Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:43

L’architettura geopolitica mondiale ha identificato nello Stato-nazione l’unità fondante. Dal 1648 con la Pace di Westphalia, l’ordine internazionale è regolato da un sistema di stati, i quali occupano uno spazio geografico lineare, delimitato da confini e su cui le istituzioni esercitano la propria sovranità. Il tema del potere è divenuto così settore di analisi privilegiato. Ralph Miliband ha concepito lo stato come uno strumento per il controllo della società; Nicol Poulantzas, riprendendo Louis Althusser, ha spostato il focus sull’apparato statale, che direziona ideologicamente la fabbrica sociale attraverso il dominio sulle istituzioni; Michel Foucault ha esasperato la questione del controllo, riconoscendo infiniti apparati sociali e culturali che veicolano e rafforzano la sovranità statale. Da questa breve e non esaustiva rassegna sulle concezioni di stato, emerge però come potere e controllo fossero tradizionalmente pensati in termini orizzontali, ovvero proiettati su un territorio delimitato, e verticali, ossia orientati a una specifica popolazione.

 

In questo senso è stata rivoluzionaria l’intuizione di Gilles Deleuze e Felix Guattari nel riconoscere come il sistema degli Stati non esaurisca la totalità dello spazio: esiste una dimensione esterna, definita dagli autori francesi “spazio piano”, in cui i flussi liberi superano in numero le interazioni regolate e il controllo statale è limitato. A tal proposito è interessante riportare ciò che sostiene Benjamin Bratton:

 

“non è lo stato in sé a entrare in crisi, ma la nostra condizione attuale, che è caratterizzata da una debordante (debording) liquefazione del sistema di stati nel tentativo di mantenere il monopolio sulla geografia politica e da una straripante (overbording) proliferazione di (…) esternalità ecologiche”[1]

Le forze esogene che minavano l’ordine mondiale, arginate grazie al processo westphaliano, sono ricomparse con tratti diversi e impronosticabili. Come notato da Schmitt, «la geometria dello spazio sovrano e la specifica topologia di segmentazione sono ordini non fissati, e perciò ridefinibili»[2]. Al di là delle mire espansionistiche che continuano a nutrire alcuni Paesi e che minacciano lo status quo, è possibile apprezzare la comparsa di alcune forze destabilizzanti. Una su tutte è rappresentata dal cambiamento climatico, fenomeno tipico dell’antropocene, estraneo al progetto westphaliano e di conseguenza non controllabile attraverso gli strumenti di cui si sono dotati gli enti statali.

 

 

Cambiamento climatico: il nuovo dominus della geopolitica

Per capire la portata del fenomeno, in settimana è stato pubblicato in anteprima un report sulle conseguenze dell’aumento della temperatura media di 1,5° rispetto all’era pre-industriale. Il testo verrà presentato a Katowice durante l’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, che si terrà dal 2 al 14 dicembre. Il problema, benché di portata globale, sarà sempre più pressante in Medio-Oriente, dove si è assistito a un crollo delle precipitazioni e a un aumento costante delle temperature dal 1960 a oggi[3], con una parentesi particolarmente sfortunata fra il 2007 e il 2010[4] (non a caso nel periodo immediatamente precedente le Primavere Arabe). In questo lasso di tempo si sono registrati nei bacini del Tigri e dell’Eufrate i livelli di acqua più bassi da quando si effettuano misurazioni: un evento che ha costretto migliaia di siriani a ristabilirsi[5]. Lo stesso è accaduto in Iran, dove insufficienza d’acqua[6] e raccolti scarsi[7] hanno spinto molte persone a spostarsi.

 

Come ben riassunto in questo report della World Bank del 2018, la ripercussione principale, a causa del processo di desertificazione, sarà sulle risorse idriche, considerando che il 66% della popolazione nella regione fatica già ora ad avere accesso a fonti di acqua potabile. E infatti in questo articolo del The Guardian si ipotizza che sarà proprio l’acqua il prossimo fattore a definire lo scenario regionale, più di quanto potranno fare le politiche degli attori statali.

 

Nonostante le evidenze, lo scetticismo rispetto a un fenomeno globale comprovato quale è il cambiamento climatico perdura. Ne è un esempio la reazione quantomeno dubbiosa del Presidente Trump di fronte al report pubblicato nello scorso fine settimana dal National Climate Assessment. Secondo il Presidente americano, il problema dell’aumento delle temperature non è supportato da necessarie evidenze scientifiche e l’aumento di gas inquinanti riguarda solo altre parti del mondo.

 

Il cambiamento climatico in quanto fenomeno sovrastatale giocherà un ruolo chiave nel ridefinire gli equilibri globali, con un grande impatto nella regione mediorientale. Conflitti, tumulti, migrazioni, movimenti interni e sofferenze economiche che logorano il sistema internazionale e indeboliscono i confini dipendono anche dal mutamento del clima. Esso si configura dunque come questione politicamente rilevante, che però richiederebbe un approccio olistico che superi il particolarismo nazionale. Ogni azione intrapresa nell’area dovrà dunque considerare questo elemento, che richiederà necessariamente uno sforzo coordinato da parte della comunità internazionale. Le Nazioni Unite hanno a tal proposito ammonito circa l’urgenza di intervenire in contesti ad alto rischio, con riferimento specifico a quello yemenita e siriano, per evitare che la situazione precipiti ulteriormente.

 

 

La nuova guerra in Yemen

Lo Yemen è infatti intrappolato in un conflitto altamente complesso, ma allo stesso tempo esperisce tutti gli effetti negativi del cambiamento climatico. Solo negli ultimi sei mesi, tre cicloni hanno colpito le coste yemenite nelle province di Hadramawt e Mahra. I progetti di desalinizzazione necessari a contrastare la desertificazione non sono mai venuti alla luce, a causa di uno scontro che solo recentemente ha iniziato un percorso tortuoso di risoluzione.

 

L’esponente governativo di Sana’a Rana al-Ghanem ha confermato la presenza dell’esecutivo yemenita ai colloqui di pace che si terranno a Stoccolma a partire dal 6 dicembre sotto l’egida dell’ONU, dopo l’annuncio dell’inviato Martin Griffiths di metà novembre. In più, il Senato americano ha approvato mercoledì 28 novembre una mozione dei senatori democratici Bernie Sanders e Mike Lee per sospendere l’appoggio a Riyadh da parte della Casa Bianca. Questa mossa, insieme alle contestazioni a Mohammad bin Salman in visita a Tunisi e alla decisione di un giudice argentino di aprire un’indagine ai danni del Principe saudita in vista del G20 a Buenos Aires, rischia di privare l’Arabia Saudita di quel supporto internazionale che ha rappresentato un asset nell’avviare e nel condurre il conflitto yemenita.

 

D’altra parte, in Yemen sta per iniziare una guerra parallela, che parrebbe seguire una parabola opposta al conflitto armato. Il ruolo di internet e dei media, come nel caso delle Primavere Arabe, rischia di aprire un nuovo fronte dello scontro. Negli scorsi mesi il governo legittimo di Ab’d Rabbo Mansour Hadi ha lanciato un nuovo servizio internet, sponsorizzato dagli Emirati e realizzato con tecnologia cinese Huawei, con l’obiettivo di contrastare i contenuti web veicolati dagli houthi. Un recente report di Recorded Future evidenzia dettagliatamente come il controllo sulle infrastrutture per internet, in mano ai ribelli dalla fine del 2014, sia fondamentale nel determinare il destino del Paese.

 

 

Il complesso siriano

Considerando l’altro fronte regionale, anche la Siria ha vissuto e continua a subire i segnali del cambiamento climatico, uno fra i fattori chiave nell’attuale crisi. La guerra in essere dal 2011 si radica sicuramente in questioni confessionali, dinamiche sociali, interessi politici, deterioramento economico e un’ondata rivoluzionaria che aveva investito il Nord Africa. Come però sottolinea Gleick[8], le tensioni endemiche al contesto levantino rimandano a un ulteriore elemento: il riscaldamento globale. La scarsità d’acqua, diretta conseguenza del cambiamento climatico, ha infatti svolto l’infausto ruolo di scintilla nell’innescare malcontenti sopiti. La siccità ha inoltre contribuito a un deciso deterioramento delle colture, e di conseguenza a un calo delle attività economiche legate all’agricoltura. Se si pensa alle richieste correlate alla sfera economica come a uno dei fattori alla base dei conflitti, diventa evidente che il cambiamento climatico gioca un ruolo nell’esacerbare nervosismi presenti nel tessuto sociale.

 

Appare così chiaro come qualunque discorso sul futuro siriano non possa prescindere dal riconoscimento di cause sovranazionali che eccedono i confini statali. Eppure, ogni discorso intavolato fino a oggi sembra trascurare questa tematica. L’ultimo esempio arriva da Astana, dove in settimana si è aperta l’undicesima sessione dei negoziati per la Siria. L’iniziativa, sostenuta da Russia, Iran e Turchia e alternativa ai colloqui di Ginevra sponsorizzati dall’ONU, vedrà la partecipazione di esponenti del governo e dell’opposizione siriana, di delegati giordani e dell’inviato delle Nazioni Unite Staffan de Mistura. Grandi assenti sono gli Stati Uniti, che recentemente hanno aiutato la Turchia a proteggere il confine meridionale e che si affidano proprio ad Ankara per direzionare il processo di normalizzazione. Se da un lato la redazione di una nuova costituzione pare irrealistica, l’incontro ha almeno l’obiettivo di risolvere il nodo Idlib. La città, ultima roccaforte di gruppi armati ribelli e perciò teatro di scontri violenti, ha sofferto pesanti bombardamenti, che hanno spinto oltre 300.000 siriani a fuggire dalla zona, ridisegnando così una geografia che pare sempre più malleabile di fronte a eventi che eccedono la sovranità statale.

 


[1] Benjamin Bratton, The Stack.  On Software and Sovereignity, MIT Press, Cambridge 2015.

[2] Carl Schmitt, The Nomos of the Earth in the International Law of the Jus Publicum Europaeum, Telos Press, New York 2003.

[3] Shifa Mathbout, Joan Lopez-Bustins, Javier Martin-Vide e Fernando Rodrigo, Spatial and temporal analysis of 36 drought variability at several time scales in Syria during 1961-2012, «Atmospheric Research», vol. 1 (2017), pp. 1-39.

[4] Colin Kelley, Shahrzad Mohtadi, Mark Cane, Richard Seager e Yochanan Kushnir, Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», vol. 112 (2015), pp. 3241-3246.

[5] Ibidem.

[6] Masoud Yazdanpanah, Michael Thompson e Joanne Linnerooth-Bayer, Do Iranian Policy Makers Truly Understand And Dealing with the Risk of Climate Change Regarding Water Resource Management?, « IDRiM», vol. 1 (2016), pp. 367-368.

[7] Mohsen Saeidi, Foad Moradi e Majid Abdoli, Impact of drought stress on yield, photosynthesis rate, and sugar alcohols contents in wheat after anthesis in semiarid region of Iran, «Arid Land Research and Management», vol. 31 (2017), pp. 1-15.

[8] Peter Gleick, Water, Drought, Climate Change, and Conflict in Syria, «American Meteorological Society», vol. 6 (2014), pp. 331-340.

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