accordo sul nucleare iraniano dell’amministrazione Obama ha inasprito la relazione fra Teheran e Riyadh. L’ascesa al potere di MBS, insieme all’elezione di Donald Trump, ha segnato il definitivo deterioramento dei legami con l’Iran.

 

Sempre nell’intervista concessa alla CBS, il Principe definisce i recenti attacchi agli impianti petroliferi di Abqaiq un prodotto della «stupidità iraniana». D’altra parte, afferma che una guerra contro l’Iran è al momento da escludersi, poiché danneggerebbe l’economia mondiale, dato che dallo Stretto di Hormuz dipendono il 20% dei commerci e il 30% dell’energia globale. L’unica soluzione sarebbe quella politica, ma MBS pone due condizioni all’Iran: la negoziazione di un nuovo accordo sul nucleare fra Stati Uniti e Iran e la fine del supporto iraniano agli huthi in Yemen.

 

Dal fronte yemenita arrivano però informazioni contrastanti. Da un lato, il portavoce degli huthi Mahdi al-Mashat ha annunciato a fine settembre un cessate il fuoco, accolto da Riyadh come un segnale positivo. Allo stesso modo, lunedì il gruppo avrebbe liberato 290 (secondo la Croce Rossa) o 350 (secondo il gruppo stesso) prigionieri. L’azione, riporta il Deutsche Welle, sarebbe la prova dell’impegno degli huthi all’accordo siglato a Stoccolma l’anno scorso. D’altra parte, mette in luce Elisabeth Kendall su L’Orient Le Jour, la mossa servirebbe solo «a ottenere l’empatia e la simpatia della comunità internazionale». Infatti, negli stessi giorni il gruppo ha rivendicato un attacco lungo il confine saudo-yemenita che avrebbe portato alla morte di centinaia di soldati e alla cattura di oltre 2000 forze della coalizione a guida saudo-emiratina. Nonostante le immagini rilasciate non siano ancora state autentificate da fonti indipendenti e lascino parecchi dubbi circa l’effettiva portata dell’azione militare, la decisione di divulgare queste informazioni ha messo in difficoltà Riyadh, al punto che il capo della coalizione Turki al-Maliki è intervenuto dichiarando che quella degli huthi «è una propaganda fuorviante che non merita una reazione».

 

I Rohingya prigionieri del Bangladesh

 

In seguito agli attacchi contro le autorità del Myanmar del 2017 da parte dell’Esercito di Salvezza dei Rohingya dell’Arakan, lo Stato ha avviato una vera e propria persecuzione contro i Rohingya, costringendone quasi un milione alla fuga. Di questi, 700.00 hanno trovato rifugio in Bangladesh.

 

In merito a quanto sta accadendo ai Rohingya, l’UNHCR ha rilasciato un report in cui evidenzia come essi siano la minoranza più perseguitata in Asia. La loro situazione non è infatti migliorata, a causa del mancato accordo fra le autorità bangladesi e birmane circa le politiche di rimpatrio. Anche le ipotesi di una zona cuscinetto lungo il confine e di un ricollocamento di 100.000 Rohingya sono naufragate. Il premier del Bangladesh, Sheikh Hasina, non pare però intenzionato a cedere e ha dichiarato che «i Rohingya sono cittadini del Myanmar ed è lì che devono ritornare».

 

Di fronte all’alto numero di rifugiati, le autorità del Bangladesh hanno così avviato un piano di controllo. Molti campi profughi sono stati circondati da recinzioni con filo spinato e sono costantemente sotto osservazione. Per Human Rights Watch, queste misure sono contrarie al diritto alla libertà di movimento dei rifugiati. Le forze di sicurezza bangladesi si sono però spinte oltre, arrestando 45 persone sospettate di essere Rohingya.

 

IN BREVE

 

Iraq: Associated Press ricostruisce le proteste della popolazione: un approfondimento sugli attori, le cause dei moti e il contesto regionale.

 

Tunisia: domenica si terranno le elezioni legislative, una settimana prima del ballottaggio delle presidenziali. Il candidato Nabil Karaoui resta però ancora in carcere: una corte tunisina ha negato la richiesta di scarcerazione.

 

Afghanistan: Foreign Policy dedica un approfondimento alle recenti elezioni afghane, con particolare attenzione al ruolo assunto dalle giovani generazioni.

 
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

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