Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:09:17

Tra gli appuntamenti chiave del 2023 ci sono sicuramente tre elezioni: quelle in Nigeria, previste in febbraio, quelle in Pakistan del prossimo ottobre e quelle per la presidenza della Repubblica in Turchia. Come ha scritto Bobby Ghosh (Bloomberg) le prime saranno le più grandi per numero di elettori, le seconde saranno le più rumorose, mentre quelle che decideranno il futuro di Recep Tayyip Erdoğan saranno senza dubbio le più importanti. Tuttavia,  a essere in gioco non sarà soltanto la sorte di Erdoğan, del suo partito e dei cittadini turchi: «ciò che avviene in Turchia non resta solamente in Turchia», ha detto Ziya Meral, senior associate fellow del Royal United Services Institute for Defence and Security Studies; «la Turchia potrà essere una media potenza, ma le grandi potenze hanno interessi in queste elezioni». Di certo, in molti all’estero, e in particolare tra Bruxelles e Washington, sarebbero felici di vedere nascere una nuova Turchia senza il capo dell’AKP al timone. Ma anche chi spera in questo risultato difficilmente è «ottimista riguardo a chi, o cosa, arriverebbe» dopo Erdoğan, si legge su ancora su Bloomberg. D’altro canto, la politica estera turca degli ultimi anni ha provocato più di qualche grattacapo alle capitali occidentali, a cominciare dalle rivendicazioni sulle zone del vicinato e dalle minacce rivolte alla Grecia. Eppure, secondo l’analista politico Selim Koru «la visione del mondo di Erdoğan è ben più radicale di quanto pensino la maggior parte degli occidentali» ed è permeata dalla convinzione che la Turchia non debba semplicemente  integrare l’influenza europea e americana nell’area «ma debba rimpiazzarle e contrastarle». Per quanto questo non piaccia a una parte dei Paesi stranieri, le cose sembrano andare in maniera ben diversa all’interno della Turchia: un sondaggio condotto da Metropoll attesta il tasso di approvazione di Erdoğan al 47,6%, in rialzo rispetto al 39% dell’anno scorso. Un dato estremamente significativo per un politico che governa da così tanto tempo.

 

Intanto, la coalizione di partiti che si opporrà al presidente uscente non ha ancora definito chi sarà lo sfidante. Una delle opzioni è il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, che era già riuscito a sconfiggere un candidato dell’AKP alle elezioni comunali. Onde evitare brutte soprese, comunque, la magistratura sembra voler dare una mano al presidente turco: mercoledì sono emerse nuove accuse contro İmamoğlu, questa volta per i casi di corruzione che si sarebbero verificati durante il suo mandato nel distretto di Beylikdüzü (2014-2019). İmamoğlu, peraltro,è in attesa di un giudizio di appello in seguito a una condanna che, se venisse confermata, ne impedirebbe l’assunzione di cariche pubbliche. È probabile che, con İmamoğlu fuori dalla corsa, l’opposizione si troverebbe a puntare sul segretario del CHP Kemal Kılıçdaroğlu. Probabilmente l’avversario preferito da Erdoğan.

 

Arabia Saudita: cosa cambia e cosa no

 

«I sauditi sentono lo spirito natalizio come mai prima d’ora». Ha titolato così il principale quotidiano saudita in lingua inglese Arab News. In un editoriale pubblicato in prima pagina, il direttore Faisal J. Abbas ha celebrato il cambio di rotta dell’Arabia Saudita (approvato anche dal segretario generale della Lega Musulmana Mondiale Mohammed al-Issa, il quale ha sottolineato che le scritture islamiche non impediscono in alcun modo di fare gli auguri ai cristiani): «Sebbene naturalmente questa non sia una tradizione nuova nella maggior parte dei Paesi del mondo – ha scritto Abbas – è una prima nel Regno dell’Arabia Saudita, e come dice l’antico proverbio: meglio tardi che mai». Così, nei negozi e nei mall sauditi sono comparsi lucine e alberi di Natale. Commentando la novità, introdotta in seguito al processo di riforme avviato dal principe ereditario Mohammad bin Salman, il Financial Times ha scritto che il 2022 segna «una svolta per un Paese dove quasi tutti i cristiani sono lavoratori stranieri, e dove tradizionalmente ogni forma di culto diversa da quello islamico è proibito». Per scorgere un altro segno del cambiamento possiamo guardare all’affaire Cristiano Ronaldo che, come sappiamo, si muove sempre con la compagna Georgina e la famiglia. Tuttavia, i due convivono senza essere sposati. Che fare dunque all’arrivo in Arabia Saudita, dove – per i residenti – è vietata la convivenza tra uomo e donna al di fuori del matrimonio o della parentela? Nessun particolare problema: le autorità saudite hanno smesso di occuparsi di queste questioni e comunque, assicurano diverse fonti (qui al-Monitor), sono pronte a chiudere un occhio per il campione portoghese appena ingaggiato dall’al-Nasr.

 

Ciò che invece sembra non cambiare mai è il ruolo della grande compagnia petrolifera ARAMCO. «Il più grande produttore di petrolio del mondo sta scommettendo di poter continuare a fare ciò che gli riesce meglio: pompare petrolio per i prossimi decenni e guadagnare ulteriori quote di mercato mentre altri produttori retrocedono» gradualmente usciranno dal mercato, ha scritto Tom Wilson nel suo reportage dai siti di Abqaiq e Dhahran. Non che i problemi ambientali siano estranei ai pensieri e alle strategie della compagnia: nel giugno scorso per la prima volta ARAMCO ha pubblicato il suo “report sulla sostenibilità”. Come ha osservato Wilson, nelle prime 33 pagine del documento compaiono almeno 14 volte le parole «lowest carbon» o «least carbon» all’interno di frasi come «Aramco ha dimostrato la sua capacità di produrre idrocarburi a basso costo e con una delle minori intensità carboniche» (dati peraltro confermati dal Financial Times). Ciò evidenzia come la strategia aziendale sia in primo luogo quella di continuare a estrarre petrolio, beneficiando del fatto che, rispetto ai competitor, può farlo in maniera più green, se così possiamo dire. La strategia è criticata per esempio da Michael Coffin (Carbon Tracker), il quale ha sottolineato che l’85% delle emissioni di gas serra ascrivibili al petrolio sono dovute al momento in cui il petrolio viene bruciato, mentre solo il 15% fa riferimento ai processi di produzione.

 

Intanto Riyad continua a puntare anche sugli investimenti all’estero nel settore minerario. In quest’ottica l’Arabia Saudita ha lanciato un fondo (proprietà divisa tra l’azienda statale Ma’aden che detiene il 51% e il Public Investment Fund) che pianifica investimenti per 15 miliardi di dollari in attività minerarie all’estero.

 

La crisi economica egiziana si aggrava

 

La crisi economica in Egitto si fa sempre più grave. Il Coronavirus ha messo in crisi l’enorme settore turistico egiziano e, proprio mentre al Cairo si puntava su una ripresa dei viaggi dovuta all’allentamento della morsa pandemica, la Russia ha invaso l’Ucraina. Questo ha provocato in primis la riduzione dei turisti russi e ucraini che si dirigono verso Sharm el-Sheikh e le altre località turistiche egiziane. Ma soprattutto ha generato un notevole aumento dei prezzi, a cominciare da quello dei cereali che il Cairo importa in enorme quantità proprio da Russia e Ucraina. Il prezzo dei beni alimentari è salito del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, la valuta locale ha perso valore, mentre gli investitori esteri hanno ritirato miliardi di dollari dal Paese dopo l’invasione subita da Kiev. Per i cittadini egiziani diventa sempre più difficile e costoso acquistare i beni essenziali, a cominciare da quelli alimentari. Tuttavia, come ha ricordato il ricercatore egiziano Wael Gamal interpellato dal Washington Post, sarebbe un errore imputare le colpe dell’attuale crisi egiziana solamente a cause esogene. Infatti, ha detto Gamal, anni di indebitamento per finanziare i megaprogetti voluti dal presidente al-Sisi «hanno reso l’Egitto particolarmente vulnerabile». In questo contesto l’Istituto Nazionale di Nutrizione ha trovato il tempo (e il coraggio?) di fare un post su Facebook in cui, considerata la situazione, suggerisce agli egiziani di mangiare zampe di gallina: «buono per il corpo e per il portafoglio».

 

L’Egitto è un Paese che dipende fortemente dalle importazioni di beni. Per ottenere le merci dall’estero, il Cairo necessita grandi quantità di valuta straniera, in particolare dollari. Tuttavia, «nonostante un deposito da 13 miliardi di dollari da parte di Emirati Arabi, Qatar e Arabia Saudita, e la vendita di asset agli Emirati per altri 3,3 miliardi, la disponibilità di valuta straniera è rimasta disperatamente scarsa», ha scritto il Financial Times. In questo contesto, il Cairo si è rivolto nuovamente al Fondo Monetario Internazionale (FMI), con il quale ha raggiunto l’accordo per un prestito da 3 miliardi di dollari, come sempre subordinato all’adozione di riforme del sistema egiziano. Una di queste prevede la possibilità di lasciare liberamente fluttuare il valore della moneta locale sul mercato dei cambi, ciò che le autorità egiziane hanno a lungo cercato di evitare. Ora però la moneta egiziana continua a perdere valore: mercoledì la sterlina ha toccato il punto più basso di sempre, venendo scambiata con 30 dollari. Problema forse ancora più significativo, la forbice tra i valori del cambio ufficiale e quello al mercato nero continua ad aumentare e ha raggiunto livelli ormai preoccupanti.

 

Un’altra riforma necessaria ha a che fare invece con il ruolo dello Stato nell’economia. Il Cairo dovrà identificare i settori strategici e quelli non strategici e, in questi ultimi, cedere il passo all’iniziativa privata. Così facendo, però, uno degli attori più penalizzati sarà l’esercito, che negli ultimi anni ha esteso i suoi tentacoli ad ampi settori dell’economia egiziana, dalla produzione alimentare a quella del cemento. L’economia egiziana è entrata in un circolo vizioso: la situazione peggiora «ogni volta che [le autorità] si rivolgono al FMI, e ottengono altri prestiti per coprire vecchi prestiti con nuovi prestiti», come ha spiegato Gamal.

 

Iran: tra condanne a morte, spy story e crisi con i vicini

 

In Iran continua la repressione. Le autorità della Repubblica Islamica hanno eseguito le condanne a morte di almeno quattro persone coinvolte nelle manifestazioni di questi ultimi quattro mesi. Il regime, ha scritto la CNN, «usa le esecuzioni come un deterrente nei confronti delle persone desiderose di esprimersi e di riempire le piazze». Il continuo peggioramento della situazione economica, però, non fa che incentivare le persone a manifestare il proprio malcontento. L’inflazione a dicembre 2022 ha raggiunto il 48% secondo i dati governativi, valore più alto dal 1995. Il primo effetto di questo rialzo, ha detto l’economista iraniano Saeed Leylaz al Washington Post, è naturalmente sui mezzi di sostentamento dei nuclei familiari, ma il punto cruciale è che « finora il governo non è stato in grado di fare nulla per ridurre l’inflazione a causa della corruzione» che pervade il sistema. Dopo 44 anni di esistenza della Repubblica islamica i cittadini iraniani hanno capito che «non c’è la minima speranza di riforma» del sistema, ha affermato un giovane programmatore intervistato dal quotidiano americano. Ecco perché «adesso l’unica discussione riguarda il rovesciamento del governo».

 

A inizio gennaio, intanto, la polizia ha rilasciato l’attrice Taraneh Alidoosti, famosa soprattutto per il suo ruolo in The Salesman di Asghar Farhadi, che era stata costretta a trascorrere più di due settimane in carcere per aver condannato pubblicamente la repressione governativa. La sua liberazione è avvenuta a fronte del pagamento di una cauzione che secondo il Guardian ammonterebbe a 20.000 dollari

 

Oltre a quelle eseguite, le autorità iraniane hanno anche comminato nuove condanne a morte. Una riguarda Alireza Akbari, ex viceministro della Difesa durante il governo di Mohammad Khatami e a capo dello Strategic Research Institute, con cittadinanza anglo-iraniana. Akbari è accusato di spionaggio per conto del Regno Unito. Secondo le fonti anonime di Amwaj Media, l’arresto di Akbari e la sua condanna avrebbero a che fare con una lotta di potere interna al sistema iraniano, in un periodo nel quale il nezam si prepara alla transizione post-Khamenei. A pesare in questo senso sarebbero i legami di Akbari con l’attuale capo del Supremo consiglio per la sicurezza nazionale, Ali Shamkhani, e con l’ex speaker del Parlamento Ali Larijani. Shamkhani e Larijani, che nell’ultimo periodo avrebbero provato a svolgere il ruolo di mediatori nella situazione di tensione che si è creata nel Paese, sarebbero perciò i reali obiettivi della mossa dell’autorità giudiziaria contro Akbari. Secondo il ricercatore Abdolrasool Divsallar, Akbari è un brillante analista, critico della politica regionale e delle strategie di difesa iraniane: per questo, la sua condanna è in realtà un monito a tutti coloro che si adoperano per una modifica delle politiche della Repubblica islamica.

 

A livello regionale Ebrahim Raisi fatica a dare attuazione alla politica estera proposta durante la campagna elettorale, nella quale ipotizzava forti relazioni positive con i Paesi del vicinato. Secondo TRT World il caso dell’Azerbaijan è emblematico,: quando Teheran, in novembre, ha ricevuto il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, il presidente azero Ilham Aliyev ha avuto gioco facile nel rinfacciare alla Repubblica islamica di aver accolto il leader di un Paese «che distrugge moschee». Così, un invito di Raisi ad Aliyev per recarsi in Iran è andato a vuoto, mentre la visita dello speaker del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, è stata rimandata. «La politica estera di Raisi, focalizzata sul vicinato, non è un successo. Ci sono state delle piccole vittorie come la fabbrica di droni in Tajikistan, e probabilmente Teheran è felice del nuovo governo iracheno […] ma i colloqui con Riyad si sono bloccati e le tensioni con l’Azerbaijan sono elevate», ha affermato a TRT World John Allen Gay, executive director della John Quincy Adams Society. L’avvicinamento all’Armenia che tanto infastidisce il vicino Azerbaijan, oltre a servire in funzione anti-israeliana (Tel Aviv mantiene ottimi rapporti con Baku), è in linea con lo schiacciamento sempre più pronunciato dell’Iran sulle posizioni della Russia. 

 

In breve

 

Un nuovo giro di vite in Algeria ha colpito uno degli ultimi spazi di discussione politica liberi presenti nel Paese (New York Times). Grazie anche al ruolo di fornitore di energia, a livello regionale e internazionale l’Algeria si sta rendendo via via indispensabile (Foreign Policy).

 

Dubai ha sospeso la tassa del 30% sugli alcolici per favorire il turismo (Financial Times). Ad Abu Dhabi invece una compagnia che fino tre anni fa impiegava solo 40 dipendenti è passata in breve tempo ad avere un valore intorno ai 240 miliardi di dollari. Dietro a questa grande crescita c’è Sheikh Tahnoon bin Zayed al-Nahyan (Financial Times).

 

Gli Emirati hanno nominato Sultan Al Jaber presidente della COP28 che si terrà in novembre a Dubai. Al Jaber ricopre anche gli incarichi di CEO della ADNOC (compagnia petrolifera emiratina) e di ministro dell’industria e della tecnologia avanzata (The Guardian).

 

Come si finanzia il gruppo paramilitare russo Wagner? Un’inchiesta di Jeune Afrique mostra come al centro del sistema di finanziamento di Yevgeny Prigozhin ci siano le attività in Repubblica Centrafricana e Camerun.

 

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