Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:49

A differenza dei propri vicini saheliani il Senegal è generalmente considerato un Paese stabile, democratico e accogliente. Tuttavia nei giorni scorsi sono scoppiate violente proteste, e ora alcuni analisti interpellati da al-Jazeera si chiedono se non ci sia il rischio di un’escalation della violenza.

 

Le manifestazioni sono cominciate subito dopo l’arresto del leader dell’opposizione Ousmane Sonko. Accusato di stupro da parte di una massaggiatrice rimasta anonima, in base a quanto riporta Le Monde, è stato poi arrestato per «disturbo dell’ordine pubblico» e «partecipazione a una manifestazione non autorizzata». Rilasciato lunedì 8 marzo sotto cauzione, Sonko ha infiammato il dibattito pubblico e le strade dopo aver attaccato il presidente Macky Sall, accusato di imprigionare gli oppositori politici in previsione delle elezioni del 2024. Sonko si presenta come un politico antisistema, secondo alcuni incorruttibile, secondo altri fortemente populista, continua il quotidiano francese.

 

Le proteste si sono svolte nella capitale del Senegal, Dakar, e almeno dieci persone sono rimaste uccise. Secondo Alioune Badara Cissé il Paese è addirittura «sull’orlo dell’apocalisse», ma quello che in realtà molti ora si chiedono è come non si sia riusciti a prevedere la possibilità di proteste così violente in un Paese considerato stabile e pacifico da decenni.

 

Una risposta prova a darla un editoriale di Jeune Afrique. Non tutti i manifestanti sono sostenitori di Sonko, ma molti senegalesi non hanno più nulla da perdere. Sono i giovani che non credono più nella politica, che non nutrono speranze per il futuro, gli stessi disposti a rischiare la vita per raggiungere l’Europa anche perché con la pandemia la loro situazione si è ulteriormente aggravata. E poi c’è chi teme per una battuta d’arresto della democrazia, perché sempre più oppositori politici finiscono nel carcere di Rebeuss, a Dakar, e le misure di contenimento dei contagi limitano le libertà dei cittadini.

 

Niqab in Svizzera: un divieto per turisti?

 

In Svizzera è passata una legge che vieta l’uso del burqa e del niqab nei luoghi pubblici, tranne durante le cerimonie religiose. Tuttavia, in realtà il testo di legge non fa riferimento direttamente al velo islamico. Nonostante questo la propaganda politica dell’estrema destra si è basata sulle coperture integrali in vigore in alcuni Paesi musulmani, ma quasi del tutto assenti in Svizzera. Da anni si parla della questione: i musulmani nel Paese elvetico sono circa il 5% della popolazione, ma secondo uno studio del Centro di ricerca sulle religioni dell’Università di Lucerna, le persone che indossano il niqab non sono più di 37, mentre nessuna cittadina svizzera indossa il burqa. Chi infatti era contrario a questa legge aveva messo in evidenza che sono soprattutto le turiste straniere a indossare il burqa o il niqab e l’approvazione di tale legge rischia di danneggiare il turismo.

 

Secondo alcuni gruppi di musulmani il nuovo divieto rischia di «stigmatizzare e marginalizzare» la comunità musulmana. Rabina Khan scrive che il referendum è un insulto alla libertà delle donne musulmane: «È già abbastanza brutto che i politici si pieghino al bigottismo e introducano leggi repressive sull’abbigliamento femminile, ma c’è qualcosa di particolarmente bieco nella proposta di politici che fomentano l’indignazione popolare contro una minoranza oppressa». C’è persino chi parla di una sorta di paranoia della società verso i musulmani, che, invece, secondo altri studi, in Svizzera sono ben integrati.

 

Pascal Gemperli richiama lo studio dell’Università di Lucerna aggiungendo che «la stragrande maggioranza delle donne indossa il velo integrale di propria iniziativa. Spesso contro il consiglio dei mariti o delle famiglie. Alcuni hanno lasciato i loro mariti considerati non sufficientemente devoti. Questi risultati corrispondono a quelli di altri studi europei sullo stesso tema». E prosegue poi citando un contro-progetto che era stato proposto dal Parlamento svizzero nel caso in cui la legge non fosse passata. L’iniziativa era stata appoggiata anche dal Consiglio svizzero delle religioni, che fa capo al vescovo Harald Rein: «Come rappresentanti delle più grandi comunità religiose della Svizzera, vogliamo unirci oggi e dimostrare che il divieto di nascondere il volto non può in alcun modo contribuire alla convivenza pacifica nel nostro Paese», ha detto il prelato.

 

In un paragrafo

 

Papa Francesco in Libano?

 

Anche il Libano è stato ricordato da Papa Francesco in un’intervista rilasciata sul volo di ritorno dall’Iraq: «Il Libano è un messaggio, il Libano soffre, il Libano è più di un equilibrio, ha la debolezza delle diversità, alcune ancora non riconciliate, ma ha la fortezza del grande popolo riconciliato, come la fortezza dei cedri. Il patriarca Rai mi ha chiesto per favore durante questo viaggio di fare una sosta a Beirut, ma mi è sembrato un po’ poco. Una briciola davanti a un problema, a un Paese che soffre come il Libano. Gli ho scritto una lettera, ho fatto la promessa di fare un viaggio. Ma il Libano in questo momento è in crisi, ma in crisi – non voglio offendere – in crisi di vita. Il Libano è tanto generoso nell’accoglienza dei profughi», ha detto il pontefice. Come spiegavamo nella precedente rassegna, nel Paese sono ricominciate le proteste. Lunedì 8 marzo è stato ribattezzato il giorno «della rabbia» da parte dei manifestanti, stremati per la condizione economica e politica del Paese, che, come racconta Camille Eid in questa intervista, si aggrava sempre di più.

 

Repressione delle libertà in tutto il Medio Oriente

 

In diverse parti del mondo arabo continua la repressione nei confronti di giornalisti e attivisti politici. Le Monde racconta la vicenda dello storico Maati Monjib, che, rinchiuso in una prigione marocchina, ha cominciato uno sciopero della fame. Monjib è accusato di «aver minato la sicurezza interna dello Stato» per la sua attività con l’Associazione marocchina per il giornalismo investigativo.

 

Nella vicina Tunisia le proteste non si placano, mentre vengono arrestati gli attivisti politici. Arianna Poletti racconta dell’ondata di repressione che fa temere il ritorno dello stato di polizia: tre attivisti sono stati incarcerati e rilasciati dopo due giorni in attesa della sentenza, mentre Rania Amdouni, un’attivista femminista, è stata condannata a sei mesi di carcere per «attentato al pudore».

 

E anche in Egitto la libertà di stampa è ai minimi storici. Questo articolo di Mada Masr descrive le dure condizioni che devono sopportare gli attivisti in prigione, mentre il ministero dell’Istruzione egiziano ha approvato l’insegnamento di una nuova materia scolastica: valori comuni alle tre religioni abramitiche.

 

In una frase

 

Il parlamento libico ha votato la fiducia al nuovo governo presieduto da Abdelhamid Dbeibah (Al Jazeera).

 

Le accuse della studentessa che hanno portato all’uccisione dell’insegnante francese Samuel Paty si sono rivelate false (il Post).

 

Un reportage di Associated Press racconta il dramma dei profughi siriani scappati dalle loro case dieci anni fa.

 

In Iraq continuano a esserci problemi con la sicurezza: Newlines descrive i problemi dovuti alla presenza di milizie sciite in aree a prevalenza sunnita, dove si trovano per combattere contro le ultime cellule di ISIS.

 

Dopo la visita di Papa Francesco, il primo ministro iracheno e il portavoce del Parlamento hanno invitato in Iraq il grande imam di al-Azhar (INA). 

 

Bashar al-Assad e sua moglie sono risultati postivi al SARS-Cov-19 (NPR).

 

Dopo il rilascio provvisorio, un tribunale saudita ha confermato la sentenza originaria contro l’attivista Loujain al-Hathloul, a cui è stato vietato di viaggiare fuori dall’Arabia Saudita per i prossimi cinque anni (Al Jazeera)

 

In Francia è cominciato il processo di declassificazione dei documenti sulla guerra in Algeria (Le Monde).

 

L’Egitto e il Sudan hanno chiesto all’Etiopia di riprendere i negoziati internazionali per risolvere la controversia sulla Grand Ethiopian Renaissance Dam, ma Addis Abeba vuole coinvolgere al massimo l’Unione Africana (Al Monitor).

 

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