Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:53

Secondo un report della Caritas, pubblicato da Il Mulino con il titolo Il Peso delle Armi, nel mondo vi sono 378 conflitti, di cui 20 ad alta intensità. Mentre diminuisce il numero delle crisi politico-territoriali non violente, aumentano gli scenari di guerra che coinvolgono l’utilizzo di armi. E infatti l’analisi conferma che sono in crescita sia la produzione sia la vendita di armamenti, benché si registri una certa opacità a livello mediatico, quantomeno in Italia.

 

Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nell’ultimo anno il commercio di armi che ha coinvolto gli stati ha avuto un giro di affari di 1739 miliardi di dollari. Come si può apprezzare da questo database dell’Istituto svedese, la spesa per ogni paese è tendenzialmente aumentata negli ultimi quindici anni, facendo registrare un generale +44% rispetto al 2002. Le principali aziende venditrici hanno sede negli Stati Uniti, come Lockheed Martin Corporation (44,9 miliardi di dollari ricavati dalle armi e in particolare dai velivoli F-35), Boeing (26,9 miliardi di dollari, in calo a causa dei ritardi di consegna dei tanker KC-46) e Raytheon (23,9 miliardi di dollari, stabile grazie alla nuova commissione del Dipartimento della Difesa americano di missili Fim-92 Stinger). Le aziende russe, nella rinnovata corsa agli armamenti con Washington, contribuiscono invece per il 9,5% alla vendita di armi, seguite dalle imprese del Regno Unito che partecipano per il 9%. C’è anche posto per un’azienda italiana nella top-10, ovvero Leonardo, che ha ricavi per 8,9 miliardi di dollari. Alla luce di questi dati, pare opportuno chiedersi cosa spinga gli stati a impegnarsi nell’acquisto di armi per decine di miliardi di dollari.

 

La letteratura in merito offre diverse spiegazioni. Adottando un approccio neoliberista[1], sarebbero le aziende a offrire in un libero mercato un prodotto che soddisfi le necessità degli stati. Tale prospettiva però non risponde al nostro quesito iniziale. Secondo un approccio neorealista invece, la vendita di armi sarebbe strettamente connessa al tema del potere e alla necessità di proteggersi contro minacce esterne[2]. Gli armamenti farebbero così parte di un apparato di deterrenza, che Kenneth Bouding[3] ha individuato come elemento cardine in un sistema globale basato sulla minaccia (threat system). Assumendo questo paradigma, le armi assolverebbero una doppia funzione: reattiva[4], contro le sfide poste dall’esterno, e attiva[5], per aumentare il cosiddetto power to hurt, ovvero la possibilità di arrecare danno. A tal proposito, lo Stato non va solo concepito come attore razionale che previene l’anarchia, ma anche come apparato di potere a sé stante, interessato a catturare uno spazio che gli è estraneo. È questa per esempio la posizione di autori come Gilles Deleuze e Felix Guattari[6], per cui lo stato è una macchina dominata da un impeto capitalista e finalizzata all’occupazione di uno territorio esterno, attraverso un continuo processo di de- e re-territorializzazione. Adottando questo quadro di riferimento concettuale è così possibile comprendere come le armi, in quanto strumenti necessari all’occupazione dello spazio esterno, siano centrali nelle dinamiche internazionali. E di conseguenza si evince che uno spazio vuoto abbia esigue possibilità di rimanere tale per lungo tempo.

 

 

Il caso Siria

Un caso emblematico a tal proposito è quello siriano, dove il territorio è da anni occupato da forze locali e straniere, anche a causa della posizione strategica della Siria nel contesto regionale. Gli Stati Uniti, dopo il massiccio impiego di truppe sul campo durante l’amministrazione Bush (170.000 in Iraq e 100.000 in Afghanistan nei momenti di massimo sforzo), hanno adottato con la presidenza Obama una diversa strategia: fare affidamento su partner locali, fornendo loro solo supporto aereo. Non è così un caso che il maggior numero di attacchi con i droni in Siria sia stato compiuto dagli Stati Uniti. Nella giornata di mercoledì si è però registrata una svolta: il Presidente Trump ha annunciato via Twitter il ritiro del contingente americano in Siria. Il provvedimento segna così la fine degli attacchi con i droni e il contemporaneo rientro di 2000 soldati proprio prima di Natale, una scelta già vista in Iraq con la precedente amministrazione. La decisione sarebbe motivata dalla sconfitta inflitta allo Stato Islamico, identificato dal Presidente come unico movente della presenza a stelle e strisce nella Repubblica siriana. D’altra parte, l’affermazione di Trump ha suscitato le perplessità del ministro della difesa britannico Tobias Elwood e del Senatore Lindsey Graham, storicamente allineato al Presidente ma oggi sempre più distante, come ha dimostrato il suo voto al Senato contro il coinvolgimento di Washington nella guerra in Yemen. La postura assunta da Trump ha infine portato alle dimissioni del Segretario della Difesa James Mattis, ritenuto un fine equilibratore all’interno dell’amministrazione americana. La scelta dell’ex-generale dei Marines sembrerebbe motivata inoltre dalla decisione di un ulteriore ritiro di 7000 soldati americani dall’Afghanistan, annunciata dalla Casa Bianca a poche ore di distanza dal provvedimento riguardante la Siria.

 

La fine della rilevante, seppur numericamente limitata, presenza del contingente americano apre così un nuovo spazio. Una dimensione esterna che, parafrasando i due autori francesi sopra citati, diventa oggetto, grazie anche alla disponibilità di armamenti, delle mire di re-territorializzazione di altri attori coinvolti[7]. In particolare, è possibile identificare quattro gruppi che beneficeranno del ritiro americano e tre che rischieranno di pagarne le conseguenze.

 

Oltre al possibile ritorno del sopito Califfato, è la Russia, come evidenziato da Seth Frantzman, ad avere la possibilità di affermarsi a scapito degli Stati Uniti, ponendo l’ultimo tassello di un confronto iniziato dalla fine del 2013 e che ha già fatto registrare numerosi successi per Mosca. Le parole di supporto alla decisione americana pronunciate da Putin assumerebbero così un significato sibillino, lasciando intravedere un interesse del Cremlino nel ritiro delle truppe statunitensi. A trarre vantaggio sarebbe ovviamente l’Iran che, sfruttando il braccio armato di Hezbollah, ha giocato un ruolo di primo piano nella Siria meridionale. Sembra così quasi realizzarsi il monito del re Abdallah II di Giordania, quando nel 2004 sottolineava il tentativo iraniano di creare una “mezzaluna sciita”, che andasse da Damasco e Beirut fino a Teheran. E infatti Nicholas Heras, fellow al Center for a New American Security, ha parlato a tal proposito di «un solido controllo iraniano sull’arco levantino». Il quarto attore a beneficiare dalla decisione americana potrebbe essere la Turchia. Se da un lato Ankara e Washington, insieme fra gli altri a Riyadh – seconda solo alla capitale statunitense per numero di attacchi con i droni – erano accomunati dal supporto alla Coalizione nazionale siriana, dall’altro avevano fin da subito assunto posture diverse nei confronti dei combattenti curdi: protetti dagli Stati Uniti e avversati dalla Turchia.

 

Sono proprio i curdi il primo attore a pagare il ritiro americano dalla Siria. Erdogan ha infatti annunciato la possibilità di attacchi ai danni dell’Unità di Protezione del Popolo (YPG), gruppo di milizie curde ritenute vicine al PKK. Un rapporto, quello fra il gruppo curdo e quello turco, che è stato analizzato in questo articolo di Joost Jongerden per Oasis. I curdi si sono mostrati di conseguenza molto preoccupati, come documentano anche le numerose manifestazioni di fronte al quartier generale della missione americana in Siria. Come si sottolinea in questo articolo del New York Times, il ritorno in patria delle truppe americane apre uno spazio di incertezza: in primo luogo i curdi, nota Asli Aydintasbas, senior fellow presso lo European Council for Foreign Relations, si sentono traditi; in secondo luogo, la Francia, il secondo attore a patire il ritiro delle truppe di Washington, rischia di vedere il proprio contingente di 200 soldati molto più esposto; infine, il sedicente Stato Islamico può trovare nuova verve all’interno di un’area non più territorializzata dagli Stati Uniti e dai curdi stessi.

 

Di conseguenza, un terzo attore che potrebbe soffrire della decisione americana sono i cristiani che abitano la Siria e l’Iraq, i quali hanno già subito la violenza di Daesh, guidato da una lettura selettiva e delirante dell’Islam. Ed è proprio a Siria e Iraq che si rivolge il documento firmato dal Congresso americano la scorsa settimana. L’Iraq and Syria Genocide Relief and Accountability Act of 2018 consente infatti al Governo di Washington di fornire aiuti concreti alle popolazioni vittime di genocidio o crimini di guerra, come ad esempio le minoranze cristiane colpite dalle persecuzioni dell’ISIS. Il documento risponde, pur senza soddisfare appieno, l’appello lanciato il 19 dicembre dai patriarchi delle chiese siriaca ortodossa, siriaca cattolica e caldea cattolica, le principali comunità cristiane nell’area. Oltre a protezione legale, riconoscimento dei diritti umani e sostegno economico, le guide religiose hanno domandato fortemente un’azione che garantisca loro uno spazio, in modo da non trovarsi stretti nella morsa del Califfato e quindi costretti a emigrare. Uno spazio che però con il ritiro degli Stati Uniti rischia fortemente di essere compromesso, occupato da quelle forze armate che potrebbero sfruttare il nuovo scenario che si sta delineando per la Siria.

 


[1] Paul Levine, Fotis Mouzukis e Ron Smith, The Arms Trade, Security and Conflict, Routledge, Abingdon-on-Thames 2003.

[2] Raul Caruso, Beyond deterrence and decline towards a general understanding of peace economics, «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», vol. 1, n. 1 (2015), pp. 57-74.

[3] Kenneth Boulding, Towards a Pure Theory of Threat Systems, «American Economic Review», vol. 53, n. 2 (1963), pp. 424-434.

[4] David Kinsella, Conflict in Context: Arms Transfers and Third War Rivalries During the Cold War, «American Journal of Political Science», vol. 38, n. 3 (1994), pp. 557-581.

[5] Thomas Schelling, Arms and Influence, Yale University Press, New Haven 1966.

[6] Gilles Deleuze e Felix Guattari, A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia, University of Minnesota Press, Minneapolis 1987.

[7] Iain Munro e Torkil Thanem, Deleuze and the deterritorialization of strategy, «Critical Perspective on Accounting», vol. 53, pp. 69-78.

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