Nel Paese dell’Africa occidentale, essere musulmano significa appartenere a una confraternita sufi. Questo fenomeno ha generato un’intensa spiritualità popolare e garantito una notevole stabilità sociale. Ma da qualche anno questa tradizione è messa in discussione dal salafismo.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:35

Moussa Niang ci attende davanti a casa sua, un basso edificio bianco posto alla fine di una strada polverosa alle porte di Tivaouane. Trovarla è stato tutt’altro che semplice perché l’edificio sorge in un quartiere in costruzione, dove le stradine che conducono alle abitazioni sono ancora anonime piste in sabbia battuta. Il silenzio è rotto dalla chiamata alla preghiera diffusa dalle moschee circostanti e dagli schiamazzi di galli e galline che razzolano liberi tra le case. Moussa Niang è l’imam della Moschea Serigne Babacar Sy. È venerdì e nell’attesa che arrivi l’ora della preghiera ci fa accomodare nel salone degli ospiti. Nella stanza l’aria è pesante e appiccicosa, le mosche ci ronzano attorno moleste. Benché sia inverno infatti il sole di mezzogiorno è caldo e le temperature sfiorano i 30 gradi.

 

Moussa e la sua famiglia sono da sempre membri della Tijaniyya, la confraternita sufi nata in Algeria alla fine del Settecento e diffusasi in Senegal all’inizio dell’Ottocento attraverso il jihad condotto da El Hajj Omar Tall. Protagonista controverso della storia senegalese, questo predicatore-guerriero è stato un importante marabutto originario del Futa Toro, la regione al confine tra il Senegal e la Mauritania, e fondatore del grande impero Toucouleur sorto a cavallo tra Senegal, Guinea e Mali, ma destinato a dissolversi con la colonizzazione francese. Secondo la tradizione, Omar Tall ricevette la nomina a Khalife per la Tijaniyya dell’Africa Occidentale da un discepolo di Ahmad Tijani (1735–1815), fondatore della confraternita, di cui fece la conoscenza durante il pellegrinaggio alla Mecca. Nei decenni successivi, il suo testimone sarebbe stato raccolto dalla famiglia Sy a Tivaouane, e dalla famiglia Niasse a Kaolack, dalle quali sarebbero nati due rami senegalesi antagonisti della stessa confraternita.

 

Oggi, con i suoi 40.000 abitanti Tivaouane, 100 chilometri a nord-est di Dakar, è la città santa della Tijaniyya senegalese. Ogni anno accoglie milioni di fedeli in occasione del Gamou, il grande pellegrinaggio durante il quale si celebra la nascita del Profeta dell’Islam. Alle celebrazioni, ci spiega Moussa, partecipano tutti i tijani, anche quelli che fanno riferimento alla famiglia Niasse di Kaolack. Tra i due rami infatti non ci sono differenze dottrinali: «Come nella storia islamica ci sono stati i quattro Califfi Ben guidati, così all’interno della medesima confraternita possono esserci califfi diversi. Ma questo non impedisce affatto di avere dei buoni rapporti». Ciascuno dei due gruppi si caratterizza però per alcune pratiche. I tijani di Kaolack, per esempio, sette giorni dopo il Gamou festeggiano il Gamou watt in ricordo, ancora una volta, della nascita del Profeta Muhammad. Questa ricorrenza – ci spiega l’imam – è legata alla tradizione senegalese che vuole che i neonati ricevano il proprio nome sette giorni dopo la nascita, alla presenza della famiglia, degli amici e dell’imam o di un marabutto del luogo. In quest’occasione, i presenti salmodiano lodi e benedizioni per proteggere il bambino e la sua famiglia dagli influssi dello shaytān, il diavolo. La cerimonia religiosa si conclude con il sacrificio di un montone, che segna anche l’inizio della festa all’insegna di canti e balli, questa volta in onore della madre del nascituro.

 

Il quartiere Hadji Malik di Tivaouane è il cuore pulsante delle pratiche tijani. Qui le moschee e i mausolei, da qualche anno patrimonio dell’Unesco, parlano tutti della famiglia Sy a cui viene riconosciuto il merito di aver formato migliaia di persone nelle scienze islamiche e aver diffuso la Tijaniyya in Senegal. «Malik Sy è stato un eroe, un predicatore, un maestro e un successore del Profeta. L’obbiettivo delle confraternite è aiutare il musulmano a praticare l’Islam nella maniera più appropriata e raggiungere uno stato di purificazione», ci spiega Moussa. El Hadj Malik Sy arrivò in città nel 1902 e da allora la sua famiglia vive qui. Oggi, a distanza di un secolo, i talibé tijani continuano a ricevere gli insegnamenti nella sua zāwiyya, un basso edificio risalente ai primi del Novecento, rivestito di piastrelle in ceramica e fiancheggiato da un minareto. A pochi metri dalla zāwiyya di Malik Sy sorge la moschea-mausoleo dedicata al suo successore, il secondo califfo Ababacar Sy, fatta erigere dal figlio di quest’ultimo nel 1957. Questa moschea, di cui Moussa è diventato imam succedendo al padre e al nonno, si erge di fronte a un basso edificio in stile coloniale che un tempo fu la residenza di Ababacar Sy. Mentre passeggiamo lungo la strada che fiancheggia la moschea interamente rivestita di marmo rosa, un giovane a bordo del suo motorino si ferma chiedendoci di fare una fotografia insieme. A Tivaouane è molto raro vedere dei bianchi, ci spiega Moussa, e quando capita i ragazzi sono contenti di fare delle foto per mostrarle agli amici.

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Fedeli in preghiera presso la Grande moschea di Tivaouane [foto Oasis]

 

A soli due isolati di distanza, su una grande spianata di sabbia si trova la Grande moschea, simbolo della città. Questo luogo di culto è unico nella sua struttura, con la sua forma ovale e l’aria decadente, e un solo minareto che indica la direzione della Mecca. I lavori qui sono iniziati negli anni ’80 ma non sono mai stati terminati. I fedeli pregano sotto gli alberi, cercando un po’ di riparo dal sole battente. Alcuni di loro ci fissano con aria interrogativa per poi chiederci se siamo stati autorizzati ad aggirarci nel quartiere. Il clima si fa teso. Anche Djilly, la nostra guida, non nasconde il suo disagio: come membro della confraternita muride non è solito frequentare Tivaouane e non conosce molto bene le pratiche tijani. La tensione però sparisce non appena torniamo a casa di Moussa, dove ci aspetta un delizioso pranzo a base di riso speziato, pesce fritto e verdure stufate. La moglie di Moussa, una donna solare e vivace sulla cinquantina, ci raggiunge per la frutta e il tè. Al suo arrivo la conversazione si alleggerisce, e dalle pratiche tijani passiamo a parlare delle pratiche sociali in Senegal e in Italia. Mi domanda quante mogli ha mio marito – perché il suo ne ha due; la seconda moglie, più giovane, vive insieme al figlio a Dakar – e si stupisce quando le dico di essere l’unica. In Senegal, ci spiega, la poligamia è una pratica molto diffusa, anche se a volte può rivelarsi piuttosto problematica per i litigi che possono nascere tra le consorti. Fortunatamente, tiene a precisare, non è il loro caso!

 

 

«Prega come se dovessi morire domani, lavora come se dovessi vivere per sempre»

 

Essere musulmano in Senegal significa quasi automaticamente aderire a una delle quattro confraternite sufi presenti nel Paese. Quella più rappresentata è la Tijaniyya, alla quale aderisce il 49% dei senegalesi, seguita dalla Muridiyya (31%), dalla Qadiriyya (8%) e dalla Layèniyya (6%). L’1% dei senegalesi non segue alcuna confraternita, preferendo professarsi semplicemente musulmano. Il restante 5% è diviso tra cristiani (4%, tra cattolici e protestanti) e animisti (1%). Queste cifre tuttavia non rispecchiano la reale capacità di incidere a livello politico, sociale ed economico di ciascun ordine sufi. Nonostante infatti i muridi siano numericamente minoritari rispetto ai tijani, hanno un dinamismo e un successo economico maggiore, così come più forte è l’influenza che esercitano nei processi politici del Paese. Questa differenza di status la si percepisce anche solo visitando le città sante delle rispettive confraternite: Tivaouane, un po’ decadente e trascurata; Touba, città santa della Muridiyya, più curata e visibilmente florida dal punto di vista economico. Benché sia una città religiosa, Touba si distingue per uno spiccato carattere commerciale che le deriva dal celebre motto di shaykh Ahmadou Bamba, fondatore della città e della confraternita muride: «Prega come se dovessi morire domani e lavora come se dovessi vivere per sempre». La preghiera come mezzo per avvicinarsi a Dio e guadagnare il paradiso, il lavoro come strumento per soddisfare i bisogni materiali: è questa la via a cui Serigne Touba (“il marabutto di Touba”, in wolof) ha educato i suoi discepoli.

 

Ila Touba è il nome dell’autostrada che collega l’aeroporto internazionale di Dakar a Thiès e Touba. Finanziata dalla Cina e dal governo senegalese, questa grande opera è stata inaugurata a dicembre 2018 ed è uno dei tanti simboli del potere muride.

Touba, fondata nel 1888, sorge all’intersezione dei tre storici regni wolof del Cayor, del Baol e del Yolof, 200 chilometri circa a est di Dakar. Si dice che Ahmadou Bamba abbia voluto creare la sua confraternita proprio qui, a sette chilometri dal suo villaggio natale di Mbacké Baol, in seguito a una visione. La confraternita muride nasceva pochi anni dopo, nel 1895, in piena epoca coloniale. In origine, soltanto ai discepoli e alle loro famiglie era consentito vivere nel villaggio, ma oggi la città conta ben due milioni di abitanti ed è la seconda per demografia dopo Dakar.

 

Nel centro della città sorge la Grande moschea, iniziata nel 1932 dal primo califfo e terminata nel 1963, anno in cui fu inaugurata alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica, il cattolico Léopold Sédar Senghor. La moschea è un cantiere permanente: per volere di Serigne Touba, infatti, ogni califfo è chiamato a dare il suo contributo. In stile architettonico arabo, all’esterno la moschea è rivestita in marmo rosa portoghese e marmo di Carrara, e include sette minareti in ricordo dei primi sette califfi che sono succeduti al fondatore. Nel 2018, all’età di 88 anni, Serigne Mountakha Bassirou Mbacké ha assunto la funzione di ottavo califfo, ma non saranno eretti altri minareti per non superare numericamente quelli della moschea di Mecca. L’interno è riccamente decorato da motivi geometrici e arabeschi color oro, rosso, blu e ocra, realizzati da maestranze arabe, marocchine soprattutto. Nel cortile della moschea, il mausoleo accoglie le spoglie di shaykh Ahmadou Bamba, dei suoi figli e dei califfi successivi. Qui, il corpo del fondatore giace avvolto in un telo bianco, con il viso rivolto a Est verso la Mecca. Ogni anno, a quattro mesi esatti dal Ramadan, i fedeli affluiscono nella città santa per il Grand Magal, il tradizionale pellegrinaggio alla tomba di Ahmadou Bamba in ricordo del suo primo esilio in Gabon, avvenuto nel 1895.

 

Nella città santa vigono norme di comportamento piuttosto severe, definite negli anni ’80 da shaykh Abdoul Ahad Mbacké – terzo califfo generale dal 1968 al 1989. A Touba non è consentito fumare, vendere o consumare alcolici e droga, giocare d’azzardo, rubare e organizzare manifestazioni folkloristiche. Anche il codice di abbigliamento è stabilito in maniera rigorosa: per le donne è obbligatorio indossare il velo e una gonna o un pareo che copra le gambe fino alle caviglie. Se queste norme sono ormai una consuetudine nelle realtà islamiche arabe, in Senegal non sono ancora un’abitudine consolidata: a Dakar e nei villaggi è cosa diffusa vedere donne che passeggiano esibendo belle acconciature africane e sgargianti abiti che mettono in risalto le forme e lasciano nude le spalle.

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Grande Moschea di Touba [foto Oasis]

 

L’architettura stessa di Touba ricorda costantemente il suo ruolo di città santa. Di fronte alla moschea sorge il palazzo in cui risiede il califfo generale, Cheykhoul khadim, mentre a fianco si trova la biblioteca Daray Kâmil, fondata nel 1977 dal terzo califfo, come ricorda la targa apposta sopra l’entrata. La biblioteca contiene diverse migliaia di libri, tra cui moltissimi scritti di Ahmadou Bamba, autore di decine di poesie, sacre e profane, e di interi volumi contenenti consigli per i suoi discepoli. Serigne Touba scriveva in arabo, ma per l’insegnamento orale prediligeva il wolof. A lui si deve peraltro anche una traduzione del Corano in wolof, lingua che può essere scritta in caratteri arabi e, dalla fine degli anni ’60, anche in caratteri latini. Ma l’opera più celebre lasciata da Ahmadou Bamba è forse Masalik al-jinan, “Le vie del paradiso”, il celebre trattato di sufismo tradotto in francese dai suoi discepoli. Oltre alla biblioteca, l’edificio comprende una sala di lettura sulla quale campeggia la scritta «Toi, qui veux acquérir le savoir, révises à chaque fois, à chaque instant», e una sala dove sono esposti diversi oggetti appartenuti allo shaykh, o donati alla confraternita dalle personalità che negli anni si sono recate in visita a Touba. Tra questi oggetti, la nostra guida ci mostra con orgoglio un Corano donato dal pugile Mohammad Ali e un cofanetto in legno e madreperla donato da Yasser Arafat.

 

Attorno alla moschea sorgono le case di altri discendenti del fondatore, nipoti e bisnipoti, e il pozzo dell’acqua miracolosa. Secondo la tradizione, fu lo stesso Ahmadou Bamba a indicare il punto preciso in cui scavare per trovare l’acqua. Oggi il vecchio pozzo non viene più utilizzato ed è stato sostituito da uno nuovo, scavato accanto.

 

In città la famiglia del fondatore si è impegnata anche nell’edificazione di opere pubbliche destinate agli abitanti: al terzo califfo, shaykh Abdou Lahad Mbacke, si devono la costruzione nel 1983 della prima clinica, l’apertura nel 1971 del primo ufficio postale e del primo centro telefonico nel 1985. Alla figlia si deve invece la costruzione di una scuola privata franco-araba che porta il nome del padre. Il basso edificio bianco che ospita la scuola sorge nel mezzo di una spianata di sabbia rossiccia, destinata alla costruzione di un futuro polo universitario. Le aule, tutte dislocate al piano terra, si aprono sulla corte interna, su un lato della quale un piccolo mihrab stilizzato in ferro indica la direzione della Mecca. Lo spazio è poco e si prega nel cortile. Questa scuola, ci racconta il direttore, è frequentata ogni anno da 1000-1200 studenti, maschi e femmine, che si turnano nell’arco della giornata. Le aule in effetti sono piccole e affollate, attorno a un banco siedono fino a 3-4 ragazzi. Gli studenti ci guardano incuriositi e per un attimo distolgono lo sguardo dalla lavagna sulla quale è riassunto in francese il tema della lezione: la tratta degli schiavi. La scuola offre quattro cicli di studio: prescolare, elementare (sei anni), medio (4 anni) e secondario (3 anni), al termine del quale i ragazzi possono accedere all’università.

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Interno di una daara a Touba [foto Oasis]

 

Oltre a queste scuole, in città esistono diverse daara, istituti adibiti allo studio e alla memorizzazione del Corano. Solitamente chiuse al pubblico, otteniamo il permesso di visitarne una, grazie all’intermediazione di Djilly, la nostra guida. Qui, bambini maschi di ogni età siedono in cerchio sul pavimento e salmodiano insieme le sure coraniche, guidati da un ragazzo più grande che con una verga scandisce il tempo. Il maestro ci spiega che gli studenti scrivono i versetti coranici con l’inchiostro su tavolette di legno verticali e li ripetono centinaia di volte, fino a quando li imparano a memoria. Solo allora sono autorizzati a cancellare i versetti dalla tavoletta lavandola con acqua e sabbia. Il processo di apprendimento ha una durata variabile che generalmente va dai tre ai quattro anni, secondo la velocità di memorizzazione di ciascuno studente. Uno dei ragazzi presenti in classe ci mostra orgoglioso il suo manoscritto del Corano: riceverà il diploma quando avrà scritto tutto il Testo senza commettere errori.

 

Dall’Italia a Touba, andata e ritorno

 

A Touba non è raro sentir parlare italiano. Molti senegalesi che nei decenni scorsi sono immigrati in Italia vi hanno fatto ritorno. Nella città santa i processi migratori sono iniziati negli anni ’70, quando i primi talibé hanno abbandonato il mondo rurale per trasferirsi nelle città a causa della grande siccità che aveva colpito la regione di Diourbel. Molti di loro avrebbero proseguito il viaggio verso l’Europa.

 

Shaykh Mbacké Mboup è tornato nella sua città natale dopo 22 anni trascorsi a Langhirano, non lontano da Parma. Ha lavorato come operaio in un’azienda di produzione del prosciutto, ma non l’ha mai assaggiato, precisa. Il sole implacabile è allo zenit e noi cerchiamo riparo all’ombra di un albero. Ci accomodiamo sulla sabbia. Il sottile stridio dei pipistrelli appesi all’ingiù sopra le nostre teste fa da sfondo alla conversazione. Shaykh Mbacké Mboup è contento di parlare in italiano e tenere in esercizio la lingua: «A Langhirano sono riuscito a farmi una vita. Ho un debito nei confronti dell’Italia, anche se non mi è mai stato regalato niente perché ho sempre lavorato sodo. Da qualche anno ho anche ottenuto la cittadinanza italiana». Lui è cresciuto a Touba, ha studiato a Dakar ed è emigrato in Italia alla fine degli anni ’90. Ma in cuor suo ha sempre desiderato tornare nella sua città, come la maggior parte dei muridi sparsi nel mondo – ci spiega. Con l’Italia però ha mantenuto un rapporto stretto: la sua seconda moglie e i figli vivono ancora in Emilia-Romagna e li va a trovare ogni anno. Il viaggio in Italia solitamente è anche l’occasione per accompagnare nella sua tournée Serigne Mame Mor Mbacké Mourtada, uno dei nipoti di shaykh Ahmadou Bamba incaricato specificamente della diaspora. Nel 2018, ci racconta con emozione, la loro delegazione è stata ricevuta in Vaticano da papa Francesco in persona e gli hanno fatto dono di una poesia che Ahmadou Bamba scrisse in onore di Maria.

 

In Italia i senegalesi sono per il 70% muridi, anche se è presente una minoranza di tijani e di layène, ci racconta ancora shaykh Mbacké Mboup. Negli anni la diaspora si è dotata di una struttura formale, incentrata sulle dahira, delle organizzazioni che riuniscono i discepoli e fungono da centri di aggregazione. Sono ben sedici le sedi muridi in Italia, la più grande è quella di Rimini. Chi aderisce alla dahira è tenuto a versare un contributo mensile, parte del quale viene utilizzato per l’acquisto di strutture in Italia da adibire alla preghiera. Di solito, ci spiega shaykh Mbacké Mboup, si preferisce acquistare edifici fuori città per non dare fastidio, visto che i rituali muridi prevedono anche dei canti. Una parte del denaro raccolto dalle dahira viene invece trasferito a Touba. La Dahira Touba Toscana, che raggruppa tredici sezioni di diverse città toscane, contribuisce per esempio alle spese per l’illuminazione delle strade di Touba e per il rimpatrio delle salme. A Pontevico, in provincia di Brescia, nel 2004 è nata la Dahira Ansar per i convertiti italiani. Ogni anno l’8 giugno questa dahira organizza alla fiera di Brescia una giornata dedicata a shaykh Ahmadou Bamba aperta alla cittadinanza. E poi c’è la dahira transnazionale Matlaboul Fawzaïni, nata nel 1994 su iniziativa di alcuni rappresentanti muridi della Francia, dell’Italia, della Spagna e degli Stati Uniti per finanziare la costruzione di un ospedale a Touba. Questo ente, ci spiega il nostro connazionale, mutua il nome da una poesia che Ahmadou Bamba scrisse in onore di Touba.

 

Un pomeriggio a Yoff, villaggio layène

 

Yoff è un piccolo villaggio di pescatori di etnia Lebu, a nord di Dakar. «Nel 1883 il sole è sorto a Ovest», recita un murales dipinto lungo una delle strade principali del villaggio di Yoff. È qui infatti che alla fine dell’Ottocento è nata la confraternita sufi Layène, fondata da un pescatore e agricoltore Lebu, Sayyidina Limamou Thiaw Laye. Secondo la tradizione, il nome scelto per lui dal padre profetizzava una missione importante: Limamou contiene infatti la radice della parola IMAM, guida, oltre a essere anche il nome di un noto marabutto Touculeur di Ouro-Mahdi, villaggio nella regione del Futa Toro. Thiaw, il nome originario della famiglia, sarebbe stato presto sostituito da Laye, che è una deformazione di Allah in wolof da cui deriva anche il nome della confraternita. Nel 1883 Limamou aveva 40 anni quando, a seguito della visione di una cometa, annunciò di essere il Mahdi. Avversato dalla sua stessa famiglia che lo credeva posseduto, Limamou riuscì in poco tempo a conquistarsi un certo seguito grazie ad alcune guarigioni miracolose che la tradizione gli attribuisce. All’epoca le autorità coloniali francesi si misero subito in allerta, preoccupate che il suo insegnamento, al pari di quello di Ahmadou Bamba, potesse favorire i disordini alle porte della capitale. Così, in via preventiva, Laye fu mandato in esilio sull’isola di Gorée, proprio di fronte a Dakar, per alcuni mesi.

 

Oggi su una delle spiagge di Yoff lambite dalle acque dell’Oceano atlantico sorge la Grande Moschea-mausoleo layène. Un basso edificio bianco a forma di cubo, circondato da sabbia dorata e sormontato da una cupola verde conserva la tomba del santo e dei suoi due figli, Seydina Issa Laye – primo califfo della confraternita (1909-1949) e Seydina Madione Laye II, fratello e successore di quest’ultimo (1949-1971).

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Sulla spiaggia di Yoff con uno shaykh layène [foto Oasis]

 

La spianata sabbiosa a cui si accede senza scarpe – tutta l’area è considerata luogo sacro – è semi-deserta. La sabbia scotta e il silenzio del primo pomeriggio è rotto soltanto dalle onde del mare che si infrangono sulla spiaggia. In lontananza, un uomo vestito di bianco seduto sulla sabbia ci fa dei cenni. È l’imam della moschea. Con il misbāh in mano ripete i 99 nomi di Dio, nell’attesa che arrivi l’ora della preghiera. Limamou Laye, ci racconta lo shaykh, è «il Mahdi, è l’alfa e l’omega, è il servo dell’Inviato di Dio – khādim al-Rasūl. Seydina Limamou è venuto per adempiere alla seconda missione del Profeta Muhammad». Uno dei fondamenti della dottrina layène è per l’appunto l’idea che il fondatore della confraternita sia la reincarnazione del Profeta, una questione che in Senegal ha suscitato in più di un’occasione dei violenti attacchi verbali da parte della minoranza salafita.

 

Come a voler confermare il legame che unisce Laye a Muhammad, l’imam ci dice che del fondatore non esistono fotografie, proprio come non esistono immagini che ritraggono il Profeta. Lasciando da parte le questioni dottrinali, lo shaykh inizia a salmodiare il wird, una serie di formule lasciate dal fondatore di un ordine sufi ai suoi discepoli. La preghiera del mattino e quella della sera, ci spiega, sono sempre precedute dal wird. Ma le particolarità dei rituali layène non si esauriscono qui. Le cinque preghiere giornaliere sono posticipate di circa mezz’ora rispetto alla normale scansione temporale e sono tutte precedute da dieci minuti di preghiere salmodiate dal muezzin. I canti, ci spiega l’imam, predispongono il cuore del fedele alla preghiera, perché «cantare è come bussare alla porta prima di entrare». I fedeli inoltre sono tenuti a fare le abluzioni fino al ginocchio e fino ai gomiti per tre volte consecutive. Per partecipare alla preghiera del venerdì occorre essere vestiti rigorosamente di bianco, simbolo di pace e purezza.

 

A Yoff vigono inoltre alcune pratiche sociali specificamente layène: qui le bambine vengono promesse in spose a pochi giorni dalla nascita. Una volta raggiunta la maggiore età la ragazza potrà decidere se sposare la persona scelta per lei o annullare la promessa. Questa tradizione, spiega l’imam, è pensata per proteggere i futuri giovani dalle malattie sessualmente trasmissibili e risolvere il problema del celibato.

 

 

Di spiagge, pescatori e moschee

 

A pochi chilometri dalla Grande Moschea di Yoff, nel golfo di Ouakam, sorge la moschea della Divinità, un parallelepipedo tricolore – bianco, rosso e verde – sormontato da due minareti e affiancato dal mausoleo del fondatore. I due piccoli edifici sorgono direttamente sulla bella spiaggia di sabbia bianca, affollata di barche da poco rientrate dalla pesca e da pescatori che trascorrono il pomeriggio riordinando e riparando le reti. Si dice che la costruzione di questa moschea sia stata voluta da Dio attraverso l’intermediazione di Mouhamed Séni Gueye, autoproclamatosi «califfo di Dio sulla terra». Come recita una targa affissa all’entrata, «la moschea è discesa dal cielo nella notte tra il 28 e il 29 giugno 1973», quando Mouhamed avrebbe visto in sogno la moschea planare sulla spianata. I lavori di costruzione però sarebbero iniziati solo diversi anni dopo. Il nipote del fondatore e figlio dell’attuale califfo Mouhamed Naby Guèye, ci spiega che questa moschea è uno dei cinque luoghi più sacri dell’Islam insieme alle moschee di Mecca, Medina, Gerusalemme e Touba. Tra queste, due sarebbero discese dal cielo: la Ka‘aba a Oriente, e la moschea della Divinità a Occidente. La moschea, ci racconta, è gestita dal movimento Naby-Allah ed è aperta a tutti i fedeli. A una sola condizione: che alla preghiera del venerdì i fedeli vestano di bianco, in ricordo del pellegrinaggio a Mecca.

 

 

Tra storia e baraka

 

Nel 1895 il Senegal diventava ufficialmente una colonia dell’Africa Occidentale francese. Mentre i governatori delle colonie tentavano con ogni mezzo di arginare gli effetti della predicazione islamica temendo l’influenza che i marabutti avrebbero potuto esercitare sulla popolazione, due confraternite autoctone, la Muridiyya e la Layèniyya, vedevano i natali, mentre la Tijaniyya, importata dalle realtà islamiche confinanti, faceva sempre più proseliti. A dispetto dell’ostilità francese, in quest’angolo dell’Africa occidentale si è così fatta strada una forma di Islam autoctona con peculiarità proprie. A differenza delle realtà islamiche arabe, dove negli ultimi decenni è andata affermandosi sempre più una tendenza legalista, in Senegal l’Islam ha mantenuto una dimensione spirituale molto forte, saldamente radicata nelle pratiche di culto popolare e nell’adesione, quasi scontata, dei fedeli agli ordini sufi. Questa propensione ha portato alla sacralizzazione dei fondatori delle confraternite e dei loro discendenti. In effetti, ogni angolo della capitale e delle città sante celebra la loro memoria: grandi murales lungo le strade o sugli edifici raffigurano i capi spirituali sufi, mentre sui finestrini e sui lunotti dei taxi spopolano le immagini di santi e marabutti. E alla salmodia del Corano, tradizionalmente diffusa sui taxi arabi, i senegalesi preferiscono la recitazione dei wird sufi. Anche le barche dei pescatori ormeggiate sulle spiagge, con i nomi dei santi dipinti sugli scafi, celebrano la baraka – il carisma e il potere sacrale di cui sono ritenuti depositari i marabutti. E la baraka non è una prerogativa esclusivamente maschile. Lo dimostra la venerazione per Sokhna Diarra, la madre di Ahmadou Bamba, il cui mausoleo a Porokhane, 200 chilometri a sud di Dakar, è diventato un’importante meta di pellegrinaggio annuale per i muridi.

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Interno della moschea muride Massalikul Jinaan a Dakar [foto Oasis]

 

Nel tempo, tutto questo ha finito per alimentare le critiche di quell’1% di musulmani senegalesi che si dicono salafiti e che rivendicano l’idea del tawhīd, cioè l’unicità di Dio, fondamento di quel monoteismo assoluto che esclude la possibilità di venerare altri che Dio.

 

Ciononostante, oggi le confraternite rappresentano la grande chance del Senegal, unico Paese tra quelli limitrofi politicamente stabile, immune dal germe del jihadismo e con un PIL in crescita. Che il segreto di questa stabilità siano proprio le confraternite è opinione diffusa tra i senegalesi: «I fondatori e i califfi hanno fatto conoscere il vero Islam ai loro discepoli, li hanno educati. Oggi i califfi sono dei maestri e dei governanti. Quando c’è un problema, prendono la parola, danno delle indicazioni e i discepoli obbediscono. Per questo in Senegal c’è la pace. I Paesi in cui non ci sono confraternite invece hanno dei problemi enormi», ci ha detto Moussa Niang, l’imam tijani incontrato a Tivaouane.

 

In Senegal, le confraternite sono il vettore principale dell’insegnamento islamico, garanzia di stabilità sociale, importanti leve della politica interna del Paese e strumenti di diplomazia in materia di politica estera. La loro capacità di incidere a livello politico si manifesta puntualmente in concomitanza con le elezioni presidenziali: queste strutture religiose hanno infatti un ruolo fondamentale nel sostenere i candidati e nell’orientare le preferenze dei fedeli. In un certo senso i quattro presidenti eletti fino a oggi riflettono la capacità delle confraternite di incidere sugli equilibri di potere. La candidatura di Léopold Sédar Senghor, rappresentante della minoranza cattolica, fu sostenuta dai muridi, il suo successore Abdou Diouf era tijani non praticante, mentre Abdoulaye Wade e l’attuale Presidente Macky Sall sono muridi. Quanto alla politica estera senegalese, essa ha potuto beneficiare della Tijaniyya, che negli ultimi decenni ha contribuito a promuovere i rapporti economici, politici e spirituali con il Marocco organizzando i pellegrinaggi al mausoleo del fondatore della confraternita, Ahmed Tijani, nella città di Fez.

 

Da qualche anno, tuttavia, in questo porto di pace nell’Africa Occidentale si sta radicando anche il salafismo. Questa corrente rigorista è stata importata dai senegalesi che negli anni ’90 e 2000 hanno studiato all’Università Islamica di Medina e che, al rientro in Senegal, hanno creato associazioni e moschee con l’obbiettivo di purificare l’Islam sufi dalle pratiche popolari e dall’aura di sacralità che da sempre circonda i fondatori, i califfi e i marabutti. Come ci ha raccontato Ahmadou Kanté – imam della moschea di Point-E di Dakar e simpatizzante delle tendenze riformiste – accade spesso che sufi e salafiti arrivino allo scontro verbale. Il terreno di conflitto è sempre lo stesso: i sufi rivendicano il ruolo dei fondatori delle confraternite e dei califfi quali intermediari tra i fedeli e Dio, mentre i salafiti contestano la venerazione popolare di cui sono oggetto gli shaykh e i marabutti. Per il momento, le tensioni non sono sfociate in scontri aperti. Ma in un mondo sempre più globalizzato, dove spesso la radicalizzazione avviene nei meandri del web o attraverso l’influenza indiretta dei Paesi confinanti caduti nel vortice del jihadismo, anche il modello senegalese rischia di essere messo in discussione.

 

Oggi il grande dilemma del Senegal è trovare il punto di equilibrio tra i valori tradizionali e quelli d’importazione (alla luce anche della libertà di espressione prevista dalla Costituzione), evitando che il radicamento di un Islam rigorista, estraneo alla società locale, apra la strada all’estremismo.

 

 

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