Lo studio di Jean-Loup Amselle mostra che l’idea di un “Islam nero” africano per sua natura moderato e depoliticizzato non regge alla prova dei fatti

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:59

Copertina Amselle.jpgRecensione di Jean-Loup Amselle, Islams africains : la préférence soufie, Le bord de l’eau, Lormont 2017

 

Islams africains : la préférence soufie è l’ultimo libro di Jean-Loup Amselle, antropologo africanista, specialista delle società peul [noti anche come fulani], bambara e maliké del sud del Mali. L’idea generale del libro, spiega l’autore, è «dimostrare che la preferenza accordata all’Islam sufi nella sua variante africana, ovvero “nera”, non è altro che una nuova manifestazione del primitivismo all’epoca del terrorismo jihadista» (p. 7). Questo primitivismo, l’idea cioè secondo cui le società africane subsahariane sarebbero caratterizzate da una specificità radicale, può declinarsi in due forme: nel rifiuto di riconoscere l’esistenza dell’Islam in queste società, e nello stereotipo dell’«Islam nero» (p. 42).

 

La prima tendenza è propria degli studi coloniali e post-coloniali tanto della scuola francese quanto di quella britannica, che per anni hanno visto l’Africa come il continente della magia e della stregoneria, ritenendo l’Islam un elemento estraneo, accidentale e accessorio, che nel tempo avrebbe minato la purezza delle società africane tradizionali favorendone peraltro la stagnazione. Secondo Amselle, la teoria dell’irrilevanza dell’Islam sarebbe del tutto infondata e nasconderebbe un pregiudizio sulle società dell’Africa sub-sahariana, ritenute non veramente musulmane. Questo avrebbe portato molti etnologi e antropologi a depoliticizzare, destoricizzare e deislamizzare le società africane di cui si occupavano. L’emblema di questa visione sarebbe la scuola di Marcel Griaule, che nella veste di consigliere dell’Unione francese si era adoperato per far destituire i dignitari dell’impero di El Hadj Omar e del nipote Tijani, nell’attuale Mali, contribuendo a «purificare» la società dogon dall’influenza musulmana e creando l’immaginario di una società «pagana», governata dai capi tradizionali, i famosi hogon (p. 23). Amselle non risparmia le critiche «ai lavori “scientifici” di Griaule e della sua squadra che, lungi dal costituire un progresso nella conoscenza, manifestano, in una certa misura, una regressione rispetto a una ricerca propriamente coloniale» (p. 45).

 

La seconda tendenza messa in luce da Amselle è l’idea che esista una specificità propria dell’«Islam noir». Questo Islam, sincretico, impregnato di paganesimo, stregoneria e magia, si distinguerebbe per il suo carattere pacifico e moderato, e troverebbe espressione nel sufismo. Tuttavia, spiega Amselle, l’idea che l’«Islam nero» sia per sua natura moderato e depoliticizzato è un retaggio della visione coloniale che non regge alla prova dei fatti. La storia africana infatti conserva la memoria di vicende, più o meno violente, accadute all’insegna del riformismo islamico. A questo proposito, una delle figure più emblematiche è senz’altro quella di al-Maghili, giurista originario di Tlemcen vissuto nell’impero Songhai tra il XV e XVI secolo. Profondamente ostile agli ebrei, che non riteneva meritevoli del patto di protezione, al-Maghili fu responsabile del pogrom contro gli ebrei del Touat, ma anche di misure drastiche contro i suoi stessi correligionari: minacciò di morte chi praticava la divinazione, stabilì l’obbligo di indossare il velo per le donne e la rigida separazione tra i sessi, cercò di rendere più conformi alla sharī‘a le consuetudini e le pratiche di società che ai suoi occhi erano pagane. Le dottrine di al-Maghili avrebbero esercitato un’influenza importante anche nei secoli a venire, ispirando Ousmane dan Fodio, riformatore e politico di etnia fulani che all’inizio dell’Ottocento lanciò il jihad nei territori hausa e fondò il Califfato di Sokoto, ma anche El Hadj Omar, politico, membro della confraternita tijaniyya e comandante militare di etnia toucoleur che creò un impero negli attuali Guinea, Senegal e Mali. Volendo guardare alla contemporaneità, lo stesso fondatore di Boko Haram, Muhammad Yusuf, avrebbe mutuato dall’Islam locale l’idea della lotta contro il sovrano ingiusto e la volontà di purificare l’Islam dalle pratiche pagane.

 

In questa prospettiva non si può perciò affermare che l’«Islam nero» a connotazione sufi sia necessariamente più spirituale, più moderato e meno politicizzato di altre forme di Islam, come spesso si afferma in Occidente. Se questo Islam bastasse a sé stesso e potesse fungere da bastione contro il salafismo e il jihadismo, probabilmente il Mali e gli altri Paesi dell’Africa sub-sahariana non sentirebbero la necessità di formare le loro aspiranti guide religiose in Marocco. A Rabat infatti nasce nel 2015 l’Istituto Mohammad VI per la formazione degli imam, dei predicatori e delle predicatrici preposto all’insegnamento di un Islam moderato, malikita e a connotazione sufi. Cosa sorprendente, fa notare Amselle, fino al 2017, anno di pubblicazione del libro, l’istituto non accoglieva nessun senegalese, come se la forza delle confraternite sufi del Senegal proteggesse questo Paese dall’Islam fondamentalista.

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La grande moschea di Djenne, Mali [© AFP - Francesco Tomasinelli]

 

A conferma del fatto che nell’Africa sub-sahariana il sufismo non è l’unico modello di Islam, Amselle ripropone, aggiornandolo, un suo saggio scritto nel 1985 sul wahhabismo a Bamako. Dagli anni ’80 a oggi – spiega – la presenza wahhabita in Mali è cresciuta notevolmente e ha contribuito a rimodellare la fisionomia del paesaggio religioso, come testimoniano le sempre più numerose moschee, madrase, università e radio private che diffondono il messaggio wahhabita. Le donne sono più coperte che in passato, nascono continuamente nuove associazioni musulmane dedite dell’insegnamento del Corano, ed è in corso una progressiva arabizzazione della lingua bambara. La novità, rispetto al passato, è la modalità con cui il religioso si inserisce nello spazio politico (p. 91); i movimenti religiosi, che siano wahhabiti o sufi, hanno capito che per incidere sulle decisioni devono essere parte attiva del processo politico. È il caso di Mahmoud Dicko, presidente dell’Alto consiglio islamico del Mali, che, insieme ai leader di altre organizzazioni musulmane, nel 2009 è riuscito a bloccare i tentativi di riforma del codice della Famiglia proposti dall’allora presidente Amadou Toumani Touré. A distanza di qualche anno Dicko sarebbe tornato protagonista della scena politica del suo Paese, fungendo da mediatore tra il governo di Bamako e i jihadisti che nel 2012 avevano occupato la regione di Timbuctù e Gao. Ma il suo atteggiamento esitante di fronte alla distruzione dei mausolei di Timbuctù ha scatenato le polemiche della comunità musulmana, portando alla nascita della “Formazione dei leader religiosi” di Cherif Ousmane Madani Haïdara, capo della potente confraternita sufi Ansar Dine (p. 96): un’ulteriore dimostrazione di come tutte le componenti religiose, di qualsiasi tendenza, siano ormai politicizzate.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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