Le influenze di Turchia e Arabia Saudita sulla comunità sunnita irachena, in crisi dalla caduta di Saddam Hussein

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:09

Le elezioni del maggio scorso hanno rappresentato un momento di straordinaria rilevanza per l’Iraq. Al di là dei risultati, tutt’ora al vaglio degli inquirenti a causa delle molte irregolarità denunciate, esse sono state un banco di prova importante per la tenuta del sistema iracheno. Si è trattato, infatti, della prima chiamata alle urne dopo la sconfitta del sedicente Stato Islamico e il ritiro delle unità peshmerga dalla città-chiave di Kirkuk. Due avvenimenti che – seppur in misure e modalità differenti – hanno scosso in profondità le fondamenta di una sintesi statuale da sempre considerata da ampi settori dell’opinione pubblica e della pubblicistica internazionali come artificiale e “naturalmente” destinata all’implosione. Benché segnate da una partecipazione nettamente inferiore rispetto alle precedenti tornate elettorali e sfociate in un panorama socio-politico fortemente frammentato, le ultime consultazioni hanno riaffermato la centralità delle istituzioni irachene, restituendo a Baghdad un ruolo di mediazione e ricomposizione degli interessi che sembrava essere andato perduto con l’ascesa di ISIS e la possibile secessione del Governo regionale del Kurdistan (KRG).

 

Eppure, nonostante la loro importanza, le elezioni di maggio non possono rappresentare che il primo passo di un processo di ricostruzione che si preannuncia lungo, irto di ostacoli e che dovrà necessariamente operare su più livelli: materiale, identitario e politico-istituzionale su tutti[1].

 

Una realtà divisa e priva di punti di riferimento

Queste considerazioni appaiono ancora più pressanti se analizzate dalla prospettiva della comunità arabo-sunnita. Con la caduta del regime ba‘thista (2003), essa si è avvitata in una crisi che ne ha completamente alterato gli equilibri e dalla quale pare ancora ben lungi dall’essere uscita: la sua tradizionale vicinanza alle istituzioni irachene e l’assenza di una coscienza socio-politica assimilabile a quella della altre maggiori componenti etnico-confessionali del Paese, infatti, hanno contribuito a sprofondarla in una spirale di lotte interne, rifiuto del nuovo ordinamento e spaesamento divenuti sempre più acuti con il passare del tempo. Una condizione, questa, resa ancora più marcata dalla debolezza delle reti di potere sopravvissute alla caduta di Saddam Hussein e dalle epurazioni varate dall’Autorità Provvisoria della Coalizione (APC) attraverso lo scioglimento delle forze armate e il processo di de-ba‘thificazione.

 

È all’interno di questo vacuum che si è fatto strada l’odio diffuso nei confronti di un “nuovo Iraq” percepito come inerentemente ostile agli interessi sunniti. Un brodo di coltura ideale che avrebbe favorito l’ascesa di attori marcatamente anti-sistema e prodotto centinaia di formazioni paramilitari protagoniste di una sanguinosa guerra civile, così come gli alfieri di quella denominazione jihadista che avrebbe dato i natali ad Abū Bakr al-Baghdādī e al suo sedicente Stato Islamico.

 

Sarebbe errato, però, considerare questi sviluppi come inevitabili. Vi è stata una fase, infatti, seguita al successo registrato dai movimenti sahwa[2] contro le forze di Abū Mus‘ab al-Zarqāwī e del nascente Stato Islamico in Iraq (ISI), nella quale il progressivo riavvicinamento della comunità alle istituzioni irachene pareva tutt’altro che una mera utopia. La marginalizzazione del movimento nazionalista di Īyād ‘Allāwī (sul quale nel 2010 si era concentrato il sostegno di buona parte dei voti “arabo-sunniti”)[3] e l’incancrenirsi delle tensioni con Baghdad hanno però segnato il fallimento dell’intero processo, aprendo la strada ai movimenti di protesta che paralizzarono l’intero Iraq centro-occidentale tra il 2012 e il 2013[4] e, soprattutto, al ritorno di ISI. Un risultato che pareva impossibile alla luce degli scontri che solo pochi anni prima avevano contrapposto le coorti jihadiste ai loro ex-alleati confluiti nelle milizie sahwa, ma che invece si concretizzò mano a mano che le relazioni con Baghdad divenivano sempre più tese, le leadership politiche arabo-sunnite, prese tra due fuochi, perdevano quel poco di autorità residua e la crisi siriana estendeva i suoi effetti all’interno della jazīra irachena.

 

Di pari passo con il graduale ritorno all’interno dell’Iraq occidentale e con l’aumento delle operazioni di guerriglia – processi che sarebbero culminati con la presa di Mosul del giugno 2014 e l’occupazione di oltre un terzo dei territori iracheni – al-Baghdādī lanciò una vera e propria OPA nei confronti delle leadership della comunità sunnita della terra dei due fiumi[5]. Operando nell’ombra, le forze jihadiste riuscirono a intessere solidi legami con esponenti del vecchio regime in cerca di riscatto e a ottenere il sostegno di segmenti clanico-tribali da sempre al centro delle dinamiche di potere delle regioni più occidentali – Ninive e al-Anbar su tutte. Un risultato, quest’ultimo, ottenuto ricorrendo a forme tipiche di coercizione e cooptazione, ma anche, laddove necessario, bypassando le strutture di potere tradizionali a favore di nuovi leader[6].

 

Lungi dal limitare i suoi effetti alla sola parabola di ISIS in Iraq, chiusasi formalmente con la liberazione degli ultimi avamposti jihadisti nel Paese a fine 2017, la strategia di al-Baghdādī ha investito in maniera profonda il tessuto sociale arabo-sunnita. Come e forse più che nel periodo immediatamente successivo alla caduta del regime di Saddam esso appare privo di punti di riferimento, lacerato da divisioni profonde e in balia di attori ostili che non hanno esitato a sfruttarne le debolezze per limitarne l’incidenza a livello nazionale e locale[7]. Un esito, questo, ben evidenziato dai deludenti risultati fatti registrare nelle ultime elezioni dai partiti che tradizionalmente si sono presentati come espressione della comunità.

 

Il piano regionale

A complicare ulteriormente le dinamiche delineate precedentemente vi è anche l’influenza esercitata sulla comunità da una serie di importanti attori regionali: Arabia Saudita, Turchia e Iran su tutti.

 

Per quanto tutt’altro che vicina a Saddam Hussein, Riyadh era stata tra le potenze che si erano opposte con maggior vigore al cambio di regime in Iraq. Lungi dall’attenuarsi con la fine delle operazioni militari dichiarata dal Presidente Bush (maggio 2003), questa posizione si era fatta via via più marcata con l’incancrenirsi della guerra civile irachena, la salita al potere a Baghdad di attori considerati clientes di Teheran e il contemporaneo rafforzamento delle posizioni iraniane nella regione. La risposta saudita alle sfide provenienti dal proprio vicino si era tradotta nella sostanziale interruzione delle relazioni diplomatiche, nel tacito sostegno fornito a un’ampia gamma di attori locali che si opponevano a quello che veniva percepito come un vero e proprio take-over iraniano e nei progetti per la realizzazione di un perimetro di difesa lungo il confine – una misura che, anche a livello simbolico, diceva molto delle posizioni saudite nei confronti del “nuovo Iraq”.

 

L’avvento della nuova amministrazione Obama (2009) e la prospettiva di un ritiro americano da completarsi entro il 2011 obbligarono Riyadh a cambiare atteggiamento e a perseguire una strategia meno passiva e attendista. Sfruttando i legami esistenti con le diverse anime della comunità arabo-sunnita irachena, essa si impegnò attivamente per ridurne la frammentazione politica e massimizzarne il peso specifico. Tutto questo si tradusse in un convinto sostegno a favore del partito al-‘Irāqiyya nella convinzione che una sua affermazione potesse portare a una ridefinizione degli equilibri interni al Paese. Benché connotata da un iniziale successo, la strategia naufragò in seguito alla marginalizzazione del movimento ad opera delle principali formazioni espressione della shi‘a irachena e al varo del nuovo governo presieduto da Nuri al-Maliki. La profonda ostilità nutrita nei confronti del premier portò a un nuovo disengagement interrotto pochi anni dopo dalla caduta di Mosul in mano jihadista e dall’ascesa di un nuovo primo ministro, Haydar al-‘Abādī. Benché sciita (come il predecessore) e proveniente dalle fila dello stesso partito, al-‘Abādī era considerato, se non assolutamente equidistante dalle diverse fazioni interne ed esterne al Paese, quantomeno non asservito a Teheran e a favore della re-inclusione dei sunniti nel sistema socio-politico iracheno. Posizioni, queste, apparentemente condivise anche dal vincitore delle ultime elezioni, Muqtada al-Sadr, che solo pochi anni fa era considerato un “cavallo pazzo” responsabile di alcuni dei peggiori atti della guerra civile e che ora viene invece presentato da parte della pubblicistica quasi come uno statista, in virtù di solide credenziali nazionaliste e di posizioni anti-settarie ben rappresentate dal sostegno fornito ai movimenti di protesta del 2012-2013 e dalle recenti aperture rivolte alle leadership saudite (di cui il viaggio effettuato a Riyadh nel luglio 2017 costituisce la manifestazione più visibile) .

 

Modalità diverse ma obiettivi per certi versi simili hanno invece caratterizzato la strategia turca. Come Riyadh, anche Ankara si era opposta all’occupazione irachena, seppur per timori principalmente legati alla questione curda e ai rischi che questa avrebbe potuto avere sui complessi equilibri interni al Paese. Assodata l’impossibilità di sigillare i propri confini meridionali, la dirigenza turca aveva dato vita a una politica di limitato coinvolgimento fondata su un doppio asse: una campagna di investimenti massicci e una graduale opera di “riconnessione” con il tessuto socio-politico dell’Iraq centro-settentrionale. Un’azione, quest’ultima, che si sarebbe tradotta in una partnership strategica con Erbil, ma anche in un riavvicinamento alla comunità arabo-sunnita irachena passato in larga parte sottotraccia. Al di là dei legami intessuti con le formazioni politiche più vicine al modello rappresentato dal partito AKP, essa creò le condizioni per un dialogo che avrebbe finito col coinvolgere anche le leadership nazionaliste storicamente meno ben disposte nei confronti di Ankara. Un caso evidente, in tal senso, è quello rappresentato dall’ex governatore di Mosul, Athīl al-Nujaifī che, con la caduta della città in mano jihadista, non aveva esitato a rinnegare le proprie precedenti posizioni per intessere un solido asse con la Turchia e ravvivare il dibattito relativo alla costituzione di una regione autonoma sunnita in Iraq. Un legame tradottosi nell’invio di uomini, mezzi e risorse turche nella regione irachena di Bashiqa (dove operava una milizia fedele ad al-Nujaifī), che, alla fine del 2016, aveva scatenato una vera e propria crisi diplomatica capace di coinvolgere direttamente i vertici dei due Paesi[8].

 

Infine, l’Iran. Per quanto accusata di essere l’epicentro di una mezzaluna sciita avente come nemico naturale le comunità sunnite della regione, Teheran ha dimostrato negli ultimi quindici anni di possedere una comprensione dell’area ben più sofisticata e articolata di quanto generalmente attribuitole. Lungi dal limitare le sue relazioni alle sole realtà appartenenti alla galassia sciita, l’Iran ha sviluppato un network di contatti, alleanze e rapporti patrono-clientelari capace di valicare senza eccessivi problemi i tradizionali confini etnico-confessionali. Per quanto meno reclamizzate, tali dinamiche hanno interessato anche parte della leadership arabo-sunnita irachena, al fine di limitare l’ostilità diffusa nei confronti della Repubblica Islamica, ma anche – e soprattutto – di favorire l’instaurazione di canali di comunicazione ritenuti fondamentali per la sostenibilità di una terra dei due fiumi ormai pienamente al centro della visione geopolitica iraniana. È in quest’ottica che si spiegano i contatti paralleli che hanno favorito l’allargamento delle diverse maggioranze di governo emerse dal 2005 in avanti a esponenti di punta della comunità sunnita irachena. Assolutamente privi di alcun senso se esaminati attraverso le sole chiavi di lettura etnico-confessionale, essi hanno invece permesso a Baghdad (e a Teheran) di trovare un modus vivendi con una componente arabo-sunnita che per storia, peso specifico e distribuzione spaziale rappresenta uno degli elementi costitutivi del sistema iracheno, garantendo agli esecutivi di al-Maliki e a quello di al-‘Abādī delle sponde tutt’altro che refrattarie al dialogo.

 

Duramente provata dalla pesante eredità lasciata da ISIS e segnata da divisioni interne e agende esterne confliggenti, la comunità arabo-sunnita irachena appare tuttora alle prese con un processo di ridefinizione identitaria che affonda le proprie radici nel travagliato cambio di regime del 2003. In questo senso, essa si trova a fare i conti con una terra dei due fiumi alla quale sente di appartenere a pieno titolo, ma anche con un “nuovo Iraq” largamente percepito come inerentemente ostile e allineato alle posizioni e agli interessi del vecchio nemico iraniano. Un limbo dal quale può sperare di uscire solo attraverso una presa di coscienza collettiva da realizzarsi nell’ambito di un processo di riconciliazione nazionale che appare come non più procrastinabile. A meno che non si voglia ancora una volta riprodurre quelle dinamiche che sono state alla base dell’insurrezione post-2003 e del ritorno dello “Stato Islamico”.

 

Bibliografia

Riccardo Redaelli, Andrea Plebani, L’Iraq contemporaneo, Carocci, 2013

Andrea Plebani, Jihadismo globale: strategie del terrore tra Oriente e Occidente, Giunti, 2016

Andrea Plebani, La terra dei due fiumi allo specchio. Visioni alternative di Iraq dalla tarda epoca ottomana all’avvento dello “Stato Islamico”, Rubbettino Editore, 2018

Andrea Plebani, Iraq, Saudi Arabia, and Kuwait: Post-2003 Challenges and Opportunities for the Iraqi Federal Architecture, in O. Al-Ubaydli, A. Plebani (a cura di), GCC Relations with Post-War Iraq: A Strategic Perspective, Gulf Research Centre Cambridge, 2014

 

[1] A tal proposito, appaiono ancora attuali le indicazioni contenute all’interno del rapporto coordinato dall’autore per conto dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. Cfr. Andrea Plebani, After Mosul. Re-Inventing Iraq, Ledizioni LediPublishing, 2017, pp. 159-165.
[2] Letteralmente “risveglio”. Il termine è stato utilizzato per indicare una serie di movimenti di matrice tribale (in predominanza sunniti) che, soprattutto a partire dal 2006, hanno stretto una sorta di patto con le forze statunitensi rivelatosi determinante per allontanare ISI dalle sue roccaforti nell’Iraq centrale.
[3] Al-‘Irāqiyya si presentava come una piattaforma laica e nazionalista che puntava a superare la polarizzazione etnico-settaria che aveva caratterizzato la prima fase dell’Iraq post-Saddam.
[4] Cfr. Kirk Sowell, Iraq’s Second Sunni Insurgency, in «Current Trends in Islamist Ideology», vol. 17, 2014.
[5] Cfr. Andrea Plebani, After Mosul: What Fate for IS in Iraq?, in A. Plebani (a cura di), After Mosul: Re-Inventing Iraq, cit., pp. 127-157.
[6] Cfr. Koumay al-Mulhem, Le tribù di Niniveh: la base dello «Stato Islamico», in M. Trentin (a cura di), L’ultimo califfato. L’organizzazione dello Stato islamico in Medio Oriente, il Mulino, 2017, pp. 77-96.
[7] Un caso paradigmatico, in tal senso, è quello costituito dalle migliaia di sfollati che, soprattutto all’interno di aree miste dall’elevato peso geopolitico (Diyala in primis), si sono visti negare il diritto a rientrare nelle loro case, a causa di presunti legami con ISIS o dell’esistenza di cellule del gruppo ancora attive.
[8] Andrea Plebani, La terra dei due fiumi allo specchio. Visioni alternative di Iraq dalla tarda epoca ottomana all’avvento dello “Stato Islamico”, Rubbettino Editore, 2018, pp. 136-140.

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