C’è la stessa ideologia alla base, ma la ragion d’essere dello Stato Islamico è il rifacimento del mondo attraverso la restaurazione del califfato. Le 47 esecuzioni e le paure di Riad

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:22

Come già era accaduto dopo l’11 settembre, le gesta dell’islamismo jihadista, questa volta nella versione dello Stato Islamico, hanno riportato al centro dell’attenzione mediatica l’Arabia Saudita, spesso accusata di essere il principale ispiratore, organizzatore e finanziatore del terrorismo jihadista. L’esecuzione, il 2 gennaio, di 47 detenuti, tra i quali il religioso sciita Nimr al-Nimr, ha ulteriormente contribuito a irrobustire l’immagine di principale fomentatore delle violenze in Medio Oriente. Il fanatismo dell’Uno La guida suprema iraniana Ali Khamenei si è trovato così in buona compagnia nel paragonare l’Arabia Saudita allo Stato Islamico. Nell’ultimo anno più di un osservatore ha infatti messo in evidenza le affinità tra lo Stato dei Saud e quello di Abu Bakr al-Baghdadi: stessa ideologia wahhabita, stesso approccio letteralista alle scritture, stesso sistema penale ispirato a un’interpretazione estremamente rigida della sharî‘a. Secondo un editoriale del New York Times del 20 novembre, l’Arabia Saudita non sarebbe altro che “un Isis che ce l’ha fatta”. Le analogie tra il regno dei Saud e il neo-califfato certamente non mancano, come dimostra tra l’altro la partecipazione al conflitto siro-iracheno di molti giovani jihadisti sauditi, desiderosi di mettere in pratica lo zelo religioso imparato sui banchi di scuola. Ma le differenze tra le due entità, puntualmente rilevate da Stéphane Lacroix, esperto di Arabia Saudita e docente a Parigi a Sciences Po, non sono meno significative. L’Arabia Saudita è uno Stato Islamico, per quanto egemone nel mondo sunnita, mentre l’Isis pretende di essere lo Stato Islamico per eccellenza, il Califfato universale cui potenzialmente tutti i musulmani del mondo devono obbedienza; il sistema saudita è bicefalo, fondandosi sulla diarchia tra potere politico, esercitato dai Saud, e autorità religiosa, detenuta dagli ulema custodi della dottrina hanbalita-wahhabita; nello Stato Islamico vige invece il “fanatismo dell’Uno” nella sua forma più estrema; l’Arabia Saudita è nata come Stato jihadista ed eversore (la sua conquista della penisola arabica negli anni ’20 è stata un combattimento “sulla via di Dio” contro i musulmani considerati “devianti”), ma come ha scritto su Oasis lo studioso tunisino Hamadi Redissi, nel corso del tempo ha “messo giudizio” e si è affermata come autorità neo-tradizionale; lo Stato Islamico rifiuta qualsiasi compromesso con l’ordine esistente perché la sua ragion d’essere è il rifacimento del mondo attraverso la restaurazione del Califfato. Certamente lo Stato Islamico vuole “farcela”, ma non allo stesso modo in cui ce l’ha fatta il Regno saudita, il quale peraltro sta attraversando una fase molto delicata della propria storia. I messaggi delle 47 esecuzioni È da questo momento critico che occorre partire per capire la ragione delle esecuzioni con cui l’Arabia Saudita ha inaugurato il nuovo anno. Concentrandosi sull’eliminazione dell’ayatollah sciita Nimr al-Nimr e dimenticando gli altri 46 condannati a morte, molti commentatori hanno unilateralmente interpretato il gesto di Riad come una spudorata provocazione nei confronti dell’Iran sciita. In realtà, il messaggio lanciato dai regnanti sauditi è molto più articolato, come ha messo in luce dalla sua pagina twitter Madawi Al-Rasheed, tra i massimi esperti del Paese del Golfo. Tra i 47 giustiziati vi erano infatti militanti della società civile e alcuni membri di al-Qaida, tra cui l’ideologo Faris al-Shuwail, arrestato dopo una serie di attacchi compiuti nel 2004 dall’organizzazione jihadista. Più preoccupati dalla dissidenza sunnita che da quella sciita, i regnanti sauditi hanno voluto lanciare un avvertimento ai loro correligionari più intransigenti e agli islamisti di casa propria, rassicurandoli allo stesso tempo con l’esecuzione dell’influente leader sciita Nimr al-Nimr. La reazione dell’Iran che, come dimostrano le prestazioni dei suoi boia (289 esecuzioni nel 2014 secondo Amnesty International), non ha nulla da invidiare alla brutalità di Riad, non soltanto non preoccupa la casa reale, ma le fornisce quel surplus di legittimità “confessionale” che essa ricercava in una fase in cui, tra calo della rendita petrolifera e risultati modesti nei conflitti regionali, il suo potere si sta rivelando particolarmente vulnerabile. In queste condizioni il connubio fatale tra spregiudicatezza della famiglia saudita e rigorismo dei chierici wahhabiti sembra più irriformabile che mai, visto che ognuno dei due soggetti è probabilmente incapace di sopravvivere senza l’appoggio dell’altro. Ed è difficile immaginare un Medio Oriente finalmente pacificato finché l’Arabia Saudita eserciterà il suo magistero fondamentalista sul resto del mondo arabo-musulmano sunnita.