A quasi quattro anni dalla rivoluzione, una lettura storica permette di individuare alcune delle responsabilità principali di una fase storia di cambiamento turbolento che non accenna a placarsi, in un Paese frammentato, in crisi economica, che chiede un compromesso tra vecchi e nuovi poteri, e una politica vera. Intervista a Sherif Younis, Helwan University.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:15

L’islamismo, pur con tutte le sue varianti, sembra essere allo stesso tempo un fenomeno d’avanguardia e di massa. Quale aspetto prevale secondo lei? L’islamismo è al contempo un fenomeno di avanguardia e un’espressione culturale di massa, diffuso largamente e con volti differenti. Nonostante le organizzazioni islamiste abbiano giocato un ruolo importante nella diffusione dell’islamismo, non possiamo dire che ne esauriscano il significato. Non è solo un’operazione di partito, è una questione molto ampia e non sempre legata alla società o a dei gruppi particolari, e lo stesso vale per la questione della violenza. L’islamismo è un’enorme onda che si protrae da 40 anni attraverso molte manifestazioni. La più importante è la discriminazione contro le altre religioni, un atteggiamento conservatore nei confronti delle donne e un tipo di credenza secondo cui l’Islam può salvare la Nazione. Sono passati quasi quattro anni dallo scoppio della Rivoluzione egiziana. Si può dire che la Rivoluzione è incompiuta? E quanto ha effettivamente pesato l’esercito nella transizione? La rivoluzione egiziana ha colto tutti di sorpresa, anche coloro che vi hanno partecipato. Le persone che sono scese in strada il 25 gennaio 2011 volevano protestare contro il Ministro dell’Interno, che aveva una pessima reputazione. Non era la prima volta che c’erano dimostrazioni nelle strade, nei cinque anni precedenti se ne erano verificate alcune e gli scioperi nelle fabbriche erano aumentati. La tensione politica era alle stelle, ma nessuno sapeva cosa sarebbe successo dopo. Tra il 25 e il 28 gennaio 2011 un numero crescente di persone è sceso nelle piazze di molte città importanti dell’Egitto e ha sostenuto il confronto con la polizia, arrivando a sconfiggerla. A questo punto l’esercito è uscito dalle caserme, determinando una svolta nelle relazioni di potere del Paese. Erano infatti quarant’anni che l’esercito stava dietro le quinte e che la polizia, alleata con Gamal Mubarak, erede alla presidenza, e un certo numero di grandi capitalisti (arricchiti grazie ai rapporti con la famiglia Mubarak più che per abilità), ponevano il Paese in una pessima situazione in termini di sicurezza e socio-economici. L’ingresso dell’esercito ha cambiato l’atmosfera politica e, insieme alla pressione esterna di Obama e di alcuni Stati europei, ha costretto Mubarak ad abdicare. Non era né plausibile né patriottico per l’esercito sparare sui manifestanti. Una volta destituito Mubarak, si è posto il problema di chi avrebbe potuto rimpiazzarlo. Quella egiziana non è stata una rivoluzione veramente radicale come quella francese, russa o cinese, dove una classe sociale fu completamente sradicata. Pertanto qualsiasi strada verrà presa, si dovrà trovare un compromesso tra gli uomini di potere del vecchio regime e la rivoluzione, perché nessuno di loro sarà in grado di prendere e mantenere realmente tutto il potere. Da una parte i nuovi attori sono troppo frammentati, non sono abbastanza potenti e organizzati, dall’altra il vecchio regime non può tornare perché ha fallito e difficilmente potrà riconquistare le posizioni che aveva in precedenza. Come sono entrati i Fratelli Musulmani in questo contesto? In questo quadro i Fratelli Musulmani non facevano parte né della rivoluzione e nemmeno del regime. Hanno negoziato prima con il vecchio regime e poi con l’esercito, partecipando solo sporadicamente alla rivoluzione e osservando cosa sarebbe stato più vantaggioso per loro. Fin dall’inizio però, per l’esercito è stato chiaro che l’unico attore disponibile a collaborare era la Fratellanza e la coalizione si è formata di conseguenza, anche se rimaneva piuttosto debole sotto alcuni aspetti. Primo, perché gli ufficiali che guidavano il Paese non erano uomini politici, né bravi negoziatori e non conoscevano l’agenda socio-economica egiziana, dato che da molto tempo l’esercito era lontano dalla sfera politica. Secondo, i Fratelli si sono concentrati soprattutto sulla costruzione di uno Stato islamico attraverso le elezioni e, dopo aver accettato alcuni compromessi (nessuna revisione dei trattati con Israele, nessun problema con il FMI, tutela degli interessi americani) avevano ottenuto l’appoggio di alcuni Paesi occidentali. Come si spiega il fallimento dei Fratelli Musulmani nel governo del Paese? Una volta vinte le elezioni, tutto sembrava deciso, perché i Fratelli (e i loro alleati salafiti) erano forti della vittoria al referendum e alle elezioni presidenziali avevano ottenuto il 51 % dei voti a sostegno del loro fantoccio Mohammad Morsi. Il problema è che non sono stati poi in grado di considerare che, in una democrazia non ancora matura come l’Egitto, il 51% delle preferenze non è sufficiente per formare un governo – che sarebbe stato debole comunque. Con quella percentuale di voti avrebbero dovuto ampliare lo spettro degli alleati, per arrivare almeno al 70% dei consensi. Ma la Fratellanza ha lavorato nella direzione opposta, perdendo anche tutti coloro che l’avevano sostenuta con la speranza che portasse stabilità. A un certo punto anche i salafiti se ne sono distaccati e al momento di scrivere la Costituzione i Fratelli si sono occupati soprattutto dell’identità islamica del Paese, con un risultato disastroso. Inoltre hanno fallito nel convincere gli strati sociali vicini al vecchio regime, forti nel settore privato, che potevano fidarsi di loro, trovandosi così in una posizione a metà tra i rivoluzionari e il vecchio regime. Potevano a questo punto cercare un compromesso, ma ormai erano isolati e avevano perso la fiducia di entrambi gli schieramenti. Il 30 giugno 2013, attraverso una semplice petizione, Tamarrod ha costituito la più potente manifestazione nella storia dell’Egitto e l’esercito ha potuto inserirsi, destituendo Morsi. Oggi sappiamo che i militari avevano offerto al presidente in carica la possibilità di un referendum sull’organizzazione di elezioni presidenziali anticipate, ma questi ha rifiutato. Si è così passati allo scontro totale a cui l’esercito si stava preparando da tempo. E che prospettive vede per l’Egitto? Io penso che lo scontro continuerà perché è la modalità scelta dai Fratelli, ma anche per quello che ne è seguito: la Fratellanza ha ucciso alcuni civili per le strade; mentre l’esercito e la polizia hanno perso degli uomini per mano di persone, non membri effettivi dei Fratelli, che per un motivo o per l’altro protestavano per la destituzione di Morsi. Nel frattempo il referendum sulla nuova Costituzione ha inaugurato il nuovo regime e il generale Abdel Fattah al-Sisi è stato eletto alla presidenza. È probabile a questo punto che si vada verso una guerra civile cronica di bassa intensità, ma al contempo non è chiaro come la nuova presidenza gestirà il compromesso tra vecchio regime e rivoluzione. Ci sono dei segni che indicano che la cosa possa procedere, ma dal momento che tutte le parti in gioco sono instabili e non ben organizzate politicamente, le decisioni continuano ad essere prese dall’alto e non attraverso il dibattito politico. Poco tempo fa, ad esempio, il generale ha chiesto di promulgare una legge per condannare chi offende la rivoluzione. Questo perché alcuni media privati, appartenenti ai sostenitori del vecchio regime, attaccano di continuo la rivoluzione, gridando alla cospirazione e all’illegittimità di al-Sisi; la recente assoluzione di Mubarak e la sua scarcerazione segnano per loro una vittoria. Ora dobbiamo aspettare però le elezioni del Majlis al-sha‘b (L’Assemblea popolare) per verificare che questo compromesso possa essere meno organizzato dall’alto e più politico.