I foreign fighters sono oggetto di studi e dossier di istituti molto accreditati. Eppure si avverte il rischio che l’analisi, pur molto articolata, si fermi alle spiegazioni sociologiche, necessarie ma non sufficienti a spiegare il fenomeno in tutta la sua portata. Perché l’affondo nella motivazione religiosa non può essere evitato. Lo chiedono la storia e i fatti.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:19

Nell’era del jihad globale il numero di musulmane occidentali che lasciano il loro Paese per unirsi alla causa dello Stato Islamico è in costante crescita. Secondo alcune stime recenti, ad oggi il Califfato avrebbe attratto ben 20.000 foreign fighters tra cui oltre 550 donne occidentali. Numeri che rivelano da un lato l’inedito potere attrattivo della bandiera nera, dall’altro l’efficacia della propaganda via internet messa in atto dai media del Califfo. Fino ad oggi infatti nessun gruppo jihadista, neppure al-Qaida in Afghanistan, era mai riuscito a mobilitare così tanti volontari. Per questo alcuni autorevoli istituti, per esempio l’International Center for the Study of Radicalization del King’s College di Londra e il Center for Terrorism and Security Studies dell’Università del Massachusetts hanno recentemente tentato di indagare il fenomeno delle neo-jihadiste. Queste nuove combattenti che emigrano nello Stato Islamico si autoproclamano muhâjirât in ricordo delle donne che nel 622, anno dell’egira, si trasferirono insieme al Profeta e ai suoi compagni dalla Mecca pagana a Medina e durante le prime battaglie si ersero a difesa di Muhammad. Ma chi sono queste cittadine della Vecchia Europa che decidono di arruolarsi nelle fila dei jihadisti? Negli ultimi giorni la questione è tornata in primo piano con le deliranti dichiarazioni di Maria Giulia Sergio – Fatima, la jihadista italiana fuggita in Siria – e il matrimonio di Amira Abase – la studentessa di origini etiopi che lo scorso febbraio ha lasciato la Gran Bretagna per unirsi al jihad – con Abdullah Elmir, uno dei più noti jihadisti dello Stato Islamico. Delineare il loro profilo è difficile e lo è ancor di più individuare le ragioni del loro avvicinamento al jihadismo militante. Come rileva un articolo della ricercatrice Anita Perešin pubblicato da Perspectives on Terrorism (http://www.terrorismanalysts.com/pt/index.php/pot/article/view/427), le muhâjirât sono il più delle volte giovani donne tra i 16 e i 24 anni, figlie di seconde o terze generazioni di musulmani emigrati, più raramente sono convertite. In generale sono persone acculturate, agiate e cresciute in famiglie insospettabili. Secondo questo studio, ad alimentare il desiderio delle donne di trasferirsi nel Califfato interviene una combinazione di fattori. Alla motivazione religiosa, sempre presente ma di per sé non sufficiente, andrebbero ad aggiungersi il desiderio di realizzazione personale e di sentirsi parte di un progetto, la voglia di combattere per una causa e, non ultima, la volontà di sovvertire l’ordine occidentale, considerato la causa di tutti i mali. Per alcune donne è decisiva la chiamata del Califfo che invita i musulmani di tutto il mondo a contribuire alla nascita del nuovo Califfato; per altre lo Stato Islamico è sinonimo di giustizia, un luogo sicuro dove poter praticare liberamente la propria fede, senza dover sottostare alle restrizioni imposte dai governi occidentali. In alcuni casi interviene il fattore umanitario: mosse dal senso di compassione, frutto di una profonda identificazione con le sofferenze dei siriani e degli iracheni, e dall’avversione per la politica estera adottata dal proprio Paese d’origine verso il Medio Oriente, le muhâjirât sperano di poter portare il loro aiuto nel teatro di guerra. Forte è il richiamo che lo Stato Islamico esercita anche sulle giovanissime: adolescenti spesso insoddisfatte e in cerca di una vita alternativa si lasciano sedurre dal fascino della bandiera nera nell’illusione che partecipare al progetto di costruzione dello Stato Islamico e della sua ideologia possa garantire loro un senso di appartenenza e costituisca un ideale per cui vale la pena lottare. Il web è l’arena in cui agiscono i reclutatori, lanciando una propaganda in francese e in inglese pensata appositamente per le potenziali reclute dall’Occidente. La piattaforma preferita sembrerebbe Twitter perché è il social che consente di celare meglio le identità degli utenti e aprire facilmente nuovi account, seguito da Facebook, Instagram, Kik, WhatsApp, YouTube, SureSpot e Tumblr. Alle nuove reclute lo Stato Islamico garantisce il supporto operativo fin dall’inizio: canali criptati attraverso cui ricevere le informazioni necessarie a chi intenda seriamente trasferirsi, consulenze legali per risolvere i problemi burocratici alla frontiera, una lista di persone da contattare una volta giunte a destinazione. In loco ogni donna riceve una casa, qualche dollaro per vivere e un jihadista in sposo. Le grandi aspettative che animano le donne prima della partenza non trovano riscontro nella realtà e sono spesso deluse. Le muhâjirât emigrano con il desiderio di combattere e morire martiri, ma lo Stato Islamico per il momento non riconosce alle donne questo ruolo e perciò non consente loro di combattere. Il loro compito è procreare, crescere una nuova generazione di jihadisti ed educarli al combattimento nel nome di Dio – spiega, a scanso di equivoci, un documento diffuso dallo Stato Islamico nel gennaio 2015. Secondo queste e altre letture sociologiche, dunque, la decisione di prendere parte al jihad sarebbe dettata da ragioni di natura soprattutto sociale, o al limite psicologica. E tuttavia queste non appaiono sufficienti a giustificare il processo di radicalizzazione in atto. Mentre le indagini sociologiche, infatti, spiegano il fenomeno nell’immediato indagando nelle vite dei neo-jihadisti, esse rinunciano a esplorare la dimensione anche religiosa della loro scelta. L’opzione jihadista infatti implica l’adesione al progetto di Stato Islamico, al combattimento sulla via di Dio, alle fede nella ricompensa del Paradiso, promesso dal Corano a chi muore martire, alla lotta per l’applicazione della sharî‘a in tutto il mondo islamico e all’impegno alla conversione o all’uccisione dei miscredenti. Scelte che è difficile giustificare senza contemplare una forma, per quanto perversa e deviante, di ricerca dell’assoluto.