Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:01

Continua l’offensiva turca nel nordest della Siria. Come presentato dal Syrian Observatory for Human Rights, in questa seconda settimana gli scontri si sono concentrati nelle zone di Ras al-Ayn, Tal Abyad, Tal Half, Manajir, al-Arba’in, Lilan, Amiriya, al-Ahras, Tal Jammeh e al-Alya, facendo registrare circa 200 morti, in gran parte miliziani curdi. Il ricollocamento delle forze americane, che sono state costrette addirittura a bombardare una loro base per prevenire che il loro materiale cadesse in mano turca, ha però dato il via libera anche a un altro attore, la Russia. Mosca ha da subito offerto il proprio supporto alle truppe di Damasco, che hanno preso così controllo di Kobane e Manbij. Nella giornata di giovedì, dopo l’incontro fra il Vicepresidente Mike Pence e il Presidente Recep Tayyip Erdogan, la Turchia e gli Stati Uniti hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco di cinque giorni nelle zone già occupate da Ankara per permettere agli abitanti curdi di lasciare l’area. La tregua è stata avallata anche dall’Esercito siriano libero (FSA) e dalle Forze democratiche siriane (SDF), mentre le forze armate russe e siriane non sono coinvolte nell’accordo. Come ricostruisce il Guardian, già nella giornata di venerdì alcuni testimoni hanno riferito di scontri a fuoco fra Ras al-Ayn e Tal Abyad.

 

Secondo Stratfor, l’avanzata turca avrebbe tre obiettivi principali, a cui sono associati alcuni rischi. In primo luogo, la Turchia cerca di ricollocare parte dei 3,6 milioni di rifugiati siriani che, come successo ad Afrin, sostituiranno parte dell’attuale popolazione, considerata pericolosa da Ankara. L’azione comporta però due rischi. A livello locale, l’est del Paese manca di molte infrastrutture e parecchi rifugiati provenienti dall’ovest non vogliono trasferirsi in una zona estranea. A livello internazionale, un ricollocamento forzato da parte turca rischia di attirare le attenzioni di Stati Uniti ed Europa. In secondo luogo, Erdogan vuole creare una zona cuscinetto, che però rischia di inasprire i rapporti con la Siria, e quindi con Iran e Russia. In particolare, l’offensiva turca ha già avvicinato le SDF a Damasco, come ricostruito dall’ISPI. Infine, la Turchia vuole accrescere la propria influenza in Siria dopo il ritiro americano. Da un lato, ciò creerebbe tensioni fra Ankara e Iran e Mosca, a vantaggio americano; dall’altro, la Casa Bianca non vuole un’espansione incontrollabile della Turchia e ha già avviato un piano di sanzioni, aumentando i dazi sull’acciaio turco del 50%.

 

Le relazioni fra curdi e Turchia sono però ben più complesse di quanto sostenuto da Trump, che parla di “nemici naturali”. Dal punto di vista storico, nota Mustafa Akyol per il CATO Institute, i curdi erano parte integrante dell’Impero ottomano, sotto cui coabitavano diverse etnie. La svolta si ha nel 1923 con le posizioni nazionaliste di Ataturk, che non fanno altro che irrobustire gli atteggiamenti nazionalisti e indipendentisti dei curdi di Turchia; un processo che è culminato con la formazione nel 1984 del PKK. Sarebbe però sbagliato considerare il Partito curdo dei lavoratori come un’entità omogenea. Daniele Santoro su Limes mette a tal proposito in mostra gli attriti intracurdi e le differenze intercurdi, che hanno minato fin da subito il progetto di Öcalan di un “Grande Kurdistan”. La rilevanza dei curdi di Turchia per il Medio Oriente risiede non tanto nel progetto pancurdo, quanto piuttosto nella posizione “cuscinetto” che i curdi occupano nelle dinamiche fra Ankara, con le sue ambizioni imperiali, e Washington, che a queste ambizioni vuole mettere un freno. Per la Turchia, paradossalmente, i curdi rappresentano una risorsa per tre motivi: mantengono l’ordine nelle aree curde, hanno rappresentato un nemico da combattere e sono il popolo verso cui Ankara può proiettare le proprie ambizioni imperiali. Ma, come ricostruito su Foreign Policy, anche la relazione fra Stati Uniti e curdi è caratterizzata da alti e bassi, dalla politica americana di non interferenza nella guerra nel Kurdistan iracheno del 1961 al supporto – in termini di addestramento e fornitura di armi – nel 1974, su suggerimento israeliano e iraniano in funzione anti-irachena. Le fasi alterne di questi rapporti dipendono principalmente da un aspetto, ovvero la resistenza americana alla nascita di uno Stato curdo.

 

Come evidenziato da Foreign Policy, l’avanzata turca, potendo contare anche su alcuni proxies, come l’FSA, pone un ulteriore problema, ovvero la gestione dei prigionieri dell’ISIS e dei loro famigliari. I curdi hanno infatti dichiarato che con l’offensiva turca in atto non possono più occuparsi della questione. Si stima che 10.000 combattenti, di cui 2.000 stranieri, e 100.000 donne e bambini siano tenuti prigionieri nell’area sotto attacco. L’FSA, dopo aver attaccato forze curde e truppe americane a Kobane, avrebbe infatti liberato in modo volontario centinaia di affiliati al Califfato. Il governo turco invece accusa le SDF, utilizzando un video in cui viene mostrata una prigione vuota a Tal Abyad. Il Guardian parla inoltre di 250 donne e 700 bambini fuggiti dal campo di al-Issa.

 

Il rischio è duplice: un ritorno dell’ISIS nella regione e un aumento degli attacchi in Europa. Lo mette in luce il Brookings, che in questo articolo ripercorre le tappe dell’antiterrorismo occidentale dall’11 settembre a oggi. Secondo l’istituto, nei prossimi anni l’Europa dovrà fare degli ulteriori passi avanti, incrementando le risorse umane ed economiche per l’intelligence, aumentando i termini di pena per reati connessi al terrorismo e gestendo in modo più integrato e responsabile i ritorni in patria, con un occhio di riguardo per i bambini nati da combattenti dell’ISIS.

 

Tunisia: dalla Primavera Araba all’elezione di Saied

 

La Tunisia può considerarsi l’unica storia di successo delle cosiddette Primavere Arabe, anche se con diversi momenti difficili e molte sfide ancora da affrontare. Nell’ultimo numero di Foreign Affairs, Sarah Yerkes ricostruisce il percorso del Paese dal 2011, evidenziandone le tappe principali. La rimozione del laico Ben Ali e il successo del partito islamista Ennahda nelle elezioni per la formazione dell’Assemblea costituente dell’autunno del 2011 sono stati i primi passi di una transizione complessa. Un secondo momento critico si è registrato nel 2013 con la crisi del governo a guida Ennahda, ma supportato da altri due partiti laici; una crisi risolta solo grazie all’intervento di quattro attori della società civile, il cosiddetto Quartetto per il dialogo nazionale, già coinvolto nella transizione post Ben Ali. Le elezioni presidenziali e parlamentari del 2014 hanno rappresentato un terzo momento di difficoltà. La vittoria di Nidaa Tounes, una coalizione di diverse entità politiche accomunate solo da posizioni anti-islamiste e guidata dal laico Essebsi, ha infatti rischiato di compromettere la transizione. Il rischio è stato scongiurato solo con l’inaspettata alleanza fra l’ex esponente del governo di Ben Ali e il leader islamista Rached Ghannouchi. Infine, gli attentati di Tunisi del 2015 e l’ingente numero di foreign fighters tunisini arruolatisi fra le fila del Califfato hanno posto un non trascurabile problema di sicurezza.

 

Secondo l’autrice, il successo del modello tunisino risiede però in tre principali caratteristiche: il supporto economico di attori stranieri, senza che però esso si sia tramutato in un’influenza diretta sul processo post-rivoluzionario; la creazione di una politica del consenso, che ha messo da parte le frizioni del periodo precedente; una società civile forte. D’altra parte, la Tunisia deve ancora affrontare molte sfide, in parte legate al mancato avvio in contemporanea di riforme politiche ed economiche. E così, il Paese deve oggi risolvere il problema della disoccupazione, a cui è associata anche l’emigrazione di circa 100.000 lavoratori qualificati, la questione dell’alto tasso di suicidi, un’inflazione in costante crescita, un sistema giudiziario ancora non riformato e una crescente disillusione verso la politica, testimoniata anche da un’astensione alle recenti presidenziali di circa il 50%.

 

Non è dunque un caso che al secondo turno delle elezioni presidenziali siano arrivati i due candidati unanimemente riconosciuti come anti-establishment, Nabil Karoui e Kais Saied, che si è poi affermato con oltre il 75% dei consensi. Come ricostruito da Slate, Saied, candidato indipendente, è stato in grado di vincere grazie alle posizioni riformiste e federaliste in merito all’architettura istituzionale tunisina e alle proposte conservatrici in ambito sociale e religioso, ottenendo così anche il supporto di Ennahda. In particolare, si legge su Nawaat, Saied si è opposto all’uguaglianza fra uomo e donna in materia di diritto ereditario.

 

Nuove polemiche in Francia

 

Una donna musulmana, accompagnando il figlio durante una gita di classe al parlamento della regione Borgogna-Franca Contea, è stata costretta da Julien Odoul, membro del Rassemblement National di Marine Le Pen, a togliere lo hijab. La vicenda ha ovviamente suscitato molte polemiche: la donna, attraverso il suo avvocato Sana Ben Hadj, ha espresso l’intenzione di denunciare il politico per incitamento all’odio razziale e per violenza riconducibili a motivi razziali.

 

Quanto successo ha avuto una grande eco a livello mediatico e ha suscitato reazioni opposte nel mondo politico. Come riporta Europe1, il Presidente Macron ha chiesto di «non stigmatizzare i nostri concittadini musulmani», pur ribadendo la necessità di contrastare la radicalizzazione islamista. Alcuni esponenti del governo hanno preso le difese della donna, affermando che l’azione andrebbe contro la tolleranza religiosa garantita dalla laicità dello Stato. Altri ministri, come quello dell’educazione Jean-Michel Blanquer, hanno invece ribadito la contrarietà a ogni simbolo religioso – incluso il velo – in quanto in contrasto con il principio laico su cui è fondata la repubblica francese. Tasnim Nazeer sull’Independent ha parlato di «violazione dei diritti fondamentali», poiché in realtà il costante ricorso al tema della laïcité non sarebbe altro che un modo politicamente corretto di veicolare concetti islamofobi.

 

IN BREVE

 

Yemen: l’Arabia Saudita ha mediato un dialogo fra il Southern Transition Council, appoggiato dagli Emirati, e il governo Hadi per risolvere la questione meridionale. Aden è ora sotto il controllo delle forze di Riyadh.

 

Cina: il Guardian riporta di minacce del governo di Pechino a esponenti della comunità uigura in Europa.

 

Egitto: il New York Post offre un ritratto della situazione dei cristiani copti al Cairo, intervistando Padre Boutros.

 

Burkina Faso: nella giornata di venerdì scorso, un commando armato ha colpito una moschea a Salmossi, uccidendo 16 fedeli.

 
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