Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:42

La pandemia di Covid-19 sta mettendo in ginocchio l’Egitto e il suo sistema sanitario. All’Abbaseya Chest Hospital del Cairo, 52 persone dello staff hanno contratto il virus e si sono messe in quarantena. Il personale medico ha poi chiesto all’ospedale di non accettare più pazienti affetti da Covid-19 prima che un’equipe medica di riserva potesse subentrare per coprire la carenza di personale, racconta Mada Masr. Sebbene due terzi del personale non possano lavorare perché in quarantena, l’ospedale continua ad accogliere ogni giorno centinaia di pazienti affetti da Coronavirus, aumentando la pressione sul sistema sanitario.

 

Testimonianze simili sono riportate anche da Middle East Eye. Molti medici egiziani hanno criticato le scelte arbitrarie del ministro della Sanità, che non ha provveduto a gestire la carenza di test e di dispostivi di protezione, un’osservazione mossa a suo tempo anche dall’ONU. Molti medici hanno allora rassegnato le dimissioni o minacciato di scioperare. Per tutta risposta il governo li ha accusati di sabotaggio e di far parte di cellule terroristiche dei Fratelli musulmani, messi al bando dal governo.

 

In realtà allo scoppio della pandemia i media avevano parlato di “armata bianca” riverendosi al personale medico, ricorda Haaretz. Poi però molti medici sono morti in prima linea, è emerso quanto siano bassi i loro salari, si è scoperto che non esiste un protocollo di trattamento standard al quale fare riferimento e che personaggi dello spettacolo e del governo hanno ricevuto subito le cure necessarie mentre la popolazione è costretta ad aspettare settimane. Quando poi rappresentanti del sindacato dei medici si sono rivolti ad al-Sisi, il presidente ha risposto che “non è il momento adatto”, e ha poi aggiunto: “È il momento di mostrare solidarietà al vostro Paese per affrontare la crisi”. E sui social i sostenitori del presidente si sono riferiti ai medici come di “traditori che curano i propri interessi”".

 

Ma sui social negli ultimi tempi ci sono anche state moltissime manifestazioni di solidarietà, scrive The National, e attraverso Facebook si può capire quanto sia estesa la diffusione del contagio. “Facebook è diventato così deprimente”, ha detto Mohammed Yassin, un pittore ed ex attivista politico il cui fratello ha contratto Covid-19. “C'è un post su qualcuno che l’ha avuto, seguito da un altro su un parente che l’ha avuto e poi un terzo su qualcuno che è morto. Ogni tanto ne vediamo uno su qualcuno che si è ripreso completamente e questo ci rallegra un po’”. Facebook aveva 30 milioni di utenti in Egitto prima della pandemia ed è salito a 40 milioni, permettendo alla popolazione una certa libertà di parola, nonostante il governo abbia il controllo della maggior parte dei media. Si è infatti verificata una serie di arresti nei confronti di personalità popolari sui social, soprattutto YouTube e TikTok, di cui parla Mada Masr. Le accuse sono nella maggior parte dei casi di “dissolutezza e immoralità”.

 

Nel Sinai invece continua ad annidarsi la minaccia terroristica. La settimana scorsa l’esercito egiziano ha riportato di aver eliminato 19 combattenti e di aver subito una perdita di 5 uomini. Le operazioni portate avanti nella parte settentrionale del Sinai sono diventate popolari anche grazie a una serie televisiva trasmessa recentemente durante il Ramadan: si intitola al-Ikhtiār, (La scelta) e sembra abbia permesso all’esercito di riacquistare un po’ di favore nella popolazione egiziana. Una seconda stagione è prevista per l’anno prossimo, ma, come scrive Orient XXI, nella realtà la regione del Sinai è poverissima, trascurata dal potere centrale e abitata da beduini che percepiscono il Cairo come un altro occupante dopo aver subito l’invasione israeliana. Emarginata socialmente e politicamente, la popolazione del Sinai è dedita a vari tipi di commerci illegali in connivenza con i gruppi terroristici.

 

La penisola del Sinai è una zona che resta in una certa misura oscura anche agli Stati Uniti, che hanno ampiamente finanziato il governo egiziano nella lotta al terrorismo nella regione. Secondo una valutazione del Dipartimento di Stato ottenuta da Foreign Policy, gli Stati Uniti non sono in grado di verificare come l’Egitto stia usando le armi fornite da Washington, “un punto cieco che il Congresso teme possa limitare la capacità dell'amministrazione Trump di indagare sulle violazioni dei diritti umani nella lotta in corso contro lo Stato islamico”. Alcuni legislatori hanno chiesto all’amministrazione Trump di ridurre gli aiuti militari all’Egitto, che al momento ammontano a 1,3 miliardi di dollari. Anche dopo l’incarcerazione di alcuni cittadini americani, Trump si è dimostrato riluttante a fare pressioni su al-Sisi e l’unica opzione sul tavolo per ora sembra essere una riduzione delle truppe americane nel Sinai in linea con la generale revisione dell’impegno militare statunitense all’estero.

 

La Turchia nel Mediterraneo orientale

 

Con la pandemia di Covid-19, la Turchia ha inviato materiale sanitario a ben 116 Paesi, facendone ampio sfoggio diplomatico, scrive il Carnegie Endowment for International Peace. In previsione del 2023, anno in cui si terranno le elezioni presidenziali, Ankara sta cercando non solo di rafforzare la propria posizione nel Mediterraneo orientale, ma anche di proiettare la propria influenza nello scenario globale, passando dai Paesi limitrofi per arrivare a territori oltre le frontiere di un ideale nuovo spazio ottomano. Importantissimo in questo contesto lo sviluppo di droni di ultima generazione, ampiamente utilizzati nelle guerre in Libia e in Siria. La vicina Grecia si sente minacciata dall’assertività turca e ha recentemente nominato un nuovo inviato speciale in Siria a otto anni dalla chiusura delle relazioni diplomatiche, riporta Limes. L’intento di Atene è allargare l’asse di contenimento all’espansione turca già formato da Grecia, Cipro, Egitto, Israele con il sostegno esterno della Francia e degli Emirati Arabi Uniti che occupano il campo opposto ad Ankara nei conflitti in Siria e in Libia.  

 

Nel teatro libico in particolare la strategia di Ankara, che appoggia il governo di Fayez al-Serraj e ha recentemente riportato delle vittorie contro l’avanzata di Khalifa Haftar, potrebbe rivelarsi controproducente, commenta Haaretz. Una possibilità è quella di uno scontro diretto con la Russia di Putin, anche se è lo scenario più improbabile, poiché, come in Siria, è molto più facile che le due potenze cooperino al fine di realizzare i propri interessi. Potrebbe invece prendere vita una zona di “de-escalation” come quella nei pressi di Idlib, in Siria, che congelerebbe almeno in parte il conflitto. Per capire la piega che prenderà il conflitto bisognerà attendere i risultati dei negoziati in corso a Mosca. Lunedì infatti Serraj e Haftar hanno accettato una tregua e mercoledì Ahmed Maetig, il vice presidente del GNA, è arrivato a Mosca per riprendere i negoziati. Maetig è considerato un interlocutore affidabile da parte russa, statunitense ed egiziana, secondo La Stampa, e il procedere dei dialoghi sembra faccia ben sperare per una conclusione dal conflitto. Intanto il GNA ha concordato con l’Italia di sminare l’aeroporto internazionale di Tripoli, che verrà ricostruito da un consorzio italiano. Nella capitale russa è presente anche il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, segnala Agenzia Nova. Il figlio dell’ex dittatore potrebbe rientrare nei progetti di una nuova leadership in Libia, ma per ora si tratta solo di ipotesi non verificate. Secondo Orient XXI è ancora troppo presto per fare pronostici sulla fine della guerra perché nell’equazione coesistono troppi parametri. È necessaria una certa unità nella società libica, che finora si è dimostrata ostile all’idea di una dittatura militare, ed è altresì necessario che le potenze esterne depongano le armi. Non sarà tuttavia sufficiente, poiché gli attori libici mantengono comunque un certo grado di autonomia. Ciò che al momento è invece certo sono i rapporti sempre più stretti tra Tripoli e Washington, che, come ricorda Formiche, vuole cercare di ridurre l’influenza russa in Libia. Intanto le forze di Haftar giovedì si sono ritirate da Tripoli.

 

Una sfida aperta per Erdogan è come convertire i successi sul piano internazionale in potere sul piano interno. Qualche giorno fa sono state arrestate più di 100 persone che il governo ritiene essere collegate alla figura del chierico con base negli Stati Uniti Fetullah Gulen, che Ankara accusa essere stato il mandante del tentato colpo di stato contro Erdogan del 2016, ricorda Reuters. La repressione continua anche nei confronti delle minoranze curde e cristiane, scrive invece Al Monitor. Nell’ultimo mese le chiese armene hanno subito tre attacchi e un giovane curdo è stato ucciso a pugnalate, ma gli esperti non si dicono sorpresi da questi eventi. Le conseguenze economiche della pandemia si stanno infatti facendo sentire, mentre la “retorica polarizzante” utilizzata dai membri del governo ha fatto il resto.

 

Un nuovo episodio nella saga familiare siriana

 

Secondo il Washington Post, il regime di Assad si sta trovando ad affrontare le più grandi sfide dall’inizio del conflitto, che riguardano un’economia al collasso, tensioni con la Russia e una spaccatura all’interno della propria famiglia. Assad non è mai stato così vulnerabile secondo Lina Khatib di Chatham House: “Assad è diventato fortemente dipendente dal sostegno iraniano e russo. Non ha risorse interne da offrire ai suoi cittadini. Non ha la legittimità internazionale e non ha il potere militare che aveva prima del conflitto”. La crisi economica sta riducendo la popolazione in uno stato di povertà senza precedenti, ma né la Russia né l’Iran sono in grado di iniettare i miliardi di dollari di cui necessari a ricostruire il Paese, e Assad continua a rifiutare le riforme politiche che potrebbero aprire le porte ai finanziamenti occidentali e dei Paesi del Golfo.

 

Ci sono stati degli sviluppi anche per quanto riguarda la faida familiare tra Bashar al-Assad e il cugino Rami Makhlouf. Nelle scorse settimane la compravendita delle azioni di Syriatel è stato sospeso a tempo indefinito, riporta Al Monitor, i beni di Makhlouf sono stati congelati e gli è stato imposto il divieto di tornare in Siria, sebbene non sia chiaro dove si trovi il magnate al momento. Makhlouf ha risposto ai sequestri dei suoi beni con l’ennesimo video su Facebook, nel quale mette in guardia la comunità alawita: senza di lui e la sua azienda la potente cerchia del presidente rischia di andare incontro a un “terremoto”. In realtà gli alawiti per ora restano fedeli ad Assad. Infatti, il fratello di Rami, Ehab Makhlouf, ha scritto un post su Facebook in cui ha dichiarato il proprio sostegno a Bashar, dimostrando come la base di sostegno al presidente sia ancora forte, scrive il Carnegie Endowment for International Peace. L’elemento principale che tuttavia emerge dai contrasti familiari siriani è la terribile situazione economica e commerciale del Paese, soprattutto alla vigilia dell’attuazione del cosiddetto Caesar Syria Civilian Protection Act, una legge americana che sanziona il regime siriano per aver commesso crimini di guerra, così come coloro che conducono affari con il regime, ed è previsto che entri in vigore entro la fine del mese.

 

Le nuove sanzioni, scrive Al Monitor, mirano a colpire soprattutto le imprese russe, ma mercoledì il presidente siriano, oltre ad dichiararsi contrario alle misure, ha affermato che colpiranno la popolazione siriana che si trova già in gravi difficoltà. Il Ceasar Act venne approvato dal Congresso americano in dicembre e prende il nome dallo pseudonimo di un fotografo siriano che nel 2013 abbandonò la Siria con le immagini delle torture perpetrate dal regime nelle carceri siriane.

 

Secondo Foreign Policy il futuro della Siria dipenderà in larga parte da come andranno le elezioni americane a novembre, che potrebbero modificare la posizione statunitense nei confronti dell’Iran, alleato chiave di Damasco. Il deterioramento dell’attuale condizione economica deriva dalla distruzione delle infrastrutture civili a partire dal 2011 che si è accompagnata alle sanzioni economiche. In situazioni normali, la Siria chiederebbe aiuto finanziario all’Iran, che tuttavia a partire dal 2018 è stato parimenti colpito dalle sanzioni americane e quindi costretto a dirottare tutte le risorse finanziarie all’interno. Se a novembre dovesse essere rieletto Trump, un miglioramento per la popolazione siriana sembra impossibile, mentre se dovesse vincere le elezioni il candidato democratico Joe Biden, gli Stati Uniti potrebbero forse pensare a una soluzione diplomatica.

 

In breve

 

L’influenza delle Cina si sta espandendo in Medio Oriente, dando vita a tutta una nuova serie di contrasti con gli Stati Uniti (Washington Post)

 

Secondo un rapporto dell’Onu, i talebani mantengono ancora legami con al-Qaeda nonostante l’accordo siglato con gli Stati Uniti preveda il divieto per il gruppo terroristico di utilizzare come base il territorio afgano (Reuters). Il leader dei talebani ha inoltre contratto Covid-19 ed è quindi probabile che i negoziati di pace non riprenderanno molto presto (Foreign Policy)

 

A Najaf, la città sacra per gli sciiti che si trova in Iraq, alcuni miliziani hanno deposto le armi per seppellire musulmani e cristiani nell’unico cimitero del Paese creato appositamente per i morti di Covid-19 (Reuters)

 

In Yemen, nella parte meridionale del Paese i pochi ospedali rimasti non riescono a ospitare le persone affette da Covid-19, mentre nella parte settentrionale i ribelli houthi hanno nascosto l’estensione dell’epidemia minacciando di morte giornalisti e medici (Washington Post)

 

Sembra esserci stato uno scambio di prigionieri tra l’Iran e gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno rilasciato lo scienziato iraniano Sirous Asgari, mentre l’Iran ha liberato il veterano della marina Michael White, tenuto prigioniero dal 2018 (Le Monde)

 

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