Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:59
«I cristiani sono il cuore del Medioriente»: è un’affermazione che non lascia indifferenti se a pronunciarla è un musulmano. Eppure Amer al-Hafi, giordano, vice direttore del
Royal Institute for Inter-Faith Studies di Amman, ribadisce a più riprese che il suo Paese e la regione intera non possono perdere il loro patrimonio cristiano. Invitato da Oasis a Milano in ottobre, in occasione della
conferenza “Raccontarsi e lasciarsi raccontare. A che serve il dialogo interreligioso”, al-Hafi ha raccontato l’esperienza giordana di dialogo interreligioso e che cosa significa l’incontro con l’altro nella situazione conflittuale di oggi nel suo Paese.
Dottor al-Hafi, com’è nato il vostro istituto e qual è il suo obiettivo?
In Giordania cristiani e musulmani convivono da sempre, anzi i cristiani sono in questa regione da prima dell’avvento dell’Islam. A mio avviso, il nostro regime politico, la monarchia, è uno dei fattori più importanti per la stabilità e la coesistenza delle due religioni. Nel 1994, il principe Hasan bin Talal ha fondato il
Royal Institute for Inter-Faith Studies, con lo scopo di studiare i rapporti tra cristiani e musulmani. L’istituto è un forte segno per le relazioni tra cristiani e musulmani in Giordania e ne è un modello per tutta la regione perché, come dice il nome stesso [
inter-faith], siamo aperti ai fedeli di tutte le religioni. A questo scopo svolgiamo diverse attività, tra cui la pubblicazione di libri e l’organizzazione di conferenze e incontri.
Le attività dell’Istituto si rivolgono quindi sia ai cristiani, sia ai musulmani?
Sì, si tratta del primo istituto nel suo genere. Per i primi dieci anni è stato diretto dal dottor Kamal al-Salibi, cristiano di origine libanese e professore all’American University di Beirut; il suo successore, il dottor Kamel Abu Jabir, è un giordano cristiano ortodosso. Gli impiegati stessi sono per metà cristiani e per metà musulmani. C’è un forte sentimento di unità, senza divisioni tra gli appartenenti alle diverse religioni. Nonostante le sfide che si avvertono oggi, siamo fiduciosi perché la profonda fede della nostra comunità deriva dal nostro essere arabi, cosa che impedisce il razzismo religioso e la divisione.
A mio avviso, le scuole sono un luogo privilegiato per il dialogo. L’istituto offre programmi che coinvolgono studenti e insegnanti anche di altri Paesi?
Da un paio di anni, abbiamo iniziato alcune attività con le scuole. Una tra queste è la “Harmony Week” [La Settimana dell’Armonia], una settimana in cui organizziamo diverse attività e lezioni in scuole cristiane ortodosse, europee e pubbliche. Coinvolgiamo anche alcune università, sia statali che private. Abbiamo organizzato, ad esempio, un corso sulle “emozioni” viste da Cristianesimo e Islam in collaborazione con la Humboldt University di Berlino. Di solito questo genere di corsi riguarda argomenti metafisici, come la dottrina cristiana e musulmana, la Trinità, la Crocifissione e altre questioni talvolta complicate. Noi, invece, abbiamo voluto scoprire l’essere umano, abbiamo scavato nella nostra umanità prendendo in analisi questioni che condividiamo e possiamo capire tutti, come l’amore, la tristezza, la compassione. Abbiamo progettato il corso insieme: insegnanti giordani e tedeschi, cristiani o musulmani, hanno tenuto lezioni ad Amman e a Berlino, con studenti di entrambi i Paesi e di entrambe le religioni. Credo che sia stata una modalità di incontro molto efficace: tra due religioni e al contempo tra Europa e Medio Oriente. Da professore di dialogo interreligioso posso dire che questa esperienza di studio e insegnamento comune è qualcosa di nuovo che potrebbe ispirare un nuovo metodo per le nostre attività e per la nostra stessa cultura.
Come affrontano gli studenti lo studio accademico della religione dell’altro, che può essere il vicino, il nemico ecc..?
Non è facile insegnare la storia di religioni che hanno avuto una lunga serie di conflitti con la propria. Parlare di Cristianesimo è più semplice che parlare di Ebraismo, insegnare la storia del Buddismo è più facile che insegnare l’Induismo. Ogni volta che un conflitto coinvolge la propria religione, che siano i musulmani dell’India o del Pakistan, l’esperienza lascia un segno negativo e rimane nella memoria dei fedeli, influenzandoli inevitabilmente e chiudendoli allo studio della religione dell’altro. Durante il primo incontro con gli studenti chiedo sempre loro il motivo che li spinge a studiare le religioni e attraverso questo dialogo cerco di riempire i buchi e risolvere le ambiguità che possono esistere nel loro approccio all’altro. Una ragazza, ad esempio, voleva studiare le religioni per trovarne i punti negativi e convincere tutti che l’Islam è più giusto. Ho girato la questione: cosa penserebbe di uno studente australiano che venisse in Giordania per trovare le falle nell’Islam, combattere i musulmani e convincerli a credere in Gesù? Gli studenti iniziano così a rivedere le proprie posizioni, grazie alla riflessione a partire da un punto di vista diverso da quello di partenza. Penso che chiunque voglia insegnare qualcosa debba essere ottimista e credere nel dialogo, dopotutto anche Gesù e il profeta Maometto erano maestri. Bisogna essere onesti, dare informazioni corrette e non suscitare odio negli studenti. Le altre religioni sono parte del patrimonio umano, per questo sono aperto a conoscere di più.
Alla luce dell’attuale situazione mediorientale e la crisi provocata dai movimenti fondamentalisti islamici come Isis, al-Qaida e al-Nusra, come sono cambiati i rapporti tra cristiani e musulmani in Giordania?
È una sfida veramente grande e molto complessa. I nostri giovani hanno accesso a internet e Isis ha il suo jihad digitale, con oltre dodicimila adepti che si occupano della propaganda sui social network e del reclutamento online. Anche molti mass media non danno informazioni corrette e travisano il conflitto. Questa atmosfera conflittuale sta lentamente arrivando anche in Giordania. I pareri in merito sono contrastanti e la paura che Isis possa vincere in parte la guerra è grande. Ciò che abbiamo ad Amman è però un messaggio positivo, un discorso comune e molte iniziative a favore del dialogo tra cristiani e musulmani. Naturalmente spero che la Giordania non sia mai interessata direttamente dal conflitto, ma per contrastare l’invasione di Isis e la sua opera di divisione e distruzione nel nome del jihad e dell’Islam dobbiamo lavorare ancora molto. Da veri musulmani e da veri giordani, da persone che credono nella nazione araba e nella sua cultura, dobbiamo affrontare insieme i fondamentalisti. Non si tratta di una minaccia per i sunniti o per gli sciiti, è una minaccia per tutti. Per combattere l’uso strumentale dei media, ho ideato un programma televisivo dal titolo “One Hour Of Love” [Un’ora d’amore]. Voglio parlare a tutti i giordani e a tutti gli arabi, perché tutti condividiamo il valore dell’amore.
Il fenomeno delle migrazioni legato al conflitto in Siria e Iraq sta svuotando queste regioni dai cristiani. Si può immaginare un Medio Oriente senza Cristianesimo?
L’emigrazione, uscire dalla propria terra e dalle proprie radici, è il modo più facile per allontanarsi dalla sfida. Se uno si taglia fuori dalla propria terra, cultura e comunità, perde la guerra, perde il messaggio della propria fede e perde in parte anche la propria fede. Se uno crede nel messaggio che annuncia, non si deve arrendere: nel nome dell’Islam e nel nome di Gesù dobbiamo alzarci e sconfiggere coloro che cercano di distruggere i nostri valori in questa guerra contro l’umanità e contro tutte le confessioni presenti in Iraq, in Siria e in tutta la regione. È una guerra contro gli arabi, contro gli “arabi prima di Mosè, di Gesù e di Maometto”, come diceva re Abdullah I, primo re di Giordania. Non possiamo essere divisi, dobbiamo sviluppare insieme il nostro Paese. Affrontare questo dolore è come una crocifissione, come quello sopportato da Gesù. Non è un dolore nuovo per il cristianesimo, specialmente per i cristiani arabi che vivono nel cuore della cristianità, la Terra Santa. Il Medioriente senza i cristiani non esiste, sono il cuore. Se perdiamo i cristiani, perdiamo il nostro spirito, lo dico da musulmano perché so che il Cristianesimo è parte della cultura araba e ha anche aiutato i musulmani quando sono arrivati in Giordania, Nord Africa e Siria.
Spesso però i cristiani sono considerati cittadini di seconda categoria in alcuni Paesi a maggioranza musulmana. Come può essere risolto questo problema?
In primo luogo dobbiamo rileggere la storia e il rapporto tra religione e Stato, tra Sharîʻa, politica e legge per capire che non tutti gli insegnamenti dell’Islam hanno la stessa importanza. Le leggi imposte dall’Islam hanno valore in relazione al contesto storico in cui sono state determinate. È uno dei temi più importanti che dobbiamo affrontare nella nostra religione. Se ciò non è risolto, il risultato è quello che vediamo oggi in Siria e Iraq. Sono domande profonde e molto dibattute nelle nostre comunità. Società civile e cittadinanza egualitaria sono valori che vanno sostenuti e rifondati nella nostra comunità e possono davvero risolvere molti problemi.