Dalla maggiore assertività dei ribelli houthi al “riposizionamento” degli Emirati Arabi Uniti: cosa ci ha lasciato un altro anno di guerra in Yemen e quali linee di sviluppo possiamo immaginare

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:30

Dopo cinque anni di conflitto, l’Arabia Saudita ha invitato a Riyadh alcuni esponenti degli houthi per discutere una possibile tregua. Una notizia che va letta anche alla luce degli ultimi sviluppi ricostruiti nell’ultimo report redatto dal Panel di esperti sullo Yemen, costituito su indicazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU attraverso la risoluzione 2140 (2014). Dal report del 2019, pubblicato il 10 febbraio di quest’anno e composto da 128 paragrafi e 35 allegati per un totale di 207 pagine, emergono alcune tendenze che meritano di essere sottolineate[1].

 

Cosa emerge dal report?

 

Nel corso del 2019 gli houthi hanno consolidato la propria egemonia territoriale nel nord del Paese, in particolare ricorrendo a due tattiche. In primo luogo, hanno potenziato ulteriormente le loro strutture di intelligence, fra cui l’Unità di sicurezza preventiva[2], il Bureau per la sicurezza e l’intelligence[3] e la zaynabiyya[4], un battaglione femminile che concentra le proprie attività di intelligence sulle donne. In secondo luogo, gli houthi hanno fatto ricorso a un uso sistematico della violenza per mettere a tacere ogni forma di dissenso. Nello specifico, si è registrato un aumento delle violenze contro le donne, con il contrasto di ogni forma di attivismo femminile, e contro le tribù di Hajour, nella provincia di Hajjah, fra gennaio e marzo dello scorso anno. Il Panel ha inoltre evidenziato 14 incidenti con materiale esplosivo contro civili, il ricorso a mine antiuomo e l’impiego di bambini soldato.

 

Il Panel ha riportato un incremento nelle importazioni di armi e droni, funzionali al raggiungimento di un obiettivo inimmaginabile fino a pochi anni fa, ovvero la proiezione del gruppo all’esterno del territorio yemenita, come recentemente dimostrato dagli attacchi condotti contro Riyadh e le province di Jizan, Najran e Asir. L’importazione di armi avviene lungo due direttrici. La prima, minoritaria, parte dall’Estremo Oriente (Giappone e Hong Kong), mentre la seconda, che è quella principale, arriva dall’Europa (Germania e Bielorussia i casi documentati dal Panel) via Teheran. Ed è proprio l’Iran lo sponsor straniero più affermato del gruppo. Nonostante le parziali convergenze dottrinali post-1979, il supporto logistico di Teheran al gruppo zaydita è rimasto limitato fino al 2015, quando Teheran ha intravisto la possibilità di un’alleanza di convenienza in funzione anti-saudita, realizzando di fatto la profezia di Riyadh che dipingeva il gruppo come un proxy iraniano in Yemen.

 

Il 2019 ha rappresentato anche un momento di svolta per gli Emirati Arabi Uniti (EAU), che hanno progressivamente ridotto e riposizionato le proprie forze in Yemen, prima tra giugno e luglio e poi in autunno, quando solo alcune truppe sono rimaste di stanza ad Aden, Balhaf, Riyan e Socotra e quando la base militare di Burayqah nel sud del Paese è passata sotto il controllo saudita. Pensare però che l’influenza emiratina in Yemen sia scomparsa è fuorviante. Se da un lato, alcune milizie non sono più formalmente alle dipendenze dirette degli Emirati, dall’altro, il Southern Transition Council (STC), legato a doppio filo ad Abu Dhabi, è ora ufficialmente riconosciuto come attore di governo. In questo modo, gli Emirati acquisiscono una voce nell’esecutivo, passaggio fondamentale per limitare l’influenza dell’Islah, la succursale locale dei Fratelli musulmani e una delle colonne dell’esecutivo guidato da Abd Rabbo Mansour Hadi. Il recente allontanamento dall’esecutivo yemenita dei ministri Saleh Jubwani e Nabil Faqih, voci critiche di Abu Dhabi, è un ulteriore segnale del peso degli Emirati nel governo Hadi. Il progressivo disimpegno militare ha assicurato inoltre un risparmio economico e un ritorno dell’investimento in termini di immagine, a cui va aggiunta la necessità di non incrinare ulteriormente i rapporti con i sauditi.

 

La crescente “saudizzazione” del conflitto yemenita non coincide dunque con una reale diminuzione dell’influenza emiratina, bensì con un graduale riorientamento degli strumenti impiegati da Abu Dhabi, funzionali in particolare a mantenere il controllo su alcuni porti strategici lungo le coste yemenite meridionali e occidentali.

 

A partire dalla fine del 2018, l’atteggiamento saudita in Yemen si è dimostrato sempre meno assertivo, complice la nomina del più conciliante Khalid bin Salman a vice-Ministro della difesa e principale gestore del dossier yemenita. A frenare parzialmente l’aggressività del Regno sono stati anche i numerosi attacchi a diverse petroliere nel Golfo e le aggressioni sul territorio saudita, che hanno mostrato quanto Riyadh fosse vulnerabile. La necessità di prevenire un’escalation, accompagnata a quella di rifarsi un’immagine, è diventata sempre più urgente, in particolare in questa fase delicata per Mohammad bin Salman, il plenipotenziario Principe ereditario saudita. Questo processo ha raggiunto il suo culmine in autunno, quando l’Arabia Saudita ha ospitato i negoziati fra il governo internazionalmente riconosciuto e il STC, poi sfociati nell’accordo di Riyadh. A tal proposito, il Panel ha individuato tre criticità: difficoltà a rispettare le scadenze, complessità nel reintegrare nell’esercito i membri delle forze legate al STC e ulteriore erosione dell’autorità del governo yemenita. La posizione dell’Arabia Saudita mantiene comunque una certa ambiguità. Da un lato, il coinvolgimento diretto saudita negli affari interni yemeniti, anche attraverso l’uso della forza, non sembra prossimo a una fine. Dall’altro, però, si assiste a una crescente tendenza a impegnarsi in iniziative diplomatiche, quella che Eleonora Ardemagni ha definito «diplomazia a segmenti», spesso con l’obiettivo di ri-brandizzarsi agli occhi del mondo. Il crescente ricorso a strumenti economici, culturali e religiosi per estendere la propria sfera di influenza, sulla falsa riga di quanto fatto negli anni ’70, sembra confermare questo trend.

 

Va sottolineato poi il poco spazio riservato nel report al governo yemenita, segnale di una sua progressiva marginalizzazione. L’immagine che si ricava è infatti quella di un’istituzione debole, eterodiretta e delegittimata. Inoltre, le forze di sicurezza appaiono ancora frammentate e largamente dipendenti da finanziamenti stranieri. Oltre allo scarso peso politico, la limitata capacità amministrativa e il controllo pressoché nullo sulle forze di sicurezza, il governo si è macchiato di svariati crimini contro la popolazione. Infine, il Panel ha presentato alcuni casi di malversazione, corruzione e manipolazione dei tassi di cambio del Rial yemenita da parte di figure importanti del governo.

 

Il Panel ha infine dedicato solo quattro paragrafi ad al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e al sedicente Stato Islamico (ISIS), prestando particolare attenzione alla situazione nella provincia di Bayda’, dove i due gruppi, soprattutto dal giugno 2018, si sono scontrati più volte. Mentre AQAP può beneficiare del supporto di certe tribù che le si sono avvicinate per ottenere armi con cui combattere gli houthi, le pratiche oppressive del sedicente Stato Islamico hanno faticato a trovare un terreno fertile nelle tribù di Bayda’, erodendo ulteriormente le possibilità dell’ISIS di essere attivo sul campo. Il Panel ha quindi concluso evidenziando le limitate capacità operative dei due gruppi jihadisti.

 

Cinque trend da monitorare per il futuro

 

Al di là di queste tendenze consolidate, nel Report è possibile individuare alcune tematiche meno sviluppate, ma che potrebbero essere decisive nell’indirizzare il corso degli eventi in Yemen.

 

In primo luogo, per quanto possa apparire banale, si riconosce come le dinamiche regionali possano impattare sulla realtà yemenita. È però interessante evidenziare una sottile ma rilevante differenza rispetto al passato. Mentre prima erano le dinamiche fra gli attori del Golfo a riflettersi nel Paese, ora è vero anche il contrario: le mosse locali possono influire sull’equilibrio regionale. Un cambiamento che è imputabile principalmente alle rinnovate capacità degli houthi di colpire obiettivi più distanti e di estendersi anche in altre zone del Paese.

 

A tal proposito, lo schema di “consolidamento e proiezione” degli houthi che emerge dal Report lascia intendere come le potenziate capacità militari permettano al gruppo anche di espandersi internamente. A conferma di ciò, nei primi mesi di quest’anno il gruppo è riuscito a entrare in controllo di Nihm, al-Ghayl, al-Khalq e Hazm, la capitale della provincia di al-Jawf, tappa necessaria per poter eventualmente entrare in pieno controllo di Ma’rib.

 

Un terzo elemento da considerare riguarda la frattura fra i due principali azionisti della coalizione, ovvero Arabia Saudita ed Emirati. Se è vero che l’accordo di Riyadh ha momentaneamente ricucito i loro rapporti, due aree rappresentano ancora zone di competizione. La prima è l’arcipelago di Socotra, da anni di interesse geostrategico emiratino. Abu Dhabi ha dapprima provato a ingraziarsi la popolazione attraverso aiuti umanitari, ma dal maggio 2018 ha cercato di assicurarsi il controllo dell’isola attraverso un atteggiamento più deciso, allontanando i locali dalle zone portuali e aeroportuali per gestire direttamente i traffici navali e aerei. Recentemente, anche l’Arabia Saudita ha iniziato a coltivare un certo interesse per l’isola, come dimostra il Saudi Development and Reconstruction Program for Yemen, il piano di aiuti che garantirebbe a Socotra più sicurezza energetica, miglior accesso alle risorse idriche, rinnovati servizi ospedalieri e una potenziata rete di trasporti.

 

Particolarmente interessante è la seconda zona, ovvero la provincia orientale di Mahra, dove da circa tre anni si assiste a un crescente coinvolgimento saudita, dopo i fallimentari tentativi emiratini di creare una succursale locale del STC. Qui il Regno si è assicurato il controllo dell’aeroporto del capoluogo al-Ghaydah e di numerosi porti, costruendo 12 basi militari e arruolando circa 6000 locali all’interno di milizie filo-saudite. Attraverso le iniziative economiche del King Salman Center, Riyadh ha espanso la propria sfera di influenza, costruendo scuole e strade. Queste iniziative, insieme all’invio di un governatore allineato al Regno e alla crescente diffusione di un Islam di matrice wahhabita, hanno irritato non poco parte del tessuto sociale tribale, che ha così dato vita a un movimento di opposizione. Il movimento, ribattezzato nel settembre 2019 Southern National Salvation Council, sarebbe sostenuto dall’Oman, che vede in Mahra una regione storicamente vicina al Sultanato e una chiave per la sicurezza di Muscat.

 

Inoltre, la riforma del settore della sicurezza (SSR) appare essere sempre più un’esigenza improrogabile, come si può leggere fra le righe del Report. Già nel periodo immediatamente successivo alle Primavere arabe si era assistito a un tentativo di riforma, i cui risultati non erano stati però quelli sperati. Da un lato, infatti, il processo di “de-Salehizzazione”, ovvero di epurazione di forze fedeli all’ex Presidente, aveva efficacemente spostato l’equilibrio di potere all’interno delle forze armate a vantaggio del Generale Ali Moshin al-Ahmar e delle milizie afferenti alla confederazione tribale Hashid. Dall’altro, però, la riforma non era stata in grado di professionalizzare l’esercito e di superare la frammentazione interna, che oggi, a distanza di quasi nove anni, è più marcata che mai.

 

Infine, un ultimo aspetto da considerare riguarda l’atteggiamento che la nuova guida di al-Qaeda, Khalid Batarfi, assumerà; un tema non trattato nel Report, poiché redatto prima della morte di Qasim al-Rimi. I droni statunitensi, che avevano già eliminato tra gli altri il leader di AQAP Nasir al-Wuhayshi nel 2015 e Anwar al-Awlaki, figura di spicco del gruppo, nel 2011, sono infatti riusciti a decapitare la leadership di AQAP a fine gennaio di quest’anno. La nomina di Khalid Batarfi rappresenta una parziale rottura con il passato per due motivi. In primo luogo, il nuovo leader esercita una grande influenza sulle tribù del sud e in particolare nella provincia di Ma’rib, un’ulteriore zona di confronto con l’ISIS. In secondo luogo, Batarfi riconosce alla dimensione ideologica una posizione prioritaria nel progetto di AQAP. In questo senso, occorrerà prestare attenzione alla reazione di quanti desideravano un comandante militare o un leader più pragmatico al comando, che concentrasse tutte le attenzioni sulle realtà tribali locali. Le capacità di Batarfi, la tenuta degli accordi fra i diversi attori e gli attriti fra le tribù sono fra le variabili che determineranno la capacità di AQAP di ricostituirsi appieno in Yemen, dopo che negli ultimi anni il gruppo non è stato in grado di sfruttare al meglio la destabilizzazione del teatro yemenita.

 

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[1] Dove non altrimenti specificato, le informazioni provengono direttamente dal report del Panel. Le analisi e le tendenze ricavate dal report sono invece responsabilità unica dell’autore.
[2] Fondata nel 2017 durante i preparativi dell’operazione che ha portato alla morte dell’ex Presidente, e allora alleato degli houthi, Ali Abdallah Saleh, quest’unità riporta direttamente al leader del gruppo, Abdul Malik al-Houthi. L’unità ha il compito di identificare gli infiltrati, monitorando anche le diserzioni.
[3] Formato nell’agosto 2019, il bureau nasce dalla fusione del bureau per la sicurezza nazionale e dell’ufficio per la sicurezza politica. La riorganizzazione ha altresì permesso l’epurazione di alcune figure ancora legate a Saleh. La principale occupazione del gruppo risiede nell’identificazione di minacce esterne.
[4] Fra gli altri compiti di questa unità, vanno ricordati la conduzione di raid nelle case di attiviste e le operazioni online per ripulire l’immagine negativa che potrebbe emergere dalle azioni di certi individui.