Gli ulema sono esperti religiosi e, in termini sociologici, possono essere considerati il clero islamico. Oggi sono al centro di un progetto di re-istituzionalizzazione dell’Islam perseguito attivamente da diversi Stati

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:35

Contrariamente a quello che si pensa, nell’Islam esistono numerose autorità religiose. Esse sono però scarsamente istituzionalizzate e gerarchizzate, soprattutto nel mondo sunnita. La scheda che proponiamo vuole aiutare a comprendere chi sono gli ulema, ripercorrendone la storia e mostrandone l’importanza per il presente. Questi esperti religiosi infatti sono tuttora molto ascoltati, sia nei Paesi islamici, sia nelle comunità musulmane presenti in Europa. Mentre molti ne pronosticavano la fine, hanno saputo adattarsi ai radicali cambiamenti introdotti dalla tecnologia e sono oggi al centro di un progetto di re-istituzionalizzazione dell’Islam perseguito attivamente da diversi Stati.

 

Né oro, né argento

Ulema (‘ulamā) è una parola araba che deriva da ‘ilm, “sapere”. Gli ulema sono dunque etimologicamente i sapienti o più precisamente gli esperti di scienze religiose islamiche. Forse il modo migliore per definirli è ricorrere a un celebre hadīth, cioè una tradizione attribuita al profeta dell’Islam:

In verità gli ulema sono gli eredi dei profeti. I profeti non hanno lasciato in eredità monete d’oro o d’argento, ma il sapere (ʿilm). Chi lo acquista consegue una grande fortuna[1].

Per comprendere questo breve testo occorre considerare due cose: da un lato, per l’Islam la profezia è la forma più alta di conoscenza concessa agli uomini; dall’altro, essa si conclude con la morte di Muhammad nel 632. Nel tempo post-profetico, dunque, gli ulema godono di un’autorevolezza che deriva loro dall’essere “eredi dei profeti”. Questa impegnativa caratterizzazione induce a relativizzare l’affermazione secondo cui nell’Islam sunnita non esisterebbe clero. Certo, teologicamente parlando ogni credente musulmano imposta il proprio rapporto direttamente con Dio. Tuttavia, dal punto di vista sociologico e antropologico, gli ulema possono essere visti come gli esponenti della classe del clero nell’Islam. Il sapere che possiedono conferisce loro un’aura di sacralità, riflesso più o meno tenue della profezia.

Bosnia, 1906.jpgScuola per ulema, Bosnia, 1906

La classe degli ulema si è formata gradualmente nel corso dei secoli, a partire da una convinzione fondamentale: il credente che venga dopo l’epoca profetica non può accedere autonomamente alle Scritture, ma deve inserirsi in una catena di testimoni e maestri che gli permetta di risalire fino al tempo dell’origine. Questa convinzione determina il rapporto degli ulema con i testi, con i fedeli comuni e con i loro maestri. L’applicazione pratica di questo principio tuttavia è mutata nel tempo per effetto di alcune trasformazioni tecnologiche.

 

La prima di esse è senza dubbio il passaggio dall’oralità alla scrittura, avvenuto nei primi due secoli dopo Muhammad. In origine e per quasi un secolo, l’unico libro islamico fu il Corano, che per la tradizione fu messo per iscritto al tempo del califfo ‘Uthmān (644-656), ma che secondo diversi studiosi potrebbe aver conosciuto ancora modifiche fino all’epoca di ‘Abd al-Malik (685-705). In questa primissima fase il sistema di trasmissione del sapere era essenzialmente orale e questo rendeva necessaria la presenza di un maestro, anche perché l’alfabeto arabo era ancora molto rudimentale. Di fatto i documenti scritti erano pensati a uso privato e funzionavano, anche nel caso del Corano, come un supporto mnemonico per un testo già conosciuto. La situazione presenta suggestivi paralleli con la storia della Grecia classica: basterà pensare alla controversa tematica delle dottrine non scritte di Platone, studiata da Giovanni Reale[2].

 

L’introduzione della carta

L’espansione musulmana verso l’Asia Centrale e la Cina cambiò radicalmente le cose. In seguito alla battaglia sul fiume Talas (751), i musulmani appresero da alcuni prigionieri di guerra cinesi il segreto della fabbricazione della carta. L’invenzione si diffuse rapidamente nel califfato abbaside e sostituì i due principali materiali scrittorii disponibili in Medio Oriente: la pergamena, che garantiva una lunga durata nel tempo ma era molto costosa, essendo realizzata con pelle di animali, e il papiro, che era disponibile in Egitto a poco prezzo, ma deperiva velocemente. L’introduzione della carta, con il suo rapporto bilanciato tra costo e resistenza, fece della cultura araba una civiltà del libro. Si trattò di una vera e propria rivoluzione, come ampiamente illustrato da Gregor Schoeler[3].

 

Per quanto riguarda il sapere religioso, l’introduzione della carta costrinse gli ulema ad accettare che la trasmissione del sapere non avvenisse più solo oralmente, dalla bocca del maestro, ma anche attraverso i libri. In particolare, e nonostante alcune riserve, le tradizioni iniziarono a essere messe per iscritto ed entro la fine dell’IX secolo gli ulema si specializzarono nello studio della letteratura di hadīth, che nel frattempo continuava a crescere di volume, e nelle altre scienze correlate. Il rapporto personale tra maestro e discepolo rimase comunque importante, anche per le persistenti ambiguità della scrittura araba. Non a caso in arabo classico “studiare” si dice prima di tutto qara’a ‘alā, cioè letteralmente “leggere sotto la supervisione di un maestro”, anche se la pratica dello studio individuale conobbe una crescente diffusione con il passare dei secoli.

 

La messa a punto di un curriculum

Nell’XI secolo si produsse una nuova svolta. Nizām al-Mulk (1018-1092), potente visir dell’impero selgiuchide, promosse una serie di riforme volte a dare nuovo slancio allo studio della tradizione o Sunna in funzione anti-sciita e creò delle istituzioni dedicate a questo compito: le madrase o scuole (religiose). Fino a quel momento la formazione degli ulema era avvenuta in modo informale, attraverso circoli di studenti/uditori radunati in moschea intorno a un maestro. La creazione della madrasa produsse un’istituzionalizzazione dei percorsi formativi, con la messa a punto graduale di programmi e libri di testo. In particolare il curriculum si concentrò su Corano (recitazione, esegesi, varianti testuali…), hadīth, diritto, lingua araba e teologia (kalām) con una possibile aggiunta di discipline profane. Con il tempo fu uniformata anche la pratica del rilascio di un titolo (ijāza ‘āmma, “autorizzazione generale”) che conferiva la licenza di insegnare a propria volta, in pratica ufficializzando il ruolo di docente[4]. Accanto a realtà di nuova formazione, tra cui spicca la madrasa nizāmiyya di Baghdad, anche alcuni centri già esistenti come al-Azhar al Cairo o la Qarawiyyīn a Fez fecero propria questa struttura, assumendo l’attuale fisionomia di moschee-università.

 

Parallelamente gli ulema iniziarono a vestire abiti specifici che li distinguevano dalle altre classi sociali, un indizio di grande importanza per desumere la presa di coscienza collettiva di un gruppo. Gli ulema potevano dunque ormai contare su un corpus testuale specifico, un curriculum di formazione e degli abiti propri. Per completare la loro istituzionalizzazione mancava ancora la dimensione gerarchica, che venne introdotta soprattutto con l’avvento dell’Impero Ottomano.

 

La Sublime Porta infatti integrò gli ulema all’interno dell’amministrazione imperiale e istituì una gerarchia, in cima alla quale si trovava lo Shaykh al-Islām (in turco Şeyhülislam), a cui fu assegnato il compito di presiedere all’amministrazione religiosa dell’Impero. Gli ulema a lui sottoposti si specializzarono in diversi rami dell’amministrazione dello Stato, con nomi e funzioni diversi. Gli ottomani stabilirono inoltre una gerarchia tra le madrase. Il percorso tipico per uno studente di valore consisteva nel passare da una madrasa di provincia a una di Istanbul (a meno che non fosse già nato nella capitale, ovviamente). Completato il ciclo di studi, tornava in provincia come insegnante e, se continuava a dimostrare talento, faceva infine ritorno nella capitale come professore.

 

In genere la maggior parte degli ulema ottomani era anche affiliata a una confraternita mistica. Il sufismo infatti, seppure inizialmente guardato con sospetto, fu gradualmente integrato nel mondo degli ulema, almeno nelle sue versioni ortodosse. Un ruolo centrale in questo senso fu svolto da al-Ghazālī (1058-1111).

 

L’erosione di un ruolo

Ulema presso al-Azhar, 1900. Ivan Bilibin.jpgIl cortile dell’Azhar, 1900 (Ivan Bilibin)

All’inizio del XX secolo – come sembrerebbe suggerire il quadro di Ivan Bilibin – il ruolo e il potere degli ulema sembravano immutati. Tutte le caratteristiche del corpo sociale fin qui descritte sono infatti ben rappresentate nel quadro, che raffigura il cortile della moschea dell’Azhar: vi si trovano persone che studiano libri, vestono in modo speciale, seguono un corso… tutto pare congelato. In realtà, a partire dal 1800, le società arabo-islamiche conobbero profondi cambiamenti che tra i numerosi effetti ebbero anche quello di erodere il ruolo degli ulema. La crisi che investì il clero islamico era dovuta a due ragioni e si manifestò principalmente in due aspetti.

 

In primo luogo, gli ulema persero il monopolio dell’istruzione. Com’è noto, il 1798 è la data-simbolo dell’ingresso del mondo arabo nella modernità. L’artefice principale di questa trasformazione fu Muhammad ‘Alī, che assunse il controllo dell’Egitto dopo la ritirata di Napoleone. Di origine albanese, egli si rese conto della necessità d’importare il sapere occidentale, quanto meno a livello militare, per poter reggere il confronto con gli eserciti europei. La prima ipotesi fu imporre agli ulema di studiare le scienze – come accennato, una formazione scientifica era contemplata anche nelle madrase classiche, per quanto in via accessoria. Tuttavia questo provvedimento non ebbe gli effetti sperati. I riformisti si convinsero allora della necessità di creare università e istituti di ispirazione europea. Questo diede vita a un doppio canale che rimane in vigore fino a oggi: le madrase per formare gli esperti religiosi, le università moderne per le altre specializzazioni[5]. Dal punto di vista dei dotti religiosi il problema fu che gli impieghi garantiti dagli atenei moderni erano molto più redditizi di quelli degli ulema.

 

Il punto di svolta, almeno per l’Egitto, fu probabilmente la creazione nel 1908 dell’università del Cairo (all’epoca nota come Università egiziana) dopo alcuni infruttuosi tentativi di riformare l’Azhar e la creazione nel 1871 di un istituto “misto”, Dār al-‘ulūm, che contemplava una doppia formazione islamica e moderna. L’Università del Cairo assunse nel proprio corpo docente anche famosi studiosi occidentali come Louis Massignon e gli italiani Carlo Alfonso Nallino, David Santillana e Ignazio Guidi. Lo scrittore egiziano Taha Hussein (1889-1973), tra i maggiori intellettuali arabi del Novecento, ricorda bene nella sua autobiografia la profonda impressione che il nuovo tipo d’insegnamento produsse in lui, all’epoca giovane studente in rotta di collisione con l’Azhar e il mondo degli ulema.

Per il ragazzo [l’autore parla di sé alla terza persona] la vita all’università era una festa continua, come del resto per gli altri egiziani iscritti. […] Lo faceva uscire dall’ambiente ristretto e penoso dell’Azhar […] immettendolo in un nuovo ambiente senza limiti in cui poteva respirare a pieni polmoni, nel suo andirivieni dall’università, e riempire la mente di sapere libero, senza i vincoli e le ristrettezze dei professori azhariti nelle loro lezioni. Questo sapere non era guastato da sottigliezze eccessive o dalle dispute su questa o quella parola o dal tempo perso a discutere di questioni grammaticali senza alcuna relazione con l’argomento della lezione[6].

In secondo luogo, sempre nel periodo delle riforme nacquero tribunali civili non sciaraitici. Quella di giudice sciaraitico o qādī era stata storicamente la professione più comune per gli ulema. Dall’Ottocento in avanti però gli Stati iniziarono a promulgare codici moderni, di cui la Majalla ottomana del 1877 è l’esempio più noto. Per applicare i nuovi codici furono istituiti tribunali secolari (nizamiyye), affidati a una magistratura di formazione europea, mentre ai qādī restò la competenza sul solo diritto di famiglia, amministrato nei tribunali religiosi. In questo modo il prestigio degli ulema diminuì considerevolmente.

 

La combinazione dei due fattori – l’introduzione di università moderne e la creazione di tribunali non sciaraitici – portò all’emergere di intellettuali estranei alla classe degli ulema e in competizione con essi. Uno dei primi esempi in questo senso è l’attivista Jamāl al-Dīn al-Afghānī (1838-1897); l’intensità della contestazione è ben illustrata dalle parole del riformista siriano al-Kawākibī (1855-1902):

Gli uomini di religione tengono più a conservare i loro vecchi privilegi che ad appoggiare un cambiamento necessario. Nessuno ignora la loro influenza sull’opinione pubblica, ma anche su certi uomini politici, con cui hanno in comune gli stessi interessi. Occorre dunque privare questi rappresentanti religiosi di ogni potere, poiché non hanno alcun interesse a che le persone imparino a pensare in un modo nuovo[7].

Non meno dure suonano le parole di Muhammad ‘Abduh (1849-1905), principale esponente del riformismo islamico in Egitto. Pur essendo stato formato in gioventù all’Azhar, ‘Abduh criticò duramente la sclerosi di questa istituzione, arrivando a scrivere:

Se ho qualche parte del vero sapere, l’ho ottenuta solo dopo aver passato dieci anni a spazzare via la sporcizia dell’Azhar dal mio cervello. E ancora non è pulito come vorrei![8]

Gli ulema si ritrovarono così presi tra l’incudine e il martello, incalzati da una parte dai nuovi intellettuali, sempre più spesso formati nelle università di tipo occidentale o direttamente in Europa, e dall’altra parte dall’emergere del salafismo.

 

Afghani in Egitto.jpgL’intellettuale attivista Jamāl al-Dīn al-Afghānī (1838-1897)

 

I nuovi pensatori, come appunto Taha Hussein, non erano necessariamente anti-religiosi, ma reclamavano un approccio rinnovato alla tradizione, che tenesse conto anche delle acquisizioni metodologiche occidentali. In questo gruppo rientrano poi anche gli attivisti islamisti, come Rashīd Ridā (1865-1935), discepolo di ‘Abduh, che nell’influente rivista al-Manār da lui diretta fustigava gli ulema per il loro sapere fossilizzato e il loro immobilismo politico. Le stesse critiche si ritrovano in Hasan al-Bannā (1906-1949), fondatore dei Fratelli Musulmani, e in generale nei primi militanti islamisti. Significativo il caso dell’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966) che, mentre si trovava in carcere, scrisse All’ombra del Corano, un commento del Testo Sacro dettato dalla sua personale esperienza di lettura. Questa pratica “disintermediata”, che in parte era già stata tentata da Muhammad ‘Abduh e Rashīd Ridā nel loro commento coranico, andava contro il principio fondamentale sul quale si regge l’autorità degli ulema. Qutb si spinse anche oltre, criticando frontalmente il clero per il suo atteggiamento quietista e formalista. A partire dagli anni Settanta tuttavia, la scissione tra il mondo degli attivisti islamisti e quello del clero tradizionale si ricompose parzialmente, come dimostra la figura contemporanea di Yūsuf al-Qaradāwī, ulema e al tempo stesso riferimento dottrinario per la galassia islamista.

 

I libri gialli

Per comprendere l’altro polo della critica alla tradizione, cioè il salafismo, occorre invece fare un passo indietro e riandare al momento dell’introduzione nel mondo islamico di un’altra innovazione tecnologica, la stampa. La notizia di questa invenzione arrivò relativamente presto nelle terre centrali dell’Islam, ma per secoli i musulmani mantennero un atteggiamento di diffidenza verso di essa. Se le prime stamperie furono aperte in Libano e Siria tra il Seicento e il Settecento per servire le necessità delle locali comunità cristiane, l’introduzione massiccia in ambito islamico avvenne solo nell’Ottocento. Nel 1820-1821 il già citato Khedivè d’Egitto Muhammad ‘Alī ordinò l’apertura di una tipografia a Bulaq, allora un sobborgo del Cairo. Inizialmente furono stampati soltanto la gazzetta ufficiale egiziana e libri scientifici in traduzione; gradualmente però si iniziarono a riprodurre anche testi religiosi, finché nel 1924 fu prodotta al Cairo un’edizione del Corano che vide il concorso di numerosi ulema locali. Grandi erano i timori che un’edizione a stampa potesse introdurre errori anche minimi nel testo sacro islamico, considerato parola letterale di Dio. La commissione del 1924 riuscì invece a produrre un’edizione inappuntabile, che da quel momento divenne il prototipo delle numerosissime riproduzioni che ne sono seguite. Il suo successo ebbe però l’effetto involontario di far prevalere in modo quasi assoluto una delle letture coraniche a scapito delle altre possibili, un risultato che la dice già lunga sugli effetti di semplificazione, in gran parte non voluti, indotti dalla nuova rivoluzione tecnologica.

 

Ma le conseguenze più profonde si ebbero con la stampa dei “libri gialli”. Con questa metafora in arabo non ci si riferisce ai romanzi polizieschi, ma ai testi della tradizione, in genere molto voluminosi e per questo in origine stampati su carta economica molto sottile, che proprio per questo ingialliva velocemente[9]. Filologi come Ahmad Muhammad Shākir (1892-1958) si incaricarono di produrre edizioni accurate del maggior numero possibile di opere religiose. Proprio grazie alla nuova disponibilità di testi a stampa, il grande esperto di hadīth Muhammad Nāsir al-Dīn al-Albānī (1914-1999), nato a Scutari in Albania, ma vissuto per lo più tra Siria, Arabia Saudita e Giordania, concepì il suo progetto di “purificazione ed educazione” del mondo islamico: purificazione del sapere religioso da tutti i detti non autentici; ed educazione dei musulmani ad agire secondo questa tradizione riscoperta. Per decenni al-Albānī si dedicò a esaminare le raccolte di hadīth valutando una a una tutte le catene di trasmettitori. La sua opera ebbe uno straordinario successo e ancor oggi l’espressione sahhaha-hu al-Albānī (“al-Albānī lo ha ritenuto autentico”) è il migliore biglietto da visita per citare uno hadīth.

 

L’accesso al sapere religioso si è allargato ancora, e questa volta in misura esponenziale, grazie alla terza rivoluzione tecnologica, la digitalizzazione. Fin da subito infatti numerose istituzioni musulmane si sono gettate a capofitto in questo nuovo campo, pubblicando in rete tutti i testi religiosi, un atto considerato meritorio perché permette la condivisione del sapere tra gli utenti e di fronte al quale l’aspetto del copyright diventa del tutto secondario.

Il sito salafita Ahl al-hadith.pngIl sito salafita “Ahl al-hadith”

 

Oggi con internet il sapere religioso è dunque accessibile tendenzialmente ovunque, in qualsiasi momento e senza mediazione. Queste tre caratteristiche combinate incidono negativamente sul ruolo degli ulema, fenomeno ulteriormente acuito dalla possibilità offerta dal web di creare reti e comunità che dialogano sui temi religiosi, come ad esempio ahlalhadeeth.com, un forum dedicato unicamente alla discussione sull’autenticità o meno degli hadīth. Benché la prossimità con l’origine che questo modo di procedere promette sia illusoria – dall’età di Muhammad e dei suoi Compagni sono comunque passati 14 secoli – esso è senza dubbio affascinante. Si può anzi affermare che il letteralismo salafita incontra e porta agli estremi una corrente che attraversa tutto il Sunnismo. Ne perde però la capacità di mediazione e di compromesso, nella costante ricerca di arrivare a definire una e una sola risposta per ogni possibile domanda[10].

 

La reazione degli Stati

Di fatto la perdita di rilevanza degli ulema era comunque già avviata quando ancora non si parlava di Internet. Ad esempio in Iraq, Siria, Tunisia e Algeria, i leader emersi durante la fase della decolonizzazione, condizionati anche dal clima culturale dell’epoca (marxismo, tesi dell’ineluttabile secolarizzazione etc.), si convinsero che gli ulema avessero perso in partenza la loro battaglia: Saddam lasciò volontariamente andare alla deriva le istituzioni religiose, la Siria baathista assunse una posizione ufficialmente laica, in Tunisia l’Università della Zaytuna, tradizionale centro del sapere islamico, perse gran parte della sua importanza e i responsabili algerini preferirono dedicarsi a una forma di “socialismo arabo” in cui l’Islam era comunque presente, ma come un deposito valoriale a cui attingere secondo le necessità del momento.

 

Egitto e Marocco intrapresero un percorso diverso: anziché abbandonare le istituzioni religiose a sé stesse, scelsero di accentuarne il controllo. Nasser varò così nel 1961 la riforma dell’Azhar, che trasformò gli ulema in funzionari statali, con indubbi vantaggi, ma anche con un’evidente subordinazione al potere politico.

Nasser, Sadat e lo shaykh al-Azhar al-Fahham.jpgNasser, Sadat e lo shaykh al-Azhar al-Fahhām

Ugualmente anche in Turchia, dopo una prima fase “giacobina” negli anni Venti e Trenta, lo Stato scelse d’intervenire direttamente nel campo religioso attraverso il Ministero degli Affari religiosi e una serie di istituzioni d’insegnamento e di ricerca.

Diversa ancora è la situazione in Arabia Saudita in cui il clero (wahhabita, in questo caso) gioca un ruolo fondamentale nel legittimare il potere politico e continua a esercitare una funzione giudiziaria. Prassi vuole che gli ulema sauditi non possano – salvo casi eclatanti – criticare apertamente un provvedimento delle istituzioni politiche. Tuttavia essi possono fornire ai reali, in forma privata, consigli (nasīha) o “correzioni amichevoli”. Le recenti riforme volute dall’erede al trono Muhammad Bin Salman hanno comunque mostrato con chiarezza dove risieda il potere decisionale ultimo all’interno del Regno.

 

Tirando le somme di questo processo di lunga durata, il pensatore libanese Ridwan al-Sayyid riassume in questi termini la situazione prodottasi dopo la decolonizzazione: «Con l’eccezione dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e del Marocco, le istituzioni religiose dei Paesi arabi si sono indebolite fin quasi a dissolversi»[11].

 

Il neo-tradizionalismo

Al pari dei leader politici, molti studiosi furono indotti, dagli anni Sessanta in avanti, a profetizzare la fine degli ulema. Tuttavia, tale profezia, come tante altre relative al mondo islamico, non si è avverata e oggigiorno si assiste piuttosto a una rinascita del pensiero neo-tradizionale, che si propone di recuperare il metodo legale e teologico degli ulema per affrontare le questioni poste dalla contemporaneità senza rifugiarsi nel puro letteralismo dei salafiti e al tempo stesso senza abbracciare l’attivismo politico degli islamisti. Varie personalità religiose possono essere collocate all’interno di questa corrente, che potremmo chiamare, con un calco sull’arabo, madhabita cioè legata ai madhhab o scuole giuridiche. In Egitto ad esempio sono madhabite due figure con stretti legami con il potere politico come lo Shaykh al-Azhar Ahmad al-Tayyeb e ‘Ali Gomaa, gran Mufti fino al 2013. La lotta per la supremazia può assumere anche caratteri cruenti, come testimonia la sorte di al-Būtī (1929-2013), già preside della facoltà di sharīʿa di Damasco e noto esponente del neo-tradizionalismo, ucciso in un attentato nel 2013 perché apertamente favorevole al regime di Bashar al-Assad. Altri famosi ulema di questo orientamento sono Ahmad ‘Abbādī, leader degli ulema marocchini, e ‘Abdallāh Ibn Bayyah, mauritano con un profilo sufi, di recente nominato alla guida del Consiglio della Fatwa degli Emirati.

 Ali_Gomaa.jpg

‘Ali Gomaa

Frequenti sono gli attacchi che questi autori rivolgono al salafismo contemporaneo, a cui rimproverano una lettura ingenua della tradizione («i libri di hadīth non funzionano come un elenco telefonico», ‘Ali Gomaa), una comprensione astorica degli esordi dell’Islam («il salafismo è un periodo storico benedetto, non una scuola giuridica islamica», al-Būtī) e soprattutto la non-appartenenza a una scuola giuridica. L’abbandono del madhhab sarebbe infatti «il ponte verso l’irreligione», per citare il titolo di un famoso libro di Muhammad Ibn Zāhid al-Kawtharī (1879-1951), vice dell’ultimo Shaykh al-Islām dell’impero ottomano riparato al Cairo per sfuggire alla persecuzione kemalista.

 

Una caratteristica peculiare di questa rinascita è la creazione di reti transnazionali di ulema, come il Consiglio dei saggi musulmani presieduto da Ahmad al-Tayyeb, pensato anche in contrasto all’Unione mondiale degli ulema musulmani guidata da al-Qaradāwī e di orientamento islamista. Inedita è anche la tendenza a organizzare grandi convegni, che spesso si concludono con la redazione di dichiarazioni finali in più lingue: uno dei primi esempi è il Messaggio di Amman del 2004, dedicato al mutuo riconoscimento tra le varie correnti dell’Islam, mentre tra i casi più recenti si può citare la Dichiarazione di Marrakesh sulle minoranze religiose del 2016. Anche A Common Word (“Una Parola comune”), la lettera che 138 sapienti musulmani indirizzarono a Benedetto XVI nel 2007, può essere ricondotta a questo nuovo genere letterario, che presenta più di un’affinità con la crescente proliferazione di dichiarazioni da parte di organismi ecclesiali e sovra-ecclesiali.

 

Alcune questioni aperte

Il fatto che gli ulema tradizionali e neo-tradizionali siano spesso molto critici verso il salafismo e il salafismo jihadista in particolare non implica naturalmente che siano la panacea di tutti i mali. Certo, gli ulema ufficiali rifiutano la pratica del takfīr (accusa di miscredenza), adottano un discorso generalmente anti-terrorista, non chiedono, a differenza dell’Islam politico, il ritorno del califfato o comunque di una sua rivisitazione moderna e solitamente accettano il principio di cittadinanza, posizioni che sono sufficienti per renderli particolarmente apprezzati nel contesto attuale. Tuttavia per molti altri aspetti si situano su posizioni estremamente conservatrici.

 

In linea di principio i “madhabiti” fanno costante riferimento alla turāth (“tradizione”). Essendo molto articolata al suo interno, essa permette di assumere posizioni sfumate su molte questioni problematiche. Tuttavia la tradizione contiene anche affermazioni che, prese nel loro valore letterale, sono difficilmente conciliabili con la sensibilità contemporanea, ad esempio in fatto di libertà religiosa. In questi casi solo un cambio di paradigma interpretativo potrebbe risolvere realmente il problema. Si può pensare anche ad alcune norme che regolano la condizione femminile, come quelle relative alla disparità in fatto di quote ereditarie. Su questo punto, ad esempio, l’Azhar ha preso una posizione nettamente contraria rispetto ai progetti di riforma tunisini e gli ulema marocchini hanno manifestato chiaramente il loro disappunto a proposito di analoghe proposte, fino al punto da sollecitare le dimissioni della femminista islamica Asma Lamrabet. Questi semplici esempi mostrano quindi quanto sia sbagliato applicare ai chierici musulmani (e ai musulmani tout court) lo schema interpretativo “conservatori vs riformisti”: gli ulema e i salafiti sono entrambi socialmente conservatori, ma giustificano la loro posizione grazie a due strutture di sapere diverse.

 

Piuttosto, ciò che va registrato negli ultimi anni è una ritrovata importanza della figura degli ulema. Tale rinvigorimento è dovuto, oltre che a ragioni endogene, anche e soprattutto a fattori esogeni: molti Stati musulmani infatti si sono convinti che lasciare la religione in mano a correnti transnazionali come i salafiti o i Fratelli musulmani sia estremamente pericoloso e conseguentemente si sono dati da fare per rifinanziare e rafforzare la rete degli ulema. Tuttavia il chiaro supporto statale all’operazione ne costituisce al tempo stesso la forza e la debolezza: forza perché può contare su ampie risorse, anche a livello mediatico; ma anche e soprattutto debolezza perché da molti questo tentativo è percepito come pilotato dall’alto.

 

La vera questione è dunque capire se tra i ranghi degli ulema emergeranno figure di rilievo, capaci per la loro statura di conquistarsi un vasto seguito anche a prescindere dal sostegno delle istituzioni statali. In ogni caso, la storia di questa classe di dotti religiosi è destinata a continuare.

 

Per saperne di più
Jacob Skovgaard-Petersen, Navigando in acque tempestose. Gli ulema e le rivoluzioni, «Oasis» 27 (2018), pp. 31-39.
Meir Hatina (a cura di), Guardians of Faith in Modern Times: ʿUlamaʾ in the Middle East, Brill, Leiden 2009.
Muhammad Qasim Zaman, The Ulama in Contemporary Islam: Custodians of Change, Princeton University Press, Princeton 2007.
Malika Zeghal, Gardiens de l’Islam : Les ulama d’al-Azhar dans l’Égypte contemporaine, Presses de Sciences Po, Paris 1996.
 

 

1 Hadīth tramandato da Abū Dawūd, al-Tirmidhī e Ibn Māja. Si veda a titolo d’esempio Jāmi‘ al-Tirmidhī, Kitāb al-‘ilm, bāb mā jā’ fī fadl al-fiqh ‘alā al-ʿibāda, n. 2682. «In verità – racconta il Compagno Abū l-Dardā’ – ho sentito l’Inviato di Dio dire così. “Chi fa una strada alla ricerca del sapere, Dio aprirà per lui una strada che porta in paradiso. Gli angeli abbassano le loro ali per amore di colui che ricerca il sapere. Domandano perdono in suo favore quanti sono nei cieli e sulla terra, perfino i mostri marini. La superiorità del sapiente sull’adoratore è come la superiorità della luna rispetto agli altri corpi celesti. In verità gli ulema sono gli eredi dei profeti. I profeti non hanno lasciato in eredità monete d’oro o d’argento ma il sapere. E chi lo acquista consegue una grande fortuna”».

2 Si veda Platone, Dottrine non scritte, a cura di Giovanni Reale e Marie-Dominique Richard, Bompiani, Milano 2008.

3 Gregor Schoeler, The Genesis of Literature in Islam. From the Aural to the Read, Edinburgh University Press, Edinburgh 2009.

4 Jonathan Brown, Hadith. Muhammad’s Legacy in the Medieval and Modern World, Oneworld, Oxford 2009, 44-45.

5 Cfr. Robert Hefner e Muhammad Qasim Zaman (a cura di), Schooling Islam. The Culture and Politics of Modern Muslim Education, Princeton University Press, Princeton 2007.

6 Taha Husayn, al-Ayyām, Dār al-Maʿārif, al-Qāhira 1999, parte III, cap. 5 (ustādhī yadʿū ʿalayya bi-l-shiqāʾ), pp. 32-33.

7 La citazione è tratta da ‘Abd al-Rahmān al-Kawākibī, al-A‘māl al-kāmila, Markaz dirāsāt al-wahda al-‘arabiyya, Bayrūt 1995, p. 440. Un estratto della sua opera più famosa, Natura del dispotismo e guasti del servilismo, è tradotta in «Oasis» 26 (2017), pp. 105-112.

8 Cfr. Sherif Younis, Dal caftano di ‘Abduh le ideologie islamiche di oggi, «Oasis» 21 (2015), pp. 14-23, qui 17.

9 L’espressione è proverbiale. Si veda a titolo di esempio questo post da un sito marocchino: https://bit.ly/2wvYBbI.

10 Sui salafiti si veda l’esauriente guida di Joas Wagemakers, Il salafismo e la ricerca della purezza, agosto 2018

11 Ridwan al-Sayyid, Le fatwe come arma contro il fanatismo, «Oasis» 25 (2017), p. 53.

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