La storia di Phaim, immigrato di seconda generazione, “50% bangla, 50% Italia, 100% Torpigna”, in una Roma inedita e cool

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:54

Divertente ma anche irritante, sorprendente eppure già visto: si può dire veramente di tutto, o quasi, davanti a un film come Bangla. A cominciare dall’insolita genesi che ne segna la costruzione: un programma tv, Nemo – Nessuno è escluso, che racconta la storia di un ragazzo romano di origini bangladesi, Phaim.

 

Un produttore, Procacci, patron di Fandango, che insieme a Tim Vision rilancia la narrazione, dopo avere scoperto che il protagonista è studente di cinema allo IED, trasformandola in un film agrodolce scritto dal regista insieme a Vanessa Picciarelli.

 

Gli elementi che giocano a favore del successo di questa opera prima sono parecchi: innanzitutto, l’ambientazione a Tor Pignattara, un quartiere multietnico di Roma al quale i giganteschi e suggestivi murales firmati da Carlos Atoche, la movida qui traslocata da piazza Vittorio, i ristorantini etnici e i negozi artigianali con le scritte in arabo hanno offerto una nuova identità. Poi, lui, regista e protagonista, Phaim  Bhuiyan. Corporatura esile, occhi grandi, preferibilmente sbarrati, una pronuncia romanesca che suona improbabile quando recita, guardando in macchina come certi cartoni animati:

«Mi chiamo Phaim, ho 22 anni e, anche se mi vedete un po’ negro, in realtà sono italiano, diciamo una via di mezzo, tipo cappuccino. 50% bangla, 50% Italia, 100% Torpigna»

Infine, fondamentali per il successo del film, sono i temi affrontati, solo apparentemente scomodi, in realtà furbetti – ad essere gentili: sesso e musica in testa, e la malizia leggera con cui sono trattati.

Fa ridere Phaim che consegna la pizza a una ragazza molto sexy e scappa quando lei cerca di pagarlo in natura. Fa ridere Phaim che in moschea interroga l’imam sulle poche cose che secondo l’Islam si possono fare e le tante che sono proibite. E fa sorridere anche l’espressione ricorrente che assume – immobile, gli occhi spalancati e la bocca aperta – davanti alle ragazze che gli piacciono: tutte o quasi.

 

Però, bisogna ammettere che dieci minuti dopo l’inizio, è come se il film fosse finito. O almeno, sappiamo di sicuro come va avanti. Sarà anche per questo che le varie recensioni che lo elogiano, citandone la fortuna al botteghino e i tanti (forse troppi) premi vinti – dal Nastro d’Argento di Taormina al Globo d’oro per il miglior film d’esordio, fino al premio del pubblico al festival di Lisbona –, tirano sempre in ballo qualche altro film: The night of, la serie HBO di Steven Zaillian, Sta per piovere di Haider Rashid, The big sick di Kumail Najial, My beautiful laundrette (addirittura!) di Stephen Frears. Perché la prima impressione che il film lascia è quella, che abbia preso qui e là.

 

Di sicuro, c’è che Phaim è uno come tanti, figlio nostro, nato in Italia da genitori bangladesi, immigrato di seconda generazione, musulmano per storia e per caso. Oltre a portare le pizze, lavora come steward in un museo: paradossale portavoce di ammonimenti e divieti (“please no picture”), è integrato, ironico, tollerante. Uno senza pregiudizi, che si arrangia e di problemi non ne ha. A parte la mamma dittatrice e una sorella sdegnosa, la bocca a culo di gallina quando lo scruta, a parte un padre viaggiatore, ex mozzo vissuto solo sul ponte delle navi, oggi commerciante, che cita aneddoti a sproposito, a parte gli amici sfigati e un consigliere spacciatore, Matteo, prezioso perché fuma e sta zitto.

 

A parte tutta la fauna che gli sta intorno, Phaim ha un unico, immenso cruccio: il sesso.

«Musulmano praticante: non bevo, non fumo, non mangio maiale, ovviamente, e – che ve lo dico a fare? – niente sesso prima del matrimonio»

Ma perché non lo pratichi, in realtà, resta un mistero fino alla fine del film. È una domanda così ingombrante, nella sua vita, questa del sesso, che stupisce come tutti diano per scontata la risposta, come nessuno gli chieda mai “perché no”. A un cattolico lo chiederebbero di sicuro. E invece, non lo domanda il protagonista al giovane imam, che ha troppe risposte a pochi interrogativi e non lo chiede Asia (Carlotta Antonelli, bravissima esordiente) a lui, di cui forse si innamora per il rigore che intuisce dietro quella faccia un po’ così, per l’attesa che la attira anche se non ne capisce il senso, per quell’ordine che lui comunque rappresenta, rispetto al caos della vita familiare di lei.

 

Di veramente bello, in questa commedia furbetta, c’è una città, Roma, inedita e cool, reinventata così bene che persino il caos del traffico ha un suo perché. Ma più che a Pasolini e ai suoi Comizi d’amore, più che alla perduta innocenza delle borgate, il film fa pensare al vagabondare in periferia di Nanni Moretti nella estate caldissima di Caro diario. D’altra parte, lui stesso deve essersi rispecchiato in qualche scena del film di Bhuiyan, se lo ha scelto per chiudere la rassegna “Bimbi belli”, dedicata ai giovani talenti e al cinema di domani. In comune tra i due registi, c’è soprattutto l’uso poetico della città come proiezione di un sentimento. La città si racconta, attraverso i frammenti delle immagini che ci raggiungono, come una bellezza ancora possibile, nonostante lo scantinato dove abita la famiglia bengalese, i locali squallidi della moschea, i palazzoni abusivi, i parchi presidiati dagli spacciatori. Malgrado il regista, si arriva a dire, perché le parole della voce fuori campo, quel flusso di coscienza che scorre continuo nel film, negano quello che le immagini mostrano. Ci raccontano di una Roma bella per caso: perché è zona di frontiera, perché è multietnica, perché mescola l’odore della lasagne a quello del kebab. E ignorano invece che si tratta di una bellezza antica, una grande bellezza – questa sì – cui forse non sono estranee le catacombe per cui una volta la zona era famosa, le chiese, i parchi, fiore all’occhiello di un quartiere nato per la gente. Phaim non sa che qui, una volta, c’era un popolo tenuto insieme da qualcosa: e chiacchera e ride un po’ a vanvera delle tre bande che oggi si spartiscono il territorio, «gli stranieri, gli hipster, e poi ci stanno i vecchi».

 

Phaim sa poco ma forse non è per caso che l’unico italiano vero del film – italiano al 100%, direbbe lui – sia Olmo, il padre di Asia, che suona la chitarra come un ragazzino, che si emoziona ai provini cui partecipa perché, alla sua età, ancora sogna di fare l’attore. Olmo, abbandonato dalla moglie lesbica per un’altra donna con la quale ha fatto un bambino tramite l’inseminazione artificiale, abbarbicato al rock italiano degli anni ’90, sa molto meno di Phaim. Anzi, non sa proprio nulla che non sia il pensiero comune. Olmo, che non capisce perché l’Italia venga considerata dagli stranieri come un “corridoio” che porta soltanto a una diversa, nuovissima e possibile patria, definisce “paese di m….” la legislazione italiana che prevede per i figli degli immigrati la cittadinanza a 18 anni. “Riempiendo un semplice modulo”, precisa Phaim, con quel suo modo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Se Olmo è il relitto di oggi, segno di una perdita di identità che a prenderla sul serio farebbe paura, Phaim è l’italiano di domani, uno che guarda e ascolta, che magari non capisce tutto ma sospende i giudizi e i commenti. Se la pensa come Olmo, non lo dice. Lascia uno spazio allo spettatore. Chapeau. È giovane, lasciamolo lavorare: col tempo, potrebbe anche imparare a fare e a farsi le domande giuste.

 

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