Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:00:54

A 48 ore dalla chiusura dei seggi in Israele, il primo ministro uscente Yair Lapid ha chiamato Benjamin Netanyahu per congratularsi per la vittoria alle elezioni parlamentari. I primi exit-poll facevano pensare a una maggioranza, l’ennesima, estremamente risicata. I seggi attribuiti alla coalizione di destra erano 61-62, ma i risultati finali comunicati dalla commissione elettorale mostrano invece che la coalizione formata dal Likud di Netanyahu, dall’estrema destra dell’alleanza Sionismo Religioso e da due partiti ultraortodossi (Shas e United Torah Judaism), può fare affidamento su 64 dei 120 deputati che siederanno alla Knesset. Il blocco guidato da Lapid ha invece ottenuto 51 seggi. Secondo il Financial Times il successo di Netanyahu è più ampio del previsto a causa almeno di due fattori: il primo sono i fallimenti del partito di sinistra Meretz e del raggruppamento arabo Balad, che non sono riusciti a entrare in parlamento. Il secondo è la contemporanea ascesa dell’estrema destra di Itamar Ben Gvir. Anche Yolande Knell della BBC avanza una lettura simile: il fatto più importante delle elezioni israeliane, ha scritto, è «la grande crescita della popolarità dell’estrema destra». Inoltre, ha proseguito Knell, l’esito di queste elezioni e la formazione di un governo composto dal Likud e dai suoi alleati ultra-nazionalisti e ultra-ortodossi dovrebbe segnare la fine del periodo di profonda instabilità in cui era sprofondato Israele.

 

Ben Gvir, che il mese scorso si è presentato con una pistola durante i disordini a Sheik Jarrah e ha invitato la polizia ad aprire il fuoco sui palestinesi, esce rafforzato dalle elezioni e punta a dei ministeri chiave. Non sarà così facile ottenerli, considerando che in precedenza Netanyahu ha affermato che i ministeri più importanti spettano al Likud, mentre circa un anno fa il futuro primo ministro disse che Ben Gvir «non è adatto» a guidare un ministero. Difficile dargli torto, se ricordiamo che il leader di Otzma Yehudit fino a un paio di anni fa teneva in casa una foto di Baruch Goldstein, il quale nel 1994 uccise 29 palestinesi all’interno di una moschea a Hebron.

 

Un articolo dell’Associated Press si è concentrato proprio sulle reazioni dei palestinesi, che si dividono tra chi non vede grandi cambiamenti in vista, e chi invece pensa che l’affermazione di Netanyahu e della destra sia un colpo mortifero alle speranze di un «progetto nazionale palestinese». A questo proposito Barak Ravid (Axios) ha ricordato come «la gran parte dei membri della coalizione di Netanyahu si opponga alla soluzione dei due Stati, sostenga l’annessione della Cisgiordania, spinga per la costruzione di più insediamenti e chieda una risposta più dura delle forze israeliane contro gli attacchi di palestinesi armati». C’è quindi da aspettarsi una politica più dura nei confronti dei palestinesi e un aumento delle attività dei coloni nella West Bank.

 

In sintesi, comunque, l’interpretazione principale che la stampa internazionale propone è quella della vittoria dell’estrema destra: anche Rosie Scammell su al-Monitor identifica in Ben Gvir la figura che determinerà maggiormente la forma e le azioni del prossimo governo. Ciò sarebbe l’esito delle scelte di Netanyahu, che sono consistite secondo Yossi Klein Halevi dello Shalom Hartman Institute di Gerusalemme in una sorta di occultamento della reale natura dell’estrema destra. Una volta compresa la necessità di allearsi con l’ultradestra, Bibi, come è chiamato Netanyahu, ha fatto sì che «molti israeliani vedessero [in Ben Gvir e nei suoi alleati] semplicemente una versione più risoluta del Likud». Secondo il sociologo Shlomo Fischer quest’operazione è stata possibile perché, a livello generale, «la società israeliana sta diventando più di destra e in un certo senso più tradizionale, più etno-religiosa e nazionalista». Anshel Pfeffer ha analizzato l’esito delle elezioni su Haaretz: secondo l’acuto giornalista israeliano (nonché biografo di Netanyahu) questo risultato elettorale è il culmine di un lungo processo iniziato dopo la guerra dei Sei Giorni «in cui la percezione di cosa significhi essere ebreo si è saldata con il nazionalismo israeliano». Netanyahu e i suoi futuri compagni di governo «non hanno semplicemente costruito un’alleanza transazionale», ha scritto Pfeffer, ma hanno «articolato una nuova forma di identità ebraica».

 

Una nuova identità che però potrebbe creare qualche grattacapo a livello internazionale. Uno potrebbe riguardare gli Accordi di Abramo. È vero, come ha ricordato il politologo emiratino Abdulkhaleq Abdulla alla Reuters, che Netanyahu ha già firmato gli accordi e che Israele ed Emirati collaborano soprattutto in funzione anti-iraniana, ma è anche vero, ha ricordato lo stesso Abdulla, che l’inclusione nel governo di figure esplicitamente (e violentemente) anti-arabe come Ben Gvir pone più di un interrogativo sui rapporti tra Israele e i Paesi arabi.

 

L’altro grosso punto interrogativo a livello internazionale riguarda i rapporti con il Libano, in cui proprio nei giorni in cui Netanyahu vinceva le elezioni terminava la presidenza della Repubblica di Michel Aoun, ritenuta «disastrosa» da Orient XXI (e da molti libanesi, peraltro). Oggi il Paese dei Cedri è dunque senza un governo e senza un presidente. Ma che ne sarà dell’accordo sui confini marittimi siglato la settimana scorsa? In campagna elettorale Netanyahu aveva dichiarato che l’avrebbe stracciato, ma secondo fonti interne alla Casa Bianca sentite dall’Associated Press, Bibi esiterà a cancellare un accordo che garantisce a Israele la possibilità di operare nel giacimento di Karish, definito «una manna per l’economia e la sicurezza» del Paese. Recentemente il futuro primo ministro israeliano ha lasciato intendere che avrebbe trattato questo accordo come fece negli anni ’90 con quelli di Oslo: non li ripudiò, ma non ne diede nemmeno piena attuazione.

 

Papa Francesco in Bahrein

 

L’arrivo di Papa Francesco in Bahrein non è stato esente da critiche. Diverse organizzazioni hanno manifestato dubbi sulla scelta del pontefice di recarsi nel piccolo Regno del Golfo, a causa delle violazioni dei diritti umani perpetrate da Manama, e della repressione di cui è stata vittima la maggioranza sciita, soprattutto durante il periodo delle Primavere arabe. Sotto accusa è finita anche «l’insistenza sulla tolleranza» del Paese:  «una farsa», secondo quanto riportato da Elise Ann Allen su Crux. Ribadendo l’importanza, per chi vive nella regione, di muoversi in maniera diplomatica, mons. Paul Hinder, amministratore apostolico del vicariato dell’Arabia Settentrionale, ha ricordato tuttavia che in Bahrein la libertà religiosa è rispettata e non c’è punizione ufficiale da parte delle autorità in caso di conversione dall’Islam a un’altra religione. Resta, invece, il problema a livello sociale e legato ad alcune specifiche famiglie.

 

Mohammed Ramadhan, in carcere da nove anni e condannato a morte per l’attacco in cui perse la vita un poliziotto, ha scritto una lettera a Papa Francesco, chiedendogli di intercedere presso il re del Bahrein. Secondo quanto riportato dal Guardian, Ramadhan sarebbe stato obbligato, sotto tortura, a confessare un reato che in realtà non avrebbe commesso. Il Bahrain Institute for Rights and Democracy (Bird) ha ricordato che sono almeno 26 le persone attualmente condannate a morte nel Regno, di cui 12 per reati politici. Tutti hanno esaurito ogni possibile ricorso interno, ciò che significa che la sentenza potrebbe essere eseguita in ogni momento, a totale discrezione di re Hamad bin Isa Khalifa.

 

Con queste premesse, la convinzione di molti era che le autorità del Paese avrebbero utilizzato la presenza di Francesco per una gigantesca «photo opportunity». Ma appena atterrato ad Awali, il Pontefice ha fatto capire di non voler essere strumentalizzato. Infatti, durante il discorso tenuto al palazzo reale Sakhir, Papa Francesco ha affermato come i «diritti umani debbano essere promossi, non violati». Inoltre, mentre il Re del Bahrein si è soffermato sulla tolleranza presente nel Paese e sul fatto che in Bahrein tutti possono esprimere la propria fede, il pontefice ha ricordato che «la libertà religiosa deve essere completa e non limitata alla libertà di culto».

 

Il discorso (qui disponibile in italiano) ha toccato tutti i temi più delicati: dalle condizioni di lavoro, che deve essere «sicuro e dignitoso» anche per i lavoratori stranieri, alla pena di morte e «al diritto alla vita, alla necessità di garantirlo sempre, anche nei riguardi di chi viene punito, la cui esistenza non può essere eliminata». Alla luce delle prime parole di Papa Francesco (il viaggio è solo all’inizio mentre scriviamo questo Focus attualità), Sayed Ahmed Alwadaei, direttore dell’ONG Bird che aveva espresso un certo scetticismo sul viaggio, ha definito come «storico» il discorso del Santo Padre.

 

In breve

 

Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha chiesto che la Turchia faccia cadere il veto che ancora mantiene sull’ingresso di Svezia e Finlandia nell’organizzazione atlantica (Al-Monitor). Intanto in Turchia l’inflazione ha raggiunto l’85%.

 

Dopo dieci giorni di negoziati guidati dal presidente nigeriano Obasanjo, l’Etiopia e i ribelli del Tigrè hanno raggiunto un accordo per la «cessazione permanente delle ostilità» (Al-Jazeera).

 

Sull’isola di Siniyah, facente parte dell’emirato di Umm al-Quwain sono stati trovati i resti di un monastero cristiano che risale al periodo precedente all’avvento dell’Islam (Associated Press).

 

L’ex primo ministro pachistano Imran Khan è stato colpito al piede da un proiettile in quello che funzionari del suo partito Pakistan Tehreek-e-Insaf hanno definito un «tentativo di assassinio» (CNN).

 

 

Rassegna dalla stampa araba a cura di Mauro Primavera

Speranze di un’unità islamica…

 

La rassegna araba apre con una dichiarazione, riportata tra gli altri da al-Masri al-Youm, di Ahmad al-Tayyib, Grande Imam di al-Azhar a margine del Forum per il Dialogo di Awali in Bahrein dal titolo “Oriente e Occidente per la convivenza umana”, al quale hanno partecipato anche papa Francesco e il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo. Nel suo discorso al-Tayyib ha invitato, riferendosi agli “ulema sciiti” a «rafforzare l’unità islamica e a rinunciare al conflitto [intra-islamico]», in modo da «superare le problematiche storiche e contemporanee e porre fine allo sfruttamento della religione e delle confessioni che minacciano la stabilità delle società». Si tratta di un importante gesto di distensione che non mancherà di essere discusso e approfondito nei prossimi giorni.    

 

…disillusioni sull’unità araba

 

Intanto torniamo sull’altro grande evento della settimana: il trentunesimo vertice della Lega Araba, tenutosi ad Algeri tra martedì e mercoledì, appuntamento che mancava da quasi quattro anni, visto che il precedente summit di Tunisi risale al marzo 2019. Come avevamo anticipato a settembre, le aspettative sulla buona riuscita dell’incontro erano assai basse, sia per ragioni esterne, prima fra tutte la guerra russo-ucraina, sia per le note dinamiche interne, come la crisi sistemica, e in alcuni casi il totale fallimento degli apparati statuali, il perdurante malessere sociale e le tensioni tra gli Stati.

 

Poco prima dell’apertura dei lavori, Al-Quds al-‘Arabi ha pubblicato un articolo in cui invitava i leader presenti a «lasciare il campo degli slogan» per passare alle azioni concrete, che il giornale ha riassunto in un secondo pezzo, sotto forma di lista di cose da realizzare il prima possibile: tra queste figura la creazione di una strategia araba unitaria, il potenziamento della diplomazia politica, culturale e religiosa, il rifiuto di una NATO mediorientale (qualora Israele non acconsenta a cedere il Golan e gli altri territori occupati ai palestinesi) e la risoluzione della crisi idro-politica delle acque del Nilo.

 

Malgrado questi auspici, al vertice non si sono presentati diversi leader, molti dei quali hanno aderito agli Accordi di Abramo e avviato il processo di normalizzazione con Israele. Mancava il re del Marocco Muhammad VI, notoriamente in dissenso con il governo algerino, il presidente degli Emirati Muhammad bin Zayed, il principe ereditario dell’Arabia Saudita Muhammad bin Salman, il sultano dell’Oman Haytham bin Tariq, il re di Giordania ‘Abd Allah II, l’emiro del Kuwait Nawaf Al-Ahmad Al-Jaber Al-Sabah e il re del Bahrein ‘Aysa bin Salman Al Khalifa, che proprio in questi giorni, come ha notato con un velo di ironia il presidente algerino Tebboune, è impegnato a ricevere a Manama papa Francesco.  

 

Per questi motivi Al-‘Arabi al-Jadid si domanda, in maniera alquanto sarcastica, se esista ancora una valida ragione che giustifichi l’organizzazione del vertice. La vignetta che compare in testa all’articolo ritrae la Lega che cerca di tenere unito il “puzzle” del mondo arabo sul punto di collassare, dal momento che i “pezzi” (gli Stati), attraversati da crepe, non riescono a incastrarsi fra loro e traballano pericolosamente. «Il vertice di Algeri non potrà fare miracoli, per il fatto che gran parte delle politiche degli Stati della Lega sono molto più legate a interessi esterni piuttosto che a quelli arabi» conclude rassegnato l’autore dell’editoriale.

 

Le critiche si sono concentrate soprattutto sulla “Dichiarazione di Algeri”, il documento ufficiale redatto a conclusione dell’evento (che al-Quds pubblica in versione integrale nell’edizione cartacea del 2 novembre) in cui sono elencati i temi affrontati durante i lavori. Il primo riguarda il sostegno incondizionato alla causa palestinese, seguito dalla proposta di riportare i confini israeliani a quelli in essere il 4 giugno 1967 e di proclamare Gerusalemme Est capitale dello Stato di Palestina. Il secondo affronta la situazione attuale del mondo arabo soffermandosi sulle crisi in Libia, Yemen e Siria (a proposito di quest’ultima il documento auspica la ricomposizione «dell’unità statuale e della sua sovranità», di fatto riconoscendo il regime di Bashar al-Assad come unico attore legittimo del Paese). Viene inoltre citata la crisi parlamentare dell’Iraq, quella economico-politica del Libano e quella statuale della Somalia, impegnata nella «lotta al terrorismo». Parole di apprezzamento, ça va sans dire, per la repubblica algerina e il suo presidente e per il governo egiziano di al-Sisi. Nessun accenno viene fatto alla Tunisia, anche se il presidente Kais Saied è stato accolto calorosamente da Tebboune e ha avuto modo di aprire la seduta con un lungo discorso.    

 

Per al-‘Arabi, il tentativo algerino di sottolineare l’importanza della causa palestinese si scontra con l’agenda di molti Paesi arabi che hanno normalizzato, in maniera ufficiale o ufficiosa, le loro relazioni con lo Stato ebraico e aggiunge che il vertice «non è altro che un club in cui si riuniscono i governanti, forse per evitare le loro preoccupazioni personali, non quelle pubbliche, oppure per diffamarsi a vicenda».    

 

Libano, fine dell’era Aoun, inizio di chi?

 

Il 30 ottobre il presidente della repubblica libanese ed ex generale Michel ‘Aoun ha lasciato il palazzo presidenziale, terminando il suo mandato cominciato nel 2016, periodo in cui il Paese ha sofferto gravissime crisi economiche, sociali e politiche. Il potere passa ora al primo ministro Miqati (ma il governo che presiede è ancora quello dimissionario, poiché manca ancora un accordo tra le forze politiche a seguito del voto dello scorso maggio) che ha auspicato l’elezione al più presto di un nuovo capo dello Stato condiviso dalla maggioranza del Parlamento.

 

Il quotidiano nazionale al-Nahar parte da queste premesse per giungere a un’amara e polemica considerazione di carattere pre-politico: «l’attuale situazione di cui soffrono i libanesi nella loro vita quotidiana […] e nelle loro miserie è il risultato di fattori diversi», il più importante dei quali è senza dubbio il settarismo e la conseguente spartizione di poteri e cariche secondo criteri confessionali, un fenomeno che «ha indebolito le istituzioni costituzionali e ha consegnato i tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) nelle mani di una élite di persone influenti, le quali hanno violato le fortune del Paese, fuori da considerazioni morali e giuridiche, in modo da preservare i propri interessi a spese di quelli dei cittadini». Ne consegue che la crisi presidenziale, pur essendo essenzialmente di natura politica, prima o poi dovrà finire, e il Paese avrà un nuovo ra‘īs e un nuovo esecutivo. Eppure, si domanda al-Nahar, «quanto ci vorrà per ottenere tutto questo?» e, soprattutto, «quale visione guiderà i loro passi? E quali disposizioni attueranno?». Secondo l’articolo, l’assetto istituzionale andrebbe rivisto passando dalla ta‘ifiyya (il sistema confessionale) a Ta‘if, la città saudita dove nel 1990 fu firmato l’accordo di riconciliazione che, oltre a porre fine alla guerra civile, prevedeva una serie di riforme interne volte a migliorare l’efficienza del Parlamento.  

 

Un altro articolo della testata conferma il diffuso senso di disillusione presente nell’opinione pubblica: «ogni volta che arriviamo alle elezioni presidenziali ci troviamo nello stesso problema: ci scambiamo accuse reciproche e nessuno propone una soluzione concreta» anzi, ciascun partito porta avanti il proprio candidato a prescindere dall’esito delle votazioni e delle preferenze, seguendo uno schema di “democrazia consensuale” che non prevede sconfitti, bensì una mera spartizione consensuale del potere.

 

Per quanto riguarda la scelta del prossimo presidente, al-Nahar si limita a fare i nomi dei possibili candidati, come Joseph ‘Aoun, comandante in campo delle forze libanesi, e Suleiman Frangieh, leader del movimento maronita Marada. Ad ogni modo, chiunque venga eletto dovrà garantire la sicurezza nazionale e proporre un piano di riforme credibile: in parole pavore, dovrà necessariamente fare meglio di Michel ‘Aoun, responsabile dei recenti disastri del Paese, e fautore di una politica di riavvicinamento con il suo vecchio avversario, il presidente siriano Bashar al-Assad.

 

Israele per l’ennesima volta al voto tra ironie (più o meno) amare

 

La stampa araba analizza infine le elezioni della Knesset, quinto appuntamento elettorale nell’arco di due anni. L’instabilità del sistema politico israeliano viene ridicolizzata da al-Quds, che in una vignetta mostra un lettore buttare il suo voto nella raccolta differenziata, al cui interno sinistra, centro e destra si riciclano a vicenda in un loop infinito. Con riferimento ai risultati, l’attenzione si è naturalmente focalizzata sull’exploit di Itamar Ben Gvir, leader di Otzma Yehudit (“Potere Ebraico”), formazione di estrema destra molto vicina al kahanismo, movimento ultra-sionista e dichiaratamente arabofobo. Secondo Al Jazeera, l’ascesa di Ben Gvir avrà effetti nefasti per Tel Aviv: oltre ad acuire le tensioni con i palestinesi, comprometterà le relazioni con gli Stati Uniti e metterà in imbarazzo quei Paesi arabi che hanno scelto di normalizzare le relazioni. La cosa ironica – commenta il giornale qatariota – è che la società israeliana da una parte vota per una formazione favorevole all’aumento delle operazioni militari, ma dall’altra si dimostra sempre più insofferente «a pagare il costo umano dello sforzo bellico».           

 

 

 

 

 

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