Nei Balcani è possibile “uno scambio vero con i responsabili della comunità islamica”
Ultimo aggiornamento: 28/06/2024 10:47:25
Impenetrabile come la sua lingua, l’Albania è sempre stata percepita come marginale. Prima periferia dell’Impero ottomano, poi isolata dal mondo nella notte del regime comunista e oggi in coda per entrare in Europa. Ma per qualche giorno è tornata alla ribalta grazie a Papa Francesco, mostrando che può offrire lezioni preziose.
È solo un pezzo di legno. Il busto di un crocifisso con il capo reclinato, annerito dal fuoco che si è divorato gambe e braccia. Salvato di nascosto da una persecuzione disumana contro uomini e donne di fede, per uno strano destino è arrivato tra le mani dell’arcivescovo di Scutari, mons. Angelo Massafra, che oggi lo tiene nel palmo con la stessa tenerezza che riserverebbe a un neonato. Solo un “resto”, quasi una reliquia, eppure basta poggiarci lo sguardo per essere scaraventi nella zona oscura del Novecento albanese.
Nella violenza del regime comunista iniziata subito dopo la seconda guerra mondiale e cresciuta esponenzialmente fino allo scatto del ’67. Allora cala la notte più tetra sull’Albania, che taglia i ponti con tutti i Paesi del blocco sovietico, perfino con la Cina ritenuta troppo liberale e “revisionista”. «La nostra terra aperta come un cratere gigante – la descrive così il francescano Zef Pllumi, sopravvissuto alle torture – come un buco di tomba con rabbia tentava di divorare tutti quelli che volevano liberarla». Nel memoriale inaugurato di recente a Scutari alcuni video della propaganda di allora mostrano gli assalti alle chiese, la devastazione degli oggetti sacri e le picconate ai minareti fino all’abbattimento totale. Chi osava dire besim, credo, veniva sottoposto a processi farsa, incarcerato, torturato fino alla morte se non riconosceva come suo unico Dio il Partito. Custodite dalle Clarisse, nel museo si possono visitare le celle, dove sono conservati alcuni strumenti di tortura e il prontuario di quelle più praticate. L’obiettivo era chiaro, lo proclama a lettere maiuscole uno dei manifesti comunisti affissi alle pareti: «L’uomo nuovo è l’opera brillante del Partito». Uno slogan che nella sua traduzione pratica ha portato a un bilancio di questo tipo: 42.772 prigionieri politici per crimini contro la nazione; 14.500 persone incarcerate per attentati contro il popolo; 987 morti in carcere; 308 ricoverati nei manicomi per disordini mentali; 2.169 istituzioni religiose distrutte; 157 chiese e 530 moschee distrutte o trasformate in palestre e teatri.
Perché la creazione dell’uomo nuovo passava per forza attraverso la cancellazione di Dio da ogni spazio, pubblico e privato. Con l’esito dei 40 martiri albanesi per i quali è in corso il processo di beatificazione. Tra i loro volti esposti durante la visita del Papa nel centro della capitale, splende quello di Maria Tuci, di una bellezza dell’altro mondo, una giovanissima consacrata arrestata nel 1949. A lei, raccontano in molti in Albania ancora increduli, fu riservata una tortura medievale: violentata, fu chiusa in un sacco con dei gatti che, affamati e picchiati, la graffiarono e sfigurarono fino ad ucciderla. Ma le vicende delle vittime di quasi cinquant’anni di comunismo, decine, forse centinaia considerando che molte storie non sono mai venute allo scoperto, sono accomunate da un dato: l’irriducibilità della fede di fronte al piano sistematico di distruzione, alla delazione che poteva arrivare fin dentro le mura di casa, oltre che tra vicini. Perché il partito addestrava al tradimento, metteva figli contro padri, istruiva a riconoscere gli indizi della fede. Chi veniva colto a dipingere le uova a primavera, come usano i cristiani per celebrare la Pasqua, era a rischio denuncia.
Quando torna la luce
Finché quella fede sopravvissuta di cristiani e di musulmani nel ’91 è tornata in libertà. Non c’erano più chiese né moschee (a parte quell’antica risparmiata nel centro di Tirana), ma sono state riedificate negli anni insieme alle comunità intorno. Sono ripresi i battesimi, le prime comunioni, i matrimoni religiosi. Sono state aperte sia un’università cattolica che un’università islamica. Le nuove generazioni di battezzati erano là, nel centro della capitale, a dare il benvenuto a Papa Francesco quando, il 21 settembre scorso, ha scelto di venire in Albania per il suo primo viaggio apostolico in Europa.
Per un giorno la sua preferenza per le periferie ha costretto il mondo a torcere il collo verso un lembo di Occidente ritenuto tra i più irrilevanti per peso economico e culturale, e a interrogarsi sul “caso” albanese. Da una parte, infatti, l’Albania con la sua stessa storia risponde all’obiezione di chi si ostina a predicare che le religioni, se pretendono di occupare posizioni nella piazza pubblica, sono causa di violenza. Che dovrebbero restare relegate alla sfera intima, privatissima, per permettere la pace. Nel Paese delle aquile si è constatato il contrario: la volontà di escludere il fattore religioso ha generato una strategia di violenza disumana, che si è conclusa solo quando si è “liberata” la libertà religiosa. Una libertà da intendersi oltre la sua dimensione “legalistica”, nel suo più ampio orizzonte “partecipativo”: «La libertà religiosa – ha sostenuto Francesco – non è un diritto che possa essere garantito unicamente dal sistema legislativo vigente, che pure è necessario: essa è uno spazio comune, un ambiente di rispetto e collaborazione che va costruito con la partecipazione di tutti, anche di coloro che non hanno alcuna convinzione religiosa».
Inoltre dal Paese considerato una delle (tante) cerniere tra l’Oriente e l’Occidente, Francesco ha additato a governi sempre più sollecitati dalle tensioni proprie di società plurali un modello di convivenza con il quale misurarsi. Dalla centrale piazza Madre Teresa il papa ha individuato nella relazione tra cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani e bektashi qualcosa che va oltre la tolleranza delle reciproche differenze: la capacità di «vedere – sono parole di Francesco – in ogni uomo e donna, anche in quanti non appartengono alla propria tradizione religiosa, non dei rivali, meno ancora dei nemici, bensì dei fratelli e delle sorelle. Chi è sicuro delle proprie convinzioni non ha bisogno di imporsi (…) sa che la verità ha una propria forza di irradiazione».
Contro lo scetticismo
Il punto è che al tempo di Isis si è diffuso un tale scetticismo a proposito di relazioni interreligiose, che al sentir sbandierare parole come “coesione pacifica” si diventa subito sospettosi. Si è tentati, al più, di spiegarla con il fatto che è possibile là dove la pratica religiosa è tiepida, dove i musulmani non sarebbero dei veri musulmani… Ma reagisce allo scetticismo Mons. Mirdita Rrok Kola, arcivescovo di Tirana-Durrës:
Posso testimoniare personalmente che esiste uno scambio vero con i responsabili della comunità islamica. E del resto lo si è visto nella partecipazione di molti musulmani alla visita del Papa, un frutto della vita ordinaria.
Guidata da sette vescovi stranieri, la Chiesa Cattolica in Albania conta trentacinque sacerdoti, di cui alcuni italiani, altri polacchi, maltesi, tedeschi, kosovari, olandesi. Solo tre albanesi di nascita, battezzati da adolescenti e ordinati all’inizio degli anni 2000. Tra questi don Gjergj Meta: dopo gli studi diritto canonico a Roma, esperto di media, è oggi parroco a Durazzo. La chiesa qui era stata trasformata in un teatro per burattini e la canonica è ancora un mezzo cantiere, senza intonaco, calcinacci e lavori in corso. Grazie a profili come il suo e a figure di laici come Mira Tuci, una giovane giornalista della tv nazionale che scelse di battezzarsi a 16 anni, sta rifiorendo la comunità dei cattolici in Albania. Una Chiesa che, nella descrizione che traccia l’Arcivescovo, ha ben chiare le sue priorità:
Quando sono stato ordinato Vescovo da Giovanni Paolo II nel ’93 non avevo una casa né una chiesa, tenevamo le riunioni al ristorante. Oggi abbiamo ricostruito le chiese, ma non ci possiamo fermare all’autocompiacimento: urge avere cura dell’educazione alla fede, dei cammini vocazionali, del clero, delle famiglie, dei poveri, dei rapporti ecumenici e interreligiosi.
Cosa resta dopo la persecuzione
Come prova della verità dei buoni rapporti tra cristiani e musulmani Skënder Bruçai, studi in psicologia, oggi capo della Comunità islamica albanese, cita la comune dichiarazione contro Isis sottoscritta dai capi religiosi e la battaglia portata avanti insieme dalle diverse comunità contro l’ateismo pratico. La comunità islamica, articolata in comunità locali che eleggono i loro imam, che a loro volta scelgono i muftì delle varie regioni, ha soprattutto carattere organizzativo: «Il mio compito – spiega Bruçai – è aiutare i musulmani a conoscere e praticare l’autentico Islam, che per noi storicamente è un intreccio tra la scuola giuridica hanafita e il sufismo». Ciò nonostante esistono moschee in mano a gruppi di salafiti, che addestrano o ospitano jihadisti pronti a partire per la Siria. Bruçai non ha neanche quarant’anni, il suo predecessore invece era molto anziano: la generazione intermedia è stata spazzata via dal regime di Henver Hoxha. Sorte toccata anche ai bektashi e agli ortodossi. «Il comunismo ha eliminato o costretto alla fuga i sacerdoti – spiega Mons. Andon Merdani, Vescovo ortodosso di Kruja e assistente dell’arcivescovo di Tirana, Anastasio. Dopo il ’92 fu inviato qui Anastasio che, per il fatto di essere greco, suscitò sospetto intorno a lui. Perché anche se minoritaria, esiste una mentalità xenofoba qui. Fino al ’98 è stato l’unico Vescovo, oggi il nostro sinodo è composto da albanesi, greco-albanesi e greci». Per Mons. Merdani la questione etnica emerge talvolta, ma viene contenuta dalla grande porosità che esiste tra diverse comunità, come attesta l’alto numero di matrimoni misti (25-30%). Ma se i rapporti interpersonali tra cattolici e ortodossi sono amichevoli, a suo dire, dal punto di vista teologico non si è compiuto ancora alcun passo significativo verso l’unità.
Come nasce l’albanesità
Di un’originale “alleanza” interreligiosa per l’Albania parlano anche gli storici, non solo i capi religiosi. Ardian Marashi, direttore del Centro di studi albanesi, risale al XIX secolo per spiegare il motivo per cui nel secolo scorso in Albania non ci sono stati conflitti interconfessionali. Alla fine dell’800, infatti, mentre si cercavano possibili fondamenta sulle quali edificare lo Stato nazionale e dato che gli albanesi, a differenza dei greci, non avevano né un principe, né una religione comune, si inventò un’ideologia in grado di includere tutte le differenze: ecco l’“albanesità”. Le attribuì dignità poetica Pashko Vasa (1825-1892), cattolico, funzionario dell’impero ottomano, governatore in Libano, che in un’opera letteraria coniò quello che divenne uno slogan di grande successo, spesso citato a sproposito: «La religione degli albanesi è l’albanesità». Il rinascimento albanese cominciò da qui, dall’idea partorita da un intellettuale impregnato di romanticismo e illuminismo. Per alcuni è una categoria ancora vivissima, al punto che se chiedi a una giovane convertita dall’Islam al Cattolicesimo dopo anni di catechismo convinto, se si definirebbe prima cristiana o albanese, risponde senza esitare: «Albanese!». Mentre per altri, come don Gjergj, l’albanesità è un’idea superata: «Io mi sento prima un cristiano e poi un cittadino libero del mondo. È troppo poco considerarmi solo albanese, fa soffocare». E all’Europa guardano con insistenza gli albanesi, che vogliono rimuovere due incubi del passato: la dominazione ottomana e il comunismo. Due tabù che devono ancora essere elaborati. Salvo qualche nostalgico che rimpiange l’“ordine” che quelle due fasi storiche avevano permesso al Paese, rispetto al disordine totale nel quale sarebbe sprofondato nel nuovo millennio.
L’albanesità di Vasa, ad ogni buon conto, non ha mai attenuato l’orgoglio delle rispettive appartenenze. Tanto che, come spesso accade nei Balcani, i risultati del censimento del 2011 (57,12% musulmani, 2,52% bektashi, 10,11% cattolici, 6,8% ortodossi, lo 0,11% evangelici) hanno scatenato un putiferio. Qualcuno ha parlato addirittura di “genocidio” dei numeri, denunciando irregolarità introdotte nella modalità di porre i quesiti per incassare vantaggi politici. Gli ortodossi ad esempio ritengono di costituire ancora il 20% circa della popolazione complessiva, i bektashi il 14%.
Per gli stranieri restano impenetrabili gli albanesi, come anche la loro lingua e la loro cultura. La stessa opera del famoso scrittore Ismail Kadaré è stata ritenuta da alcuni funzionale al regime di Hoxa e da altri esempio preclaro di dissidenza. «È un popolo complesso – osserva il nunzio mons. Ramiro Moliner Inglés – ma concorde intorno a una decisione maturata dopo tanta sofferenza: mai più odio. Mai più divisione». Anche se le ferite inferte sono tutte ancora aperte. I dossier non sono mai stati resi pubblici, i colpevoli mai puniti. Dove sono i torturatori e gli assassini? Rischi di andare al bar per un caffè e incontrare il tuo aguzzino? Chi governa il Paese ha scelto di mantenere una coltre di silenzio sul passato. Che sia per salvaguardare la tranquillità collettiva o per nascondere fatti scomodi per chi detiene il potere, non è chiaro. Per Marashi gli albanesi avrebbero bisogno di aprirli per ricostruirsi veramente: «Noi siamo in grado di perdonare. Ma qui non si tratta di perdono, bensì di giustizia. Di questa il Paese ha bisogno».
Dinamismo sociale ed economico
Nel frattempo tutto è in laborioso fermento in questo Paese dove l’età media dei 4,7 milioni di abitanti (più 1,2 milioni all’estero) è di soli 27 anni. Nel centro di Tirana si vive come in una qualsiasi capitale europea, almeno in apparenza, con un rivenditore di smartphone ogni cento metri; ma in altre aree, nei villaggi più poveri, molti rapporti sono ancora regolati dal Kanun, un codice di leggi consuetudinarie arcaiche molto dure, per il quale le donne sono “otri fatti solo per sopportare”, non hanno voce in capitolo su matrimoni spesso combinati e precoci. Hanno largo seguito le figure di presunti maghi, che la domenica frequentano la chiesa. «C’è stata una grande ripresa della fede – spiega mons. Ottavio Vitali, vescovo di Lezhë, diocesi del Nord che conta il 90% di cattolici e 500 conversioni dall’Islam – ma è una fede che va educata. Difficile sradicare certe tradizioni, tanto quanto attuare il Concilio Vaticano II». Per descrivere le contraddizioni presenti mons. Vitali ricorre a un paradosso: «A volte sembra più facile che un musulmano diventi cattolico, piuttosto che un cattolico diventi cristiano».
Un energico dinamismo si avverte anche in economia. Adrian Civici, economista, presidente dell’Università Europea di Tirana, ha appena pubblicato un libro dal titolo Il grande cambiamento, ad indicare che è ora di finirla di parlare di “transizione” a proposito del suo Paese. La proprietà privata era stata abolita al 100%, ora vige un sistema capitalistico liberale (40-45% servizi, 17-20% agricoltura e 9-10% industria) che tenta, anche incassando successi, di rispondere agli standard richiesti dal FMI e dall’UE. Si è lasciata alle spalle la stagione surreale del dopo-comunismo in cui fantomatiche agenzie finanziarie promettevano guadagni facili col sistema drogato delle piramidi. Padri di famiglia vendevano la casa, consegnavano sacchi zeppi di denaro a sospetti titolari che promettevano interessi altissimi. Un’ubriacatura collettiva che, quando le finanziarie furono costrette ad ammettere la propria insolvenza, gettò l’Albania nell’anarchia totale: le carceri vennero aperte, i depositi di armi svuotati, molte città finirono sotto il controllo di bande di delinquenti. Era il 1997: ricominciarono le fughe sui barconi verso l’Italia, finché grazie all’intervento dell’ONU, si ripristinò un certo ordine. Oggi quei barconi stracarichi di gente disperata non partono più dalle coste albanesi. Al contrario: cresce il numero di italiani che si trasferiscono per lavorare a Tirana, mentre il Paese scalpita per entrare nell’Unione europea e accedere ai fondi strutturali. Certamente il debito pubblico al 75% con una crescita attuale del 1,2-2% resta una zavorra pesante. Se l’Albania non è entrata in recessione, come molti dei suoi vicini, tuttavia deve contrastare l’alto livello di disoccupazione (tra il 12 e 15%) e il cancro della corruzione e dell’economia informale (30-35%) che blocca il decollo economico. Paradossalmente anche certi numeri allarmanti, come le 600 università e le 800 ONG dichiarate, documentano da un lato la vitalità di chi tenta di uscire dal cono d’ombra, dall’altro la debolezza del sistema. Ora il governo sta innalzando i controlli contro i diplomifici (molte università sono state chiuse) e le ONG autentiche combattono per ricavarsi il loro spazio di credibilità, così come nuove imprese.
Ma ci vuole tempo e lavoro, come per arare e irrigare un deserto. Quello che anni e anni di pratica di ideologia comunista hanno lasciato. Chi ha vissuto gli ultimi anni del regime ha ancora negli occhi la fame, le code alle 4 di mattina per sperare di trovare il latte, i bollini per ritirare il tozzo di pane, la miseria e lo svuotamento delle persone. In quel deserto l’abbondanza dell’Occidente esibita dai canali della tv italiana (si potevano vedere tutti i programmi, tranne i servizi su Giovanni Paolo II e Gorbaciov, che venivano censurati) ha contribuito a favorire il passaggio diretto dal comunismo a forme di individualismo e consumismo esasperato. Per cui come l’economia chiede di essere riassestata, così anche la persona di essere rilanciata nella sua integralità.
«Il Dio più venerato in Albania oggi è il denaro – spiega Ermira Bandi, che presiede la ONG Shis, impegnata in vari progetti di educazione e sostegno allo sviluppo. I giovani, gli adulti, gli anziani: per tutti al primo posto è il possesso di denaro. Ma è evidente che questo non basta. Rilanciare il nostro Paese passa anche dall’accompagnare un bambino nello studio, affiancando la famiglia e tutto l’ambiente che ha intorno. Dal valorizzare i suoi desideri più profondi e veri. Da ciò che abbiamo, in fondo, ancora di più caro del denaro».
Come quel resto di crocifisso salvato dalle fiamme da qualche coraggioso ignoto. Che rimanda a qualcosa di profondamente umano e irriducibile che sa resistere a qualsiasi genere violenza. Che sia questo il “nido” a cui Papa Francesco ha chiesto, quasi sfidandole, alle “aquile” albanesi di ritornare?
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