Intervista con S.E. Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, Vicario Apostolico di Tripoli

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:19

«Sono tornato dopo un breve periodo di vacanza e sono rimasto quasi sorpreso, perché la situazione, agli occhi di una persona che viene da fuori, è realmente cambiata. Sono diversi i volti delle persone, appaiono più distesi. Sono diversi i colori delle strade, dei manifesti. Anche i nuovi colori della bandiera dicono il cambiamento avvenuto. Prima c’era un clima da incubo, una tensione continua che rendeva impossibile parlare liberamente. La gente ora può dire ciò che davvero pensa, non è più schiacciata dalla paura, dalla preoccupazione di essere perseguitata dal regime. Sono stato colto da un’impressione quanto mai positiva al mio rientro: la Libia ha intrapreso un nuovo percorso, per potersi rinnovare dall’interno». Quindi nutre salde speranze per l’immediato futuro del suo Paese? «Certo, anche se ho ben chiara la consapevolezza che il cammino non sarà breve né semplice. Si presenta come una vera e ardua sfida per i libici: programmare la ritrovata libertà a tutti i livelli, quello politico, ma anche educativo e sociale, e garantirla nel modo più compiuto. Ma l’inizio di questa nuova epoca è buono: basta guardare quella sorta di distensione con cui a differenza del recente passato si può oggi operare, senza quel pressante timore di essere ascoltati e traditi, e si coglie come la Libia si sia liberata da un pesante fardello». Il suo grido contro le bombe è stato udito in tutto il mondo. Quale il suo bilancio ad oggi? «La guerra è stata un fatto molto grave, con pesanti ricadute sia sul piano esterno, sia su quello interno. Lo scontro a fuoco, i gruppi contrapposti, la violenza ha accentuato le vecchie divisioni e ne ha causate di nuove. È un dato che non si può negare. E tra l’altro la questione non è chiusa. Il Colonnello è ancora forte e si fa sentire e non mancano persone che sono disposte a perdere tutto per combattere per lui, il loro capo». Ma a qualcosa di buono è servito il bombardamento? Cosa resta ora? «Guardi, ad oggi posso solo dire che penso si debba costruire una fase di riconciliazione interna. Spero che si possa trovare la strada bene e presto». Diceva che la Libia le sembra libera oggi, ma quale tipo di libertà ha in mente? «La libertà che auspica per sé la Libia è articolata: è la possibilità di prendere in mano il proprio destino, di raggiungere un livello più alto non solo economico, ma anche culturale, di apertura al nuovo. Vuol dire poter recuperare e rivalutare l’unicità che le è propria ed è connessa all’incontro originario tra la civiltà del deserto e quella occidentale. La Libia ha un suo particolare volto: se lo riscopre come unico in quanto incrocio di tradizioni diverse, arabe, musulmane, beduine ed anche occidentali, che nel passato e in un dinamismo continuo si sono contagiate a vicenda, allora la Libia saprà rialzarsi e entrare nel confronto paritetico con i Paesi vicini e lontani. Ma su chi può appoggiarsi internamente in questa fase di transizione? «Il prossimo futuro ci mostrerà senza filtri su chi il Paese può contare. Per ora ci sono da curare le ferite profonde recenti. Secondo me non mancano figure di intellettuali in grado di partecipare e animare la costruzione di un progetto politico, ma anche sociale e religioso per il Paese. Certo auspicherei che, come non mancano le imprese economiche internazionali che si prodigano per la Libia, altrettanto nascessero dei rapporti di collaborazione con realtà culturali straniere, come le università per esempio, che favorissero uno lavoro di promozione a tutto campo di tipo culturale. Spererei che un lavoro condiviso anche con realtà culturali solide straniere aiutasse a superare un certo complesso di inferiorità culturale che qui in Libia si respira. Adesso occorre avviare grazie alla ritrovata libertà strumenti culturali, ma anche mediatici, che favoriscano proprio questo: un nuovo processo di crescita sociale-culturale del Paese».