Come negli ultimi sessant’anni è avvenuto in Iran il passaggio dal tradizionalismo sciita a un’ideologia religiosa indigena e marxista capace di mobilitare le masse fino alla Rivoluzione del ’79

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:30

Come negli ultimi sessant’anni è avvenuto in Iran il passaggio dal tradizionalismo sciita a un’ideologia religiosa indigena e marxista capace di mobilitare le masse fino alla Rivoluzione del ’79. E come, poi, quasi per reazione all’islamizzazione imposta dall’alto, si è generato un discorso rifomista dai tratti particolari: “puritano” e minimalista rispetto al ruolo della religione nella sfera pubblica, e deciso a fondarsi su una nuova teologia.

Sebbene il processo di modernizzazione e il suo impatto sulla religione sia stato più o meno identico in tutte le società musulmane, in nessun altro luogo la trasformazione del discorso religioso è stata tanto evidente quanto nell’Iran degli ultimi sessant’anni. A partire dagli anni ’60 si possono riconoscere due fasi distinte del discorso religioso. Queste fasi di trasformazione, che corrispondono al periodo pre- e post-rivoluzionario, saranno designate rispettivamente come discorso “ideologico/rivoluzionario” e discorso “post-ideologico/riformista”.

In questo breve saggio mi propongo di spiegare, senza entrare troppo nei dettagli, tali cambiamenti religiosi. Innanzitutto illustrerò brevemente il contesto entro il quale ha avuto luogo il passaggio tipicamente moderno dal tradizionalismo al discorso ideologico/politico. In seguito presenterò alcune delle caratteristiche principali di questi due tipi di discorso islamico. L’analisi si concentrerà su alcuni temi: ruolo della religione e del clero in politica e nello Stato, modernità e modernizzazione, Occidente, donne, testi religiosi e sharî‘a.

Prima della fase rivoluzionaria il discorso religioso maggioritario era prerogativa degli ulema e degli studiosi sciiti tradizionali. Tuttavia, a partire dagli inizi del Novecento e dopo decenni di secolarizzazione e modernizzazione imposte dall’alto dallo Stato dei Pahlavi, la differenziazione istituzionale tra sacro e profano appariva ormai quasi completa. La religione si era ritirata dalla sfera pubblica per essere relegata nei seminari, nelle moschee e nella vita privata delle persone. L’unica manifestazione pubblica dell’Islam, oltre alle insipide preghiere congregazionali, era la partecipazione popolare alle cerimonie di Muharram che commemoravano il martirio dell’imam Husayn, nipote del Profeta, ucciso per la causa della giustizia e della virtù. Nella società l’occidentalizzazione e la secolarizzazione la facevano da padrone e la religione era considerata irrilevante per il progresso moderno o, nel migliore dei casi, come una questione puramente privata. Nel contesto della Guerra Fredda e della rivalità sempre più intensa tra Unione Sovietica e Occidente, era secondo queste linee che si divideva l’élite intellettuale e politica del Paese, all’epoca alleato dell’Occidente e roccaforte della presenza statunitense nella regione.

 

Tra Marx e il Bazar

L’avanguardia dominante, critica verso il processo di rapida occidentalizzazione, faceva capo all’intellighenzia socialista marxista e propagandava, soprattutto nelle università e nei sindacati, le proprie ideologie di opposizione a capitalismo, liberalismo e imperialismo occidentale. Ciononostante i due settori più profondamente religiosi, cioè le masse e il Bazar, cuore economico dell’Iran, non potevano comprendere questi concetti e questi linguaggi stranieri e ateistici. Pur essendo contrari alle politiche laiche del regime dei Pahlavi, questi segmenti della popolazione non erano organizzati né avevano un’ideologia alternativa per combatterle e perciò rimasero fedeli agli ulema sciiti di rango elevato (maraje‘: fonti di emulazione). I maraje‘ non si interessavano di politica e si occupavano solo d’insegnamento. Faceva eccezione l’Ayatollah Khomeini, che nel 1963 aveva guidato una rivolta popolare contro le politiche dello Scià e per questo era stato mandato in esilio in Iraq. Insieme a lui erano stati esiliati o imprigionati anche alcuni suoi seguaci. È in questo scenario che, al di fuori del clero tradizionale, emersero alcuni intellettuali religiosamente sensibili, i quali manifestarono il proprio malcontento per lo status quo religioso e socio-politico[1]. Da allora questo nuovo gruppo di intellettuali religiosi, per quanto esiguo, esercitò e continua a esercitare un’enorme influenza nel modellare e rimodellare il pensiero e il discorso religioso in Iran. Due figure di spicco del periodo pre-rivoluzionario sono in particolare Mehdi Bazargan e ‘Ali Shari‘ati.

Mehdi Bazargan (1907-1995), professore di Ingegneria presso l’Università di Teheran, di formazione francese, è considerato il padre dell’intellettualismo religioso in Iran e sarebbe poi stato nominato dall’Ayatollah Khomeini Primo Ministro del governo provvisorio del regime islamico. Bazargan si era posto l’obiettivo di mostrare ai giovani istruiti che l’Islam è compatibile con la scienza e il progresso e che essi non avevano perciò alcuna necessità di abbandonare la fede per diventare moderni. Al tentativo di Bazargan di presentare gli insegnamenti tradizionali del Corano in un linguaggio moderno e quasi scientifico, comprensibile da una classe colta allora in crescita, si unirono alcuni esponenti del clero mentalmente aperti e socialmente consapevoli, come Sayyid Mahmud Taliqani e Mortaza Mottahari. Il loro revivalismo puntava a rafforzare una religione diventata nell’Iran moderno piuttosto disfunzionale sia alla vita privata che a quella pubblica. Benché politicamente attivi e critici verso il governo autoritario dello Scià, essi non promossero alcuna rivoluzione, né piattaforme religiose per la creazione di un nuovo ordine politico. Piuttosto, nello spirito del tempo, essi riconoscevano la necessità di un’“ideologia” indigena e familiare come motore del cambiamento, che ovviamente avrebbe dovuto essere rappresentata dall’Islam. Bazargan mostrava un atteggiamento positivo verso l’Occidente. Per lui il progresso scientifico e materiale dell’Occidente, lo Stato di diritto, la libertà di pensiero, la disciplina e il lavoro alacre dei cittadini responsabili erano compatibili con gli insegnamenti islamici. Quello di Bazargan era un modernismo religioso molto misurato. Pur essendo fonte d’ispirazione per i giovani istruiti, non era rivoluzionario. Il suo ideale era una religiosità fatta di pietà personale, fortemente etica nelle relazioni con gli altri, estremamente responsabile, dedita ai doveri sociali e alla partecipazione politica. L’enfasi sulla libertà politica come norma islamica esemplificata dalla nozione coranica di shûrâ (consultazione) spinse Bazargan a fondare il Movimento iraniano per la Libertà, il primo vero partito politico nazionalista religiosamente orientato[2].

 

La terza via di Shari‘ati

Il revivalismo islamico prese una piega più radicale con l’ascesa, tra il 1965 e il 1967, di ‘Ali Shari‘ati, considerato l’architetto del discorso ideologico dell’Islam politico rivoluzionario in Iran. Shari‘ati, di una generazione più giovane di Bazargan e laureato alla Sorbona, era professore di storia e letteratura e vantava una preparazione approfondita anche in sociologia. In Francia aveva conosciuto il Movimento di Liberazione algerino e alcuni gruppi marxisti organizzati. Apparteneva a una generazione di giovani iraniani colti le cui speranze politiche di salvare il governo democratico e nazionalista di Mossadeq erano state infrante dal colpo di stato architettato dagli Stati Uniti nel 1953, che aveva riportato al potere lo Scià e il suo autoritarismo, determinando una crescente presenza statunitense durante la Guerra fredda. In reazione allo status quo, i gruppi socialisti marxisti erano diventati i più attivi e prestigiosi reclutatori di questa generazione frustrata, se non gli unici. Per pensatori sensibili come Shari‘ati, l’influenza crescente dell’ideologia marxista e delle sue organizzazioni di guerriglia erano estremamente allarmanti. Ritenendo il clero tradizionale e il suo discorso incapaci di controbilanciare da un lato l’ondata di occidentalizzazione laica dello Stato e dall’altro la crescente popolarità del marxismo, Shari‘ati iniziò a creare una terza alternativa: l’ideologia islamica[3].

 

Attivismo fino al martirio

Volendo risuscitare quello che credeva essere il “vero” messaggio dell’Islam, Shari‘ati non ebbe timore di attingere a elementi esterni alla religione per rafforzarla nella sfida contro i suoi concorrenti. Shari‘ati prese a prestito e copiò la struttura ideologica e le categorie del marxismo, riempiendole di espressioni e simboli sciiti così da creare un’ideologia islamica. La sua predicazione ideologica fu efficace se consideriamo la capacità che il suo discorso rivoluzionario dimostrò nel mobilitare le masse durante la rivoluzione. L’attivismo, il sacrificio di sé per il bene comune, la resistenza e il martirio erano alcuni dei temi più importanti di questo discorso ideologico e rivoluzionario. Rispetto al tradizionalismo pacifico, esso si basava su una lettura selettiva e letterale del testo coranico accompagnata da alcune interpretazioni arbitrarie e poco ortodosse. In altre parole, questa lettura dell’Islam orientata all’azione trattava la scrittura e la tradizione secondo una razionalità strumentale che mirava a scuotere, mobilitare e abbattere l’establishment, fosse esso religioso o laico. In considerazione degli obiettivi ideologici prefissati, la visione coranica del mondo e la storia islamica ricadevano nel dualismo del bianco e del nero, del vero e del falso, del towhidi (monoteismo) e del taqouti (idolatria materiale). La storia dello sciismo con il suo ricco simbolismo del martirio fornì a Shari‘ati il mezzo migliore per manipolare la “verità” dello sciismo attraverso la vita degli Imam, dimostrando che la “vera” fede e la “vera” religiosità sono ben più della pietà personale e dell’osservanza rituale. Lo sciismo pacifico e quietista concentrato sull’aldilà veniva così condannato, mentre si elogiava lo sciismo “rosso” di resistenza attiva e rivoluzione in questo mondo. Shari‘ati criticò con veemenza anche le raccolte canoniche di hadîth, accusandole di promuovere l’apatia e ostacolare l’attivismo socio-politico.

All’Occidente Shari‘ati riservava la sua critica più aspra per l’egemonia politica e culturale che esso esercitava sui mostaz‘afin della terra (termine coranico che indica gli oppressi), privati della loro dignità umana e del progresso perché le loro ricchezze naturali e le loro risorse umane erano state sperperate dal colonialismo occidentale e dall’imperialismo. Questo aspetto distruttivo dell’imperialismo e del capitalismo era solo una faccia della medaglia della cultura occidentale moderna che, internamente, sviliva il suo stesso popolo asservendolo a quello che veniva definito un macchinismo, un processo di alienazione dell’uomo dal vero sé, a servizio del materialismo e del consumismo e senza possibilità di riflettere sulla propria situazione. Shari‘ati criticava l’umanesimo moderno per aver privato l’umanità del desiderio di coltivare un rapporto con la propria dimensione trascendente mediante la quale adempiere alla responsabilità di essere sulla terra vicario di Dio[4].

 

Donne, non solo devote

Il discorso ideologico pre-rivoluzionario conferiva una voce e un ruolo anche alle donne, andando oltre quello tradizionale di madri e mogli devote. La narrazione di Shari‘ati sulla vita di Fatima e Zaynab, rispettivamente figlia e nipote del Profeta, nonché moglie e figlia del primo imam ‘Alî, forniva dei modelli di riferimento per le ragazze e le donne, il cui sostegno pubblico e il cui coinvolgimento nel processo rivoluzionario si rivelarono cruciali. Nella lettura delle origini dell’Islam propria di Shari‘ati, la maternità non impediva alle donne di prendere parte agli affari politici e sociali. Dopo la morte del padre, Fatima aveva difeso energicamente il marito ‘Alî e i suo diritti contro le cospirazioni politiche che miravano a usurpare i privilegi religiosi e politici degli ahl-ul-bayt (la famiglia del Profeta). Zaynab, l’eroina di Kerbala, non solo era scesa in battaglia a fianco del fratello Husayn contro il Califfo omayyade, illegittimo e tirannico, ma si era fatta messaggera della rivoluzione di Husayn, portando al mondo il messaggio del suo martirio. Pertanto una donna responsabile, coscienziosa e credente non avrebbe dovuto assistere passivamente al manifestarsi delle egemonie culturali di ogni tipo con cui l’Occidente la trasformava in oggetto immaginato di materialismo, sessismo e consumismo in nome del modernismo. Né le andava permesso di farsi stordire e degradare in nome della tradizione e della religione.

Il successo della Rivoluzione del 1979 ovviamente non dev’essere attribuito solo a questo cambiamento del discorso religioso. È tuttavia innegabile che la popolarità di questa ideologia religiosa autoctona abbia aperto la strada a una mobilitazione delle masse senza precedenti e alla rapida assunzione della guida della rivoluzione da parte dell’Ayatollah Khomeini.

 

Il discorso giurisprudenziale

Lasciatosi alle spalle gli anni rivoluzionari con le loro turbolenze socio-politiche, lo Stato islamico si consolidò creando le proprie istituzioni e promuovendo un’interpretazione ufficiale dell’Islam sciita che è tutt’ora il linguaggio politico-religioso ufficiale del potere in Iran. Questo discorso religioso ufficiale offre simultaneamente al tradizionalismo, al conservatorismo militante e al populismo dei titoli di nobiltà rivoluzionaria. Esso si basa esclusivamente su interpretazioni conservatrici del Corano e degli hadîth, senza alcuna valutazione storico-critica. Questo discorso può essere definito “discorso giurisprudenziale” dato che la sua caratteristica più saliente è l’interpretazione e l’applicazione della sharî‘a. In forza di esso, il ruolo e la presenza del chierico-giurista pervadono la sfera pubblica. Il discorso islamico giurisprudenziale rimane nella sua veste ufficiale altamente politico. Non solo non separa religione e Stato, ma sostiene che la sharî‘a abbia la risposta e la soluzione a ogni sorta di questioni e problemi mondani. Esso promuove la massima presenza della religione nella politica sostenendo che le leggi della sharî‘a forniscano una piattaforma politica globale e che lo Stato islamico beneficia della sovranità e della legittimità divina, di gran lunga superiori rispetto alla sovranità e alla legittimità popolare. La velayat-e faqih (il governo del giurisperito), la forma ufficiale di governo, garantisce un potere religioso e politico assoluto alla Guida Suprema, un giurisperito in cui sacro e profano sono uniti in un’unica funzione. Essa esige l’obbedienza assoluta alla Guida Suprema non solo in campo politico ma anche in ambito religioso, culturale e sociale, per questioni che vanno dai ruoli di genere all’estetica, alle manifestazioni artistiche, alla politica estera… Nel tentativo di patrocinare la causa degli oppressi, questo discorso islamico ufficiale ha mantenuto fedelmente gli slogan anti-imperialisti, anti-secolaristi e anti-liberali dell’epoca rivoluzionaria. Lo fa soprattutto utilizzando il linguaggio messianico della dottrina sciita del mahdismo, ovvero il ritorno dell’Imam atteso, il cui regno porterà pace e giustizia universale.

 

Il discorso post-ideologico

Così come il discorso islamico ideologico rivoluzionario era stato una reazione alla secolarizzazione imposta dall’alto prima della Rivoluzione, ugualmente il riscorso riformista è una reazione all’islamizzazione dall’alto. La tendenza riformista è diventata nota in tutto il mondo con l’ascesa del chierico moderato Mohammad Khatami alla Presidenza (1997-2005). Ma l’avvio delle riforme politiche, che mettevano in risalto la sovranità pubblica e le libertà socio-politiche, era stato preceduto da un movimento religioso e intellettuale attivo già da circa un decennio. Il discorso riformista religioso, iniziato alla fine degli anni ’80, ha infatti dato forma a un movimento sociale e a un movimento religioso che insieme sfidano i fondamenti intellettuali del discorso religioso e ideologico dominante[5]. Questo discorso religioso sovversivo promuove una valutazione critica della lettura ufficiale dell’Islam ed è stato reso popolare da intellettuali laici (non facenti parte del clero) ma religiosamente sensibili, che per qualche tempo hanno goduto di una seppur limitata e relativa libertà di parola. Intellettuali religiosi come il filosofo Abdulkarim Soroush e l’ex chierico e teologo Mohammed Mojtahed Shabestari hanno guidato i nuovi dibattiti epistemologici ed ermeneutici su temi quali la molteplicità delle interpretazioni dei testi sacri, religione e scienza, religione e razionalismo moderno, pluralismo religioso e democrazia. Le loro idee sono comparse inizialmente sul mensile culturale Kiyan (1990-2001), divenuto l’autorevole forum dei riformatori religiosi.

Abdulkarim Soroush ha iniziato criticando l’ideologizzazione della religione da parte di ‘Alî Shari‘ati. Le sue numerose conferenze e pubblicazioni, nelle quali spiega come e perché la religione in quanto fede debba essere liberata dall’ideologia e dalla politica, ha messo in moto una nuova tendenza del discorso islamico nell’Iran post-rivoluzionario e post-bellico. Questo discorso riformista tuttavia non promuove l’apatia verso la situazione politica e sociale, ma mette l’accento sulla partecipazione pubblica nel processo decisionale a tutti i livelli della gestione sociale, politica ed economica, attraverso strumenti democratici. Considera l’impegno nella vita pubblica un “diritto” dei cittadini, che lo esercitano discrezionalmente in virtù della loro libera volontà, e non in quanto “obbligo” religioso, come invece richiede un sistema politico ideologico religioso[6]. Il discorso riformista ha un approccio “minimalista” rispetto al ruolo della religione nella sfera pubblica. In questo senso esso fa propria una tendenza puritana che punta a eliminare gli elementi indebitamente aggiunti alla fede come risultato della sua politicizzazione. Ciò nonostante, rimane un discorso revivalista.

 

Non ritualismo, ma esperienza spirituale

A differenza della fase precedente del discorso islamico, che riesumava le funzioni politiche dell’Islam, questo discorso si propone di rivivificare l’aspetto etico, trascurato ed emarginato nel sistema ideologico basato sulla sharî‘a. Esso afferma che la sharî‘a e la giurisprudenza non sono né dovrebbero diventare la totalità della religione a scapito della sua dimensione etica e spirituale. Gli intellettuali riformisti post-rivoluzionari pongono con forza “l’esperienza religiosa” o la fede intima (îmân) al centro di qualsiasi definizione di religione. Per loro la religiosità è un’esperienza spirituale del divino più che un ritualismo o delle pratiche esteriori (‘amal) promosse dal governo giuridico-politico. La retorica riformista rappresenta Dio come il compassionevole, il Dio amante proprio dei mistici, piuttosto che il Dio tremendo dei giuristi o il Dio combattivo dei militanti ideologici. Dio è fonte di persuasione, non di coercizione. Osservare i comandamenti religiosi e i rituali dovrebbe perciò essere espressione di amore per Dio piuttosto che cieca obbedienza per timore della punizione ultraterrena o per paura dell’incapacità di adempiere gli obblighi ideologici.

L’accento è messo sull’esperienza religiosa e la profezia e il profetismo ne sono considerati la forma più elevata, mentre la rivelazione è intesa come un derivato di questa esperienza “profetica” unica[7]. Il testo sacro del Corano non è un libro di legge, come lo presentano i giuristi. Esso è innanzitutto espressione dell’esperienza d’incontro del Profeta con il Divino, presentata nei limiti del linguaggio umano e nel contesto socio-storico del tempo.

Dal momento che l’esperienza religiosa è per sua natura pluralista, questo discorso riformista sostiene la diversità in opposizione all’uniformità delle espressioni religiose. Dal punto di vista pratico, la diversità attiene alla comprensione e alle interpretazioni della religione e perciò richiede flessibilità e tolleranza piuttosto che una rigidità esclusivista.

 

Il bisogno di una teologia nuova

Rispetto ai testi sacri – il Corano e gli hadîth – gli intellettuali riformisti adottano un approccio storico-critico ed epistemologico. Inizialmente si è dato risalto alla molteplicità delle interpretazioni della religione. Poi, nelle loro teorie sulla rivelazione e sul Corano, Soroush e Shabestari hanno assunto una posizione poco ortodossa, mettendo l’accento sul ruolo dell’intermediazione umana del Profeta Muhammad e del suo contesto culturale, senza tuttavia negare la sacralità della sua esperienza rivelatrice. Si tratta di un passo molto significativo verso il loro obiettivo primario di introdurre una nuova teologia come fondamento sistemico della riforma nel pensiero islamico[8]. Essi sostengono che una riforma sostenibile richieda una rivalutazione e riformulazione dei principi teologici come prerequisito della riforma giuridica, perché è a questo livello che si definisce il rapporto divino-umano. Sporadiche riforme giurisprudenziali e giuridiche, per quanto ben accette, offrono solo rimedi parziali e frammentari. Questa convinzione di fondo si riflette anche nella loro posizione rispetto al ruolo del clero. La natura multidimensionale della religione e le sue molteplici interpretazioni non implicano alcun diritto “a priori” per i giuristi, né in materia religiosa né politica.

Per quanto riguarda la modernità e l’Occidente, il discorso riformista adotta un approccio di non-rifiuto e di non-antagonismo, ma comunque critico. Poiché il movimento riformista è anche un nuovo tipo di modernismo religioso, esso accoglie selettivamente alcune conquiste intellettuali umane frutto della modernità post-illuminista, ma non la riconosce come unica forma di modernità. In altre parole esso cerca una propria forma di modernità tra le modernità multiple. Soroush separa il secolarismo filosofico (che nega la trascendenza) e il secolarismo politico (la separazione istituzionale tra religione e Stato). Mentre approva quest’ultimo, promuove una sorta di secolarizzazione che riconosca la dimensione spirituale dell’esistenza umana e la faccia fiorire. Attribuisce il primato alla ragione umana e alla razionalità ma non la ritiene l’unica fonte o forza capace di guidare gli esseri umani verso il progresso e la dignità umana. Il discorso riformista critica allo stesso modo il dispotismo religioso e il secolarismo radicale militante, così come l’egemonia politica dell’Occidente.

Quanto alle donne, grazie alle elaborazioni intellettuali e ai dibattiti su diversi aspetti dei testi religiosi, sulle autorità, sulle leggi e pratiche religiose, le donne riformiste iraniane hanno potuto unirsi alle voci laiche a favore dei diritti femminili, sviluppando un loro discorso, organizzazioni proprie e riviste proprie che danno voce alle loro preoccupazioni. Nonostante le restrizioni e le resistenze dei giuristi ufficiali, esse sono così riuscite a ottenere un certo riconoscimento. Anche se i risultati concreti possono apparire piccoli, la loro consapevolezza di fondo è molto promettente e alla fine condurrà a cambiamenti più sostanziali[9].

Come rivela questa panoramica sinottica, il pensiero islamico in Iran non è rimasto stagnante. Il suo dinamismo ha conosciuto alti e bassi, ma continua a progredire nel tempo.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

[1] Forough Jahanbakhsh, The Emergence and Development of Religious Intellectualism in Iran, «Historical Reflections», 3 (2004), vol. 30, pp. 469-490.

[2] Forough Jahanbakhsh, Islam, Democracy and Religious Modernism in Iran: From Bazargan to Soroush, Brill, Leiden 2001.

[3] Ali Rahnema, Islamic Utopian: a Political Biography of Ali Shari`ati, I.B. Tauris, London 2000.

[4] Mehrzad Boroujerdi, Iranian Intellectuals and the West, Syracuse University Press, Syracuse 1996; Farhang Rajaee, Islamism and Modernism: The Changing Discourse in Iran, University of Texas Press, Austin 2007.

[5] Forough Jahanbakhsh, Religious and Political Discourse in Iran: Moving Toward Post-Fundamentalism, «The Brown Journal of World Affairs» 9 (2003), pp. 243-354.

[6] Abdulkarim Soroush, Reason, Freedom and Democracy in Islam, Oxford University Press, Oxford 2000.

[7] Abdulkarim Soroush, The Expansion of Prophetic Experience: Essays in Historicity, Contingency and Plurality in Religion, Leiden, Brill 2009.

[8] Forough Jahanbakhsh, A Neo-Rationalist Approach to Islam in Ibi, pp. x-xlviii.

[9] Asef Bayat, Making Islam Democratic: Social Movements and the Post-Islamist Turn, Stanford University Press, Redwood City 2007.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Forough Jahanbakhsh, Qualcosa di nuovo da Teheran, «Oasis», anno XI, n. 21, giugno 2015, pp. 42-51.

 

Riferimento al formato digitale:

Forough Jahanbakhsh, Qualcosa di nuovo da Teheran, «Oasis» [online], pubblicato il 12 giugno 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/qualcosa-di-nuovo-da-teheran

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