I francescani della Medina di Meknès, l’incontro con i migranti a Ceuta, la testimonianza dell’unico superstite di Tibhirine. Alla scoperta di una Chiesa “silenziosamente presente”

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:36

Domenica 13 ottobre 2013. Frère Joël, con i suoi 80 e più anni accoccolati sul sedile accanto al mio, recita il rosario. Ogni decina in una lingua diversa: francese, italiano, tedesco, arabo, inglese, il Padre Nostro in spagnolo. Io farfuglio la risposta nella lingua proposta, mentre cerco disperatamente di concentrarmi su questa strada tortuosa che da Meknès ci porta ad Azrou, dove tre Piccole Sorelle di Gesù ci attendono per celebrare la Santa Messa. Per oggi siamo fortunati, sono solo centoquaranta chilometri, torniamo in giornata. Fra’ Natale invece è partito ieri verso Est, a duecento chilometri dalla nostra casa francescana nel centro della medina di Meknès, per celebrare l’Eucarestia con altre quattro religiose che lavorano negli ospedali pubblici della città di Taza. Finito il rosario, Joël mi chiede a bruciapelo: «Come ama Dio?». Tutto regolare: dopo qualche mese passato con la comunità di Meknès mi sono abituato ad ascoltare discussioni di teologia fondamentale a tavola, perciò non batto ciglio, e soprattutto resto in carreggiata. Benché conservi un ricordo frammentato di quella conversazione, ho ben impressa una frase di Joël, una riflessione chiave, che mi sembra descriva bene cos’è la Chiesa in Marocco:

 

Sarebbe terribile se, qui, tutti fossimo sale. Un pacchetto di sale immangiabile! Dobbiamo essere grati di aver la possibilità di essere sale in una pietanza in cui esso manca. In un luogo in cui essere sale è indispensabile.

 

Questa è la Chiesa cattolica in Marocco: un’infima quantità di sale indispensabile. La “pietanza” di cui parlava Joël è appunto il Maghreb (l’occidente, il luogo del tramonto), la prossima meta di Papa Francesco, Paese musulmano al 99%.

 

È in questo Paese così apparentemente monolitico a livello religioso che ho fatto esperienza di una Chiesa che definirei “ostinatamente in uscita”, di quelle che strizzano l’occhio a Francesco, appunto. Una Chiesa al servizio del popolo, qualunque esso sia, aperta agli altri e all’Altro. Una Chiesa di frontiera e sulle frontiere (di cui parleremo a breve). Una Chiesa coesa e collaborativa, che supera le divisioni interne nel sentirsi chiamata all’estraneo, a ciò che è straniero. Una Chiesa semplicemente inaspettata.

 

Nella medina di Meknes, la meno conosciuta delle quattro città imperiali marocchine, vivono due o tre frati francescani minori e, deo volente, uno o due giovani volontari. Una comunità che si conta sulle dita di una mano, ma che svolge un servizio inestimabile: la “scuola” di lingue e di scienze matematiche e informatiche e la piccola biblioteca vedono passare ogni anno più di millequattrocento studenti che, per qualcosa come dieci euro all’anno, possono permettersi un’istruzione altrimenti inaccessibile. La loro gestione è affidata a una quarantina di volontari marocchini, che, a loro volta, si mettono al servizio degli altri. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. D’altronde, la scuola è solo un aspetto: le visite in carcere per dare una scheda sim, una coperta, una parola di conforto; le visite in quel particolare ospedale, a controllare come va al settimo piano, dove vivono i bambini disabili; la “pastorale musulmana” di quartiere, ossia le conversazioni informali con la famiglia a fianco, che ha perso un figlio, il tipografo che ha perso il lavoro, la madre di famiglia che «ya rabb, mi è capita questa disgrazia, mon-bère, che tu sei qui da cinquant’anni e ne sai più di me sulla questione». E poi il servizio pastorale alla comunità cristiana: le Messe per la piccola comunità locale (nella Chiesa di Nostra Signora degli Ulivi) composta da una ventina di nazionalità, di cui fanno parte tanti giovani subsahariani che cercano in Marocco un’istruzione, un lavoro e semplicemente un benedetto futuro che non hanno trovato a casa loro; le messe a Azrou, Taza o addirittura a Oujda (al confine con l’Algeria), affinché a nessuno, per quanto sperduto nel vasto territorio marocchino, manchi l’Eucaristia. E a queste si aggiungono altre attività: acquistare i manuali di testo proprio in quella libreria un po’ fuori mano, per intessere una relazione con quel gruppo particolare di musulmani (dialogo interreligioso…), condividere la Cappella con la comunità protestante (ecumenismo…), far fare una doccia a Ahmad, accogliere qualche visitatore di passaggio, confrontarsi costantemente e fraternamente con gli altri (pochi) religiosi sul vasto territorio marocchino, al di là dell’appartenenza a ordini o confraternite diverse. Questo intendeva Joël quando parlava di sentirsi fortunati nel poter esser sale della terra: si riferiva alla sua comunità cristiana, che vive in un ex-casa ebraica (con stella di David sul soffitto inclusa) e che si mette al servizio di una comunità quasi completamente musulmana.

 

La “scoperta” di una Chiesa come questa non poteva non essere condivisa. Nel 2016, grazie alla collaborazione tra Caritas e Azione Cattolica e nel 2018, con la rinnovata collaborazione di quest’ultima, un totale di circa trenta giovani della Diocesi di Milano si è imbarcato in un itinerario estivo in Marocco, all’insegna di tre grandi temi: la questione migratoria, la questione dell’alterità, la questione interreligiosa. È ripercorrendo queste esperienze che esco dalla medina di Meknès per consegnare un quadro ancora più ricco della Chiesa marocchina.

 

La questione migratoria non poteva che essere affrontata (a ritroso) partendo dalla cosmopolita Tangeri e dalla spagnola Ceuta. Per la maggior parte dei migranti (principalmente subsahariani) questa zona rappresenta ancora la fine del mondo: non ci saranno forse le celebri colonne d’Ercole, ma le tre muraglie di filo spinato che dividono l’Europa dal Marocco sono un valido sostituto. In questo non-luogo, dove si aspetta il “buon momento” per saltare al di là, la Chiesa cattolica è presenza indispensabile: attraverso le testimonianze e l’esempio della Delegacion de Migrantes, dell’arcivescovo Santiago Agrelo Martínez e del Centro di accoglienza di Caritas (TAM) abbiamo potuto apprezzare che cosa si prova a essere al di qua del muro; dopodiché, grazie a un passaporto “privilegiato” (per qualcuno dei giovani nuovo di zecca – chi conosce più le frontiere, in Europa?) abbiamo provato a capire che cosa significhi essere al di là del muro, attraverso le Piccole Sorelle di Gesù di Ceuta e i loro incontri intimi con chi quelle recinzioni le ha saltate per davvero. Non è difficile intuire allora che in quel luogo “la Storia non si ferma davvero davanti a un portone”. Una Chiesa povera, una Chiesa migrante, ospite in terra straniera, silenziosa ma febbrile, complice di una potente rete di solidarietà lungo tutta la “rotta migratoria occidentale” (che fa ben poco rumore sui media), fino a raggiungere il Centro di Accoglienza di Caritas Rabat e ancora più a sud, fino al Sahara. Una Chiesa che da un lato protesta (nei cosiddetti círculos de silencio) e che dall’altro, e nonostante le sofferenze, canta la speranza, attraverso le corali subsahariane che animano le liturgie domenicali.

 

La questione dell’alterità, più difficile da delineare geograficamente, ha rappresentato il nostro secondo fil rouge. Tutto può essere percepito come “alterità” per un giovane cristiano italiano in Marocco. Ci interessava in particolare l’alterità culturale, o meglio, le alterità marocchine: un viaggio di qualche ora può catapultarti dalle scogliere di Rabat ai vicoletti di Fez, fino alla montagnosa e prevalentemente berbera Midelt. Tante alterità che si sommavano alla nostra alterità di italiani in un paese ospite. Ed è in ognuna di queste realtà che si può rintracciare il “microcosmo di Meknès”, ossia una Chiesa “silenziosamente presente” per tutti, tesa all’altro in tutta la sua complessità, sotto la sua stessa tenda berbera, nel suo cibo, nella sua infanzia (i giovani hanno animato delle colonie estive gestite da suore francescane), nella sua disarmante quotidianità. Così come la Chiesa in Marocco esce da sé stessa, anche ai giovani è stato spesso richiesto di uscire dalle loro convinzioni, dalle loro certezze, di farsi giovani in uscita, senza smarrirsi. Così, davanti a un piatto caldo, abbiamo sentito Mohammed esclamare: «nella differenza sta la Misericordia», una frase diventata il nostro sestante per non perdersi nel mare dell’alterità.

 

Infine, la questione interreligiosa, ossia l’incontro con il mondo musulmano. È certamente lungo quest’ultimo asse che si manifesta l’eccezionalità della Chiesa marocchina, spesso rappresentata dalla Visitazione. Maria incinta di Gesù mentre visita Elisabetta: un mistero nascosto, di una Chiesa portatrice silenziosa del Cristo, in un dialogo tutto interno, tra due ventri materni (rahim, in arabo) fecondi, portatrici a loro volta della misericordia divina (rahma). Il tempo passato al Monastero di Nostra Signora dell’Atlante a Midelt, in ascolto delle parole di Jean-Pierre Schumacher (l’unico sopravvissuto tra i monaci di Tibhirine), ci ha aiutato a penetrare il mistero di una Chiesa umile, coraggiosa e fraterna, che si lascia interrogare dalla fede dell’altro. Il nostro faro, in questo caso, è stato Christian de Chergé, il priore di Tibhirine. Un suo testo ci parlava di un una scala doppia, di quelle che poggiano a terra su due punti, con la parte alta che tocca il cielo, formando dunque una specie di triangolo. Il credente cristiano sale da un lato, quello musulmano dall’altro, ognuno per la sua Via. Al salire sempre più vicini a Dio, ci si ritrova, inevitabilmente, più vicini all’altro. E viceversa, più vicini all’Altro.

 

Questi sono solo tre “assi di ricerca”, giusto per iniziare. Ci sarebbe molto da aggiungere sulla Chiesa in Marocco: suore che vivono sotto una tenda berbera, leggendo testi di mistica islamica del XII secolo; preti marchigiani che percorrono il deserto del Sahara per visitare una comunità sperduta del medio Atlante; ordini contemplativi che vivono a ridosso del mercato (suq) più caotico del maghreb; laici in prima linea per curare le ferite del filo spinato e tutte le altre ‘emorragie interne’ che l’umiliazione e la disperazione comportano; vescovi con cartelloni di protesta davanti alla frontiera; migranti che sopravvivono a stento dietro la stazione centrale, ma che alla Messa della domenica, più eleganti che a un matrimonio, cantano un Alleluia da far tremare la (già instabile) chiesa; frère Stèphane che organizza un viaggio a Istanbul per i professori marocchini, all’incontro con un “altro Islam”.

 

Una Chiesa tanto spoglia, tanto magra, tanto di periferia, non si descrive facilmente. Così come rifugge il centro, così sfugge ogni definizione, scampa ogni confortevole etichetta, resta costantemente fuori di sé, in una specie di estasi continua, tesa all’Altro. Una realtà ineffabile, forse, ma una presenza potente, manifesta, attiva, come Gesù nel grembo materno. Sfuggirà forse agli occhi, ma non sarà difficile, per Francesco, sentirne la sua fecondità ed esemplarità. Inshallah.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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