Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:52:48

Anche questa settimana diversi quotidiani hanno aperto con commenti sul molo galleggiante annunciato la settimana scorsa dagli Stati Uniti per favorire l’afflusso degli aiuti umanitari a Gaza. “Il porto di Biden: un assedio con il pretesto di soccorrere Gaza”, ha titolato il giornale panarabo londinese al-‘Arabi al-Jadid. L’editoriale definisce la richiesta di Biden «un’ipocrisia finalizzata a rafforzare l’assedio imposto da Israele alla Striscia e consentire a Israele di realizzare gli obbiettivi della guerra di sterminio che ha iniziato cinque mesi fa». «Biden sta giocando il ruolo di assassino e salvatore allo stesso tempo: Washington ha fatto arrivare a Israele più di cento carichi di armi dall’inizio della guerra, ha esercitato tre volte il diritto di veto per interrompere i progetti di cessate il fuoco nel Consiglio di sicurezza, ha difeso e giustificato i massacri dell’esercito sionista, e ne ha persino adottato le menzogne ​​e le rivendicazioni. Ora Biden interpreta il ruolo del “Superman salvatore spinto da obiettivi elettorali e cerca di rimuovere qualsiasi ostacolo che si pari davanti alla strategia americana nella regione». Se lo scopo ufficiale del molo galleggiante è portare aiuti umanitari ai palestinesi, quello ufficioso è interrompere il flusso di armi alla Resistenza, ciò che è in linea con gli interessi israeliani, scrive la giornalista giordana Lanis Andoni. Washington viene quindi accusata di doppio-giochismo: «si oppone all’occupazione diretta israeliana con il pretesto di sostenere uno Stato palestinese immaginario con cui anestetizzare gli arabi e il mondo, affinché il processo di normalizzazione israeliano con i Paesi arabi possa continuare». «La menzogna di Biden è stata smascherata», ma la situazione a Gaza è così catastrofica che i palestinesi «non possono permettersi il lusso di affogare nell’analisi» e sono costretti ad accettare il compromesso. «L’uomo che sta per annegare si aggrappa anche a un filo di paglia, in una scena surreale di un criminale che ti assedia e ti dà le briciole di cui hai bisogno per sopravvivere», conclude l’editoriale.

 

Il 13 marzo anche al-Quds al-‘Arabi ha dedicato il suo editoriale principale a questo tema, interrogandosi sulle ragioni reali dell’operazione: si tratta di «una timida pressione esercitata su Israele (che sostituisce la pressione reale per fermare la guerra o per forzare l’entrata di aiuti via terra) oppure ha altri obiettivi, come mitigare le critiche dell’opinione pubblica americana filo-palestinese nei confronti del Partito democratico in vista delle prossime elezioni presidenziali, o allontanare dall’amministrazione [americana] l’accusa di complicità nel genocidio in corso in Gaza?» La costruzione di un molo temporaneo viene considerata una forma di ingerenza straniera, per quanto Biden abbia dichiarato che le forze dell’esercito americano stazioneranno sulle navi da guerra ormeggiate lungo la costa palestinese, senza mai scendere a terra, e un’operazione contradditoria: gli Stati Uniti forniscono armi a Israele e al contempo aiuti umanitari ai palestinesi. Il timore inoltre è che gli americani possano usare questa piattaforma per sfollare i palestinesi e contribuire a realizzare il piano israeliano di «rendere perpetua l’occupazione» e fare una «pulizia etnica dei palestinesi».

 

Il timore dello sfollamento è espresso anche da Khalid al-Bawab su Asasmedia. La preoccupazione è che il molo possa essere trasformato in un porto stabile, «trasformandosi in un nuovo valico se il valico di Rafah al confine con l’Egitto dovesse continuare a restare chiuso, e diventando un punto di uscita da Gaza per migliaia di palestinesi, contribuendo a realizzare il progetto israeliano fondamentale: lo sfollamento». Il «porto di Biden», come viene definito, avrebbe anche una forte connotazione geopolitica nella misura in cui indica il ritorno degli Stati Uniti nel Mediterraneo e segna la fine del loro disimpegno in Medio Oriente, scrive al-Bawab. La presenza americana nel Mediterraneo fa da contraltare alla presenza russa nel porto di Latakia, in Siria, avvicina gli Stati Uniti al Mar Rosso, dove sono impegnati nel conflitto con gli houthi, e consente loro di esercitare il controllo sui giacimenti di gas offshore, commenta il giornalista libanese. Inoltre, gli USA avrebbero l’interesse ad accelerare il processo di demarcazione dei confini marittimi tra il Libano, Cipro e Israele, sempre nell’ottica dello sfruttamento dei giacimenti di gas. È in atto «una lotta per [il controllo] dei valichi e dei corridoi fondamentali».

 

L’ambasciatore palestinese in Costa d’Avorio Abdul Karim Awaida riflette per al-‘Arab sui metodi utilizzati dai palestinesi nella loro lotta per la liberazione, delineando una differenza fondamentale tra Fatah e Hamas. Negli anni sono emerse «due culture o stili differenti: la cultura della vita e la cultura della morte, o meglio lo stile di resistenza attraverso la vita e lo stile di resistenza attraverso la morte». La prima, spiega l’editorialista, è «un’opzione razionale» adottata dalla maggioranza dei palestinesi dopo la Nakba del ’48 e fatta propria da Fatah che, nei conflitti armati «con il nemico», cercava comunque sempre di preservare la vita dei combattenti e del popolo. La sintesi di questo metodo è che la morte può arrivare, ma non deve essere ricercata. Fatah pertanto, scrive l’ambasciatore, «ha sviluppato molti metodi oltre alla lotta armata, nei campi della cultura, della letteratura, delle varie arti, della diplomazia, della politica […] per arrivare infine ad adottare l’opzione della resistenza pacifica». La cultura della morte invece è adottata dai movimenti come Hamas e il Jihad islamico, che si fondano «su un’ideologia religiosa» basata sul Corano e sugli hadīth, e cercano di realizzare «il concetto di martirio sulla via di Dio». A ogni momento storico si addice un determinato metodo, spiega l’ambasciatore; oggi, per la situazione che vive la Palestina, dovrebbe prevalere la cultura della vita.

 

La guerra a Gaza spiana il terreno all’Islam politico 

 

Lo stesso quotidiano, filo-emiratino e notoriamente ostile all’islam politico, ha pubblicato un’analisi della posizione dei Fratelli musulmani sulla questione di Gaza, firmata dal giornalista palestinese Fathi Ahmad. Quando è nato nel 1987, Hamas era parte integrante della Fratellanza, come stipulava lo statuto elaborato nel 1988. Nel 2017 Hamas ha preso le distanze dai Fratelli musulmani, ma senza mai arrivare a un «divorzio completo» perché le due parti, spiega l’editorialista, avevano interessi comuni da preservare. Resta il fatto, però, che oggi la Fratellanza non sostiene in maniera assoluta ed esplicita Hamas a Gaza, ciò che in parte potrebbe dipendere dal fatto che l’organizzazione generale ha sede in Gran Bretagna. Questo, tuttavia, è grave, scrive Fathi Ahmad, perché «un movimento che ha quasi cent’anni e che in origine si fondava sull’idea di far rivivere le glorie della nazione islamica (umma) e liberare la Palestina (e non solo), avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle gli interessi personali e prepararsi a fare ciò che gli è richiesto e ciò che la umma si aspetta da lui». I fatti di Gaza «hanno rivelato ciò che era nascosto, cioè che il movimento ha perso la spinta propulsiva, così come la sua filosofia e i fondamenti della rivoluzione sui quali si fondava. Dopo il disimpegno della Fratellanza, Hamas è rimasto orfano». Il vuoto lasciato dai Fratelli musulmani, spiega l’editoriale, è stato riempito dall’Iran e dalle sue milizie, nessuna delle quali «osa respirare senza il permesso di Teheran».

 

L’idea che il “Diluvio di al-Aqsa” abbia portato alla luce le criticità e i limiti del movimento islamista fondato da Hasan al-Banna è una tesi abbastanza diffusa nel mondo arabo, ed è in parte condivisa anche dal politologo marocchino Hasan Aourid, che su al-Jazeera s’interroga sul destino dell’islam politico dopo gli eventi del 7 ottobre. Per molti decenni, scrive Aourid, «l’islam politico è stato “la grande idea” che ha sottratto al nazionalismo arabo lo splendore e la forza della sua organizzazione, e ha preso slancio in corrispondenza di alcuni eventi storici, tra cui la Rivoluzione iraniana (1979), la Guerra del Golfo (1991) e, in una certa misura, la guerra in Iraq (2003)». Le Primavere arabe sono state la grande occasione dei movimenti islamisti e hanno segnato il loro passaggio dal discorso teorico all’esercizio del potere. Giunti al potere però i partiti islamisti hanno deluso le aspettative, scrive il politologo, e hanno conosciuto un rapido declino per aver «privilegiato la dimensione locale e le preoccupazioni interne, in contrasto con la natura stessa dell’islam politico, che trascende la dimensione locale, per la loro tendenza all’eccessivo pragmatismo, che avrebbe portato a stringere alleanze forzate e innaturali con altri partiti, la mancanza di una cultura dello Stato e l’eccessivo attaccamento al potere». Tuttavia, il «“Diluvio di al-Aqsa” costituisce un nuovo punto di svolta nella scena politica del mondo arabo», scrive Aourid, e potrebbe infondere nuova linfa vitale ai movimenti islamisti, come dimostrerebbero alcune tendenze in atto in Marocco, in Giordania, e in maniera meno evidente, anche in Egitto e in Tunisia. In Marocco gli indicatori sarebbero in particolare due: le reazioni critiche degli islamisti alla riforma sulla Mudawwana, il Codice della famiglia, e il ritorno sulla scena del movimento islamista Giustizia e Carità, che qualche settimana fa ha presentato un proprio progetto politico (ne avevamo parlato qui). Ci sarebbero poi alcuni elementi oggettivi che in passato hanno costituito e continuano a costituire una forza trainante per l’islam politico: «l’arroganza occidentale, la dipendenza dei governi del mondo arabo dall’Occidente, attraverso determinate scelte politiche, economiche e culturali, e il dominio delle élite occidentalizzate». L’islam politico, conclude l’editorialista, è stato in gran parte una risposta a questi tre elementi, elementi che gli eventi di Gaza hanno riportato prepotentemente alla luce in questi ultimi mesi. Da qui l’idea di Aourid per cui «all’orizzonte si profila una nuova ondata di islam politico, con nuovi attori, nuovi discorsi e nuove teorie».

 

Emirati siriani uniti [a cura di Mauro Primavera]

 

Nel tredicesimo anniversario dell’inizio della guerra civile siriana, la stampa di proprietà qatariota ha dedicato alcuni articoli a fare il punto sull’esperienza “rivoluzionaria” dei siriani che si oppongono al regime di Bashar al-Assad, senza risparmiare loro dure critiche. Samira al-Musalama, giornalista e politica siriana licenziata nel 2011 dalla direzione del quotidiano governativo di Damasco Tishrin, scrive un articolo su al-‘Arabi al-Jadid dal titolo “Il piccolo emirato di Assad”, segnalando che la contestazione nei confronti del regime non è finita: «gli slogan inneggianti alla rivoluzione che i siriani hanno esposto a Idlib e nella provincia di Aleppo, territori sotto il controllo di Tahrir al-Sham, non differiscono da quelli che sono stati declamati a voce alta a Sweyda e che non fanno dormire sonni tranquilli al regime di Bashar al-Assad». Tuttavia, l’autrice esprime anche preoccupazione per l’assenza di coordinazione tra le manifestazioni delle opposizioni di Idlib e quelle di Sweyda. La constatazione è amara: la società siriana è ancora «riluttante nel puntare alla riunificazione popolare», visto che molte organizzazioni politiche hanno contribuito alla destabilizzazione del Paese «combattendosi l’un l’altra in uno scontro settario e nazionale». Se all’inizio della Primavera Araba del 2011 i manifestanti concepivano l’identità siriana in maniera pluralista, ossia nel rispetto delle minoranze etnico-religiose del Paese, adesso il panorama politico e culturale è radicalmente mutato. Negli ultimi anni, nota al-Musalama, sono emerse due narrazioni che intendono rendere il più omogeneo possibile il tessuto sociale del Paese. La Siria è infatti divisa tra due “emirati”: il primo è quello di al-Joulani, leader della formazione salafita jihadista Tahrir al-Sham; l’altro è il governo dello stesso Assad. «Sia che vengano mascherati con il secolarismo del partito unico al potere, come nel caso di Assad, sia che provengano dall’ideologia salafita, come nel caso di al-Joulani, entrambi gli emirati hanno utilizzato il riferimento religioso per sopprimere le idee della popolazione e utilizzare gli strumenti repressivi per mantenere il potere e il loro dominio sulla popolazione. Mentre il regime si appella alla legge dello Stato, Jabhat al-Nusra [vecchio nome di Tahrir al-Sham] si appella, in maniera più o meno esplicita, alla shari‘a». Ancora più critico il parere dello scrittore siriano Ratib Shabo, che sullo stesso giornale osserva: «i gruppi che incitano alla caduta di Assad nei territori fuori dal controllo del regime, siano essi in Siria o all’estero, non hanno mantenuto viva la rivoluzione siriana né giustificano il discorso sul proseguimento della rivoluzione. L’attività rivoluzionaria richiede lo scontro diretto contro l’ordine costituito, che dispone dei mezzi di coercizione e prende le decisioni. Far cadere il regime dall’estero non fa parte dell’attività rivoluzionaria, soprattutto se queste persone vivono sotto autorità che stanno attraversando una fase di stagnazione» socioeconomica simile a quelle del governo siriano. Ciò «rappresenta un’ulteriore negazione del carattere rivoluzionario di queste attività, che avvengono sotto autorità non meno brutali di quelle che si intende abbattere. Si può inoltre affermare che l’esempio di queste “attività rivoluzionarie” serve a mascherare il vero volto delle autorità che controllano» alcune parti del Paese. Shabo confessa senza mezzi termini che la rivoluzione del 2011 «si è interrotta» è che le «attività estere non vanno oltre il ricordo» della fu Primavera Araba. Dello stesso parere anche al-Quds al-‘Arabi: «dopo tredici anni il popolo rivoluzionario si trova ancora tra due scelte, una cattiva e l’altra pessima, e non ha una terza via». Poi, citando il famoso romanzo di Orwell La fattoria degli animali, accusa i leader della rivoluzione di essersi comportati come il maiale del racconto: l’animale rappresenta una «alternativa» al potere autoritario, tuttavia, una volta preso il potere, crea egli stesso un regime «brutale e corrotto». Più nostalgico e benevolo il commento su Al Jazeera di Amir Albu Salama, membro della Fratellanza Musulmana siriana: «in verità questo anniversario ci ricorda la pazienza di questo popolo straordinariamente tenace e che non tollera gli oltraggi. Ha la forza di resistere all’oppressione di un regime criminale sostenuto da forze malvage e cattive». Anche qui non manca una piccola ammissione sulla piega inattesa del percorso rivoluzionario: anche se «questa rivoluzione benedetta, il cui nome rimarrà imperituro nelle pagine delle glorie storiche, sarà descritta come una delle più solide e autentiche rivoluzioni moderne, ma ha bisogno di una seria pausa di riflessione al fine di correggere il proprio corso, di riorientare la propria bussola e di reindirizzare la propria azione».

 

Sempre su al-Quds al-‘Arabi lo scrittore siriano Bakr al-Sidqi analizza – ma sarebbe più corretto dire deride – l’intervista che il presidente al-Assad ha rilasciato al presentatore russo Vladimir Solovyov lo scorso 3 marzo: «Si esita molto prima di scrivere un commento su qualsiasi apparizione di Assad sui media, anche se diventa impossibile trattenersi dopo aver visto la recente intervista con il giornalista russo Solovyov che fa a gara con il suo ospite a chi è più pagliaccio. Il desiderio di pronunciarsi ha infine preso il sopravvento di fronte a parole totalmente prive di senso e al degrado mentale e morale che ha contraddistinto l’intervista».

 

I giornali vicini alle posizioni di Arabia Saudita ed Emirati, Paesi che hanno normalizzato o stanno normalizzando i rapporti con Damasco – evitano qualsiasi riferimento al regime di Assad per occuparsi di altre questioni relative alla Siria. Al-‘Arab, ad esempio, parla del gran ritorno delle musalsalat (le popolari serie televisive arabe trasmesse durante il Ramadan) siriane: «dall’anno scorso abbiamo notato l’inizio di una nuova rinascita delle produzioni siriane durante il Ramadan. Sembra che anche quest’anno questi lavori siano maturi dal punto di vista artistico e intellettuale». Un altro articolo del quotidiano panarabo riporta le numerose difficoltà di al-Joulani, leader di Tahrir al-Sham, impegnato a contenere le «proteste senza precedenti» scoppiate dopo la tortura e l’uccisione di un membro appartenente a una fazione satellite della sua organizzazione, Jaysh al-Ahrar. Anche al-Sharq al-Awsat, quotidiano di proprietà saudita, parla della cosiddetta “resa dei conti a Idlib”: «negli ultimi anni si è accumulata una gran quantità di dettagli sulle differenze tra Tahrir al-Sham e la maggioranza della popolazione siriana a Idlib. Il primo è a favore dell’islam estremista, la seconda dell’Islam moderato. Anche per quanto riguarda la rivoluzione le due parti divergono: Tahrir al-Sham ambisce all’emirato a uno Stato islamico estremista, i siriani invece lavorano per uno Stato democratico che garantisca libertà, giustizia e uguaglianza per tutti». 

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