Dai giornali del Medio Oriente emerge l’immagine di un Iran in trasformazione, ma che è costantemente attraversato da difficoltà e contrasti interni

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:18

Era l’11 febbraio del 1979. Dopo mesi di scontri e proteste popolari, l’esercito iraniano annunciava il suo ritiro dalla lotta, sancendo così la caduta definitiva del regime dello Shah Reza Pahlavi e la salita al potere dell’Ayatollah Khomeini. Poco più di un mese dopo questo percorso avrebbe portato alla nascita ufficiale della Repubblica Islamica d’Iran.

 

Per quanto l’evento abbia inciso profondamente sulla storia del Medio Oriente, nel quarantesimo anniversario della rivoluzione la stampa araba non ha dato troppo spazio a questa ricorrenza, mentre tra i giornali che si sono occupati della tematica spiccano le voci critiche delle testate vicine all’Arabia Saudita o agli Emirati Arabi.

 

Una di queste è il quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat, che in un articolo del suo direttore Ghassan Charbel definisce i quarant’anni il momento in cui ci si allontana dall’adolescenza e dalla frenesia della gioventù. Si tratta di «un’opportunità per riconciliarsi con gli eventi e per passare dal tempo dello scontro e dei muri al tempo della convivenza e dei ponti». Ma l’Iran, continua il giornalista, sembra invece muoversi in direzione opposta. Charbel non contesta le scelte interne del popolo iraniano e la sua volontà di aderire agli ideali abbracciati nel ’79, ma le azioni con cui il Paese sciita mina la stabilità regionale: «l’Iran ha diritto di scuotere gli equilibri della regione?». In particolare, l’articolo si scaglia contro la presenza militare iraniana al di fuori dei suoi confini territoriali, interrogandosi sui sentimenti dell’iraniano medio verso questa situazione: cosa prova – si chiede – «orgoglio nazionale»? Con una serie di incalzanti domande rivolte agli iraniani nati dopo il 1979, l’autore descrive un Paese che dietro allo slogan «a morte  l’America», gridato da centinaia di manifestanti iraniani durante i festeggiamenti per l’anniversario, nasconde il fallimento nel combattere la povertà, la disoccupazione e le conseguenze economiche delle sanzioni americane; uno Stato in cui 30 milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà; una rivoluzione – si legge ancora – che dopo quarant’anni non ha migliorato la vita delle persone, ma al contrario ne ha affossato le risorse economiche, preferendo l’acquisto dei missili agli investimenti a favore della popolazione.

 

Le problematiche economiche del Paese sono strettamente collegate al suo posizionamento internazionale, oggetto previlegiato delle valutazioni sulla rivoluzione del 1979. È su queste tensioni che si concentra la giornalista Farah al-Zaman Shawqi sul quotidiano al-Arabi al-Jadīd (filo-qatariota a anti-saudita), descrivendo i quarant’anni della rivoluzione iraniana come un «accumulo di crisi e inimicizie». L’autrice parla infatti di un Paese che, in quattro decenni, ha vissuto molti cambiamenti, soprattutto nelle relazioni con gli altri Stati, vicini e lontani. A suo parere, però, la principale evoluzione ha riguardato il rapporto con gli USA: l’Iran è passato dall’essere «un amico e poliziotto dell’America nella regione, a essere un suo nemico». Uno scontro che, dopo la reintroduzione delle sanzioni americane contro la Repubblica Islamica e il ritiro di Trump dall’accordo nucleare, è diventato particolarmente complesso, andando a coinvolgere non solo i due Paesi, ma una serie di attori regionali che si sentono minacciati dalla posizione di Teheran. La leadership iraniana – si legge – è consapevole della gravità del panorama interno, soprattutto dopo le proteste del Movimento Verde che hanno fatto seguito alle elezioni presidenziali del 2009: la generazione più giovane, che non ha vissuto la rivoluzione, esige soluzioni ai problemi di cui soffre, e contesta la politica estera del governo. Dopo il ritorno di Khomeini e la partenza dello Shah – aggiunge Shawqi – l’Iran è stato costretto a ripiegarsi su se stesso a causa della trasformazione delle sue relazioni estere e delle sofferenze che seguirono alla rivoluzione, tra la guerra con l’Iraq e le dissidenze interne. Dopo questi primi dieci anni, è iniziata una fase di ricostruzione interna, in cui il Paese ha mirato all’autosufficienza economica, raggiungendola solo in parte: le condizioni economiche della popolazione sono infatti oggi influenzate dalle sanzioni statunitensi. Cosciente della situazione, la Guida Suprema Khamenei sta cercando di «applicare la “teoria dell’economia resistente”, che mira a costruire un’economia che non dipenda dalle entrate del petrolio, ma da altre esportazioni, e si basi sulla riduzione del tasso di importazioni».

 

La critica più forte arriva dalle voci dei dissidenti iraniani, riportate non a caso dal giornale emiratino al-Ain, che denunciano l’oppressione subita a causa della wilāyat al-faqīh (la teoria del “governo del giureconsulto” su cui si fonda la Repubblica islamica). In particolare, Mohammad Maleki, primo preside dell’Università di Teheran dopo la Rivoluzione, in una lettera pubblicata su internet, ha affermato che gli iraniani sono da quattro decenni vittime di una tirannia che opera in nome della religione. A suo parere, i sogni degli iraniani di liberarsi dal terrore della polizia segreta della dinastia Pahlavi si sono trasformati in una dittatura violenta. L’ex preside ha espresso il suo dolore per la fiducia che lui e i suoi compagni avevano riposto in Khomeini, affermando che i «boia si sono presentanti come i liberatori della gente». Nella stessa direzione vanno le affermazioni dei dissidenti Abu Al-Fadl Qadyani e Ali Reza Raja’i, secondo i quali «il regime della wilāyat al-faqīh ha praticato una serie di inganni ideologici». L’articolo sottolinea, inoltre, come gli stessi funzionari iraniani abbiano ammesso un deterioramento «senza precedenti» della situazione economica del Paese. 

 

Il cuore del sistema resta, tuttavia, l’inedita forma di governo che si è realizzata dopo quel febbraio del ’79: la wilāyat al-faqīh, ossia il governo del giureconsulto, un regime fondato sulla stretta relazione tra religione e politica, in cui il giurista islamico diventa autorità pubblica in materia legislativa. A questo tema è dedicato un approfondimento di al-Jazeera, incentrato sugli sviluppi di questa forma politica e sul ruolo giocato nella sua elaborazione dalle hawza ʿilmiyya, i seminari religiosi sciiti dediti alla formazione del clero duodecimano, in particolare da quella di Qom.

 

L’autore riporta, infatti, le parole dell’’Ayatollah Khamenei, Guida Suprema dell’Iran, che nel suo discorso del 9 gennaio 2019 ha definito Qom e la sua hawza uno dei centri della diffusione mondiale dello sciismo. In particolare, l’Ayatollah ha detto che «Qom è la fonte della rivoluzione e la sua ḥawza è il sostegno spirituale e morale della rivoluzione». Non è la prima volta che l’Ayatollah affronta la questione del ruolo del clero sciita nella Repubblica Islamica: già in precedenza aveva infatti affermato che «il seminario e i religiosi sono i soldati del regime» e non possono concepirsi come entità separate da questo. Khamenei intende in questo modo ribadire la centralità del clero all’interno della Repubblica, accusando di “laicità” «ogni pensiero che divide gli uomini di religione dal regime».

 

Nel tentativo di comprendere questa tendenza e le diverse posizioni iraniane sulla tematica, l’autore ripercorre il ruolo storico della hawza. Si tratta di un’istituzione educativa religiosa al cui interno gli studenti approfondiscono la conoscenza religiosa con lo scopo di assumere, successivamente, una posizione di autorità. È una funzione che la hawza ha mantenuto fino ad oggi, mentre «il suo coinvolgimento nella sfera sociale e politica continua a essere oggetto di dibattito». Infatti – precisa l’autore – la teoria secondo cui il dodicesimo imam sciita non sarebbe morto, ma sarebbe entrato in “occultamento”, farebbe di questa figura l’unico «governante legittimo» della comunità. Il ruolo politico dei giuristi, la legittimità del potere regnante e la relazione della hawza con il sistema rivoluzionario continuano perciò a suscitare diversi interrogativi.

 

L’articolo ripercorre la storia della hawza, dalla sua fondazione nel XIII a Najaf per opera dello shaykh al-Tūsī fino ai giorni nostri, mettendo in luce la sua evoluzione da istituzione educativa indipendente a cuore del sistema rivoluzionario iraniano. Non tutti gli ulema – precisa tuttavia l’articolo – hanno seguito questo percorso: «molti hanno continuato a pensare che chi assume il potere in assenza del Mahdī (il dodicesimo imam “occultato”) è un usurpatore». E le polemiche su questo tema non si spengono. In particolare si sono riaccese il 15 giugno dello scorso anno, quando un membro del Consiglio Supremo della Rivoluzione Culturale, Hassan Rahimpur Azghadi, ha preso di mira questa istituzione religiosa. Si tratta – spiega l’articolo – di un dibattito nuovo, che mostra l’emergere «dal cuore del regime di una nuova élite che ha iniziato a ripensare la funzione della hawza nella sua forma attuale» e sta portando alla luce un conflitto latente tra tre visioni diverse. La prima è rappresentata dalla tendenza tradizionale, secondo la quale i religiosi devono concentrarsi sulla predicazione, sull’orientamento dei fedeli e sulla fatwa, e non avere rapporti con il potere. La seconda tendenza è quella della riforma religiosa, «conosciuta in Iran come “il protestantesimo religioso”, ossia un tentativo teorico di ripensare la relazione tra la religione e lo Stato e tra la religione e il popolo». Si tratta di una visione, scrive l’autore, che nasce al di fuori dell’ambiente religioso, nelle élite culturali, e che afferma la non necessità da parte dell’uomo credente di ricorrere alla mediazione clericale nel suo rapporto con Dio. Essa pone perciò molte sfide al potere politico. Infine, la nuova tendenza predominante, dentro e fuori della hawza, è conosciuta come «la hawza rivoluzionaria». Non si può sapere – precisa l’autore – dove quest’ultima porterà. Si può però prevedere che sarà questa a giocare un ruolo decisivo nella formulazione delle regole della competizione politica e degli slogan in difesa della rivoluzione, in un «meccanismo in cui il giuridico, il politico e il securitario si sovrappongono».

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis